di Maria Dente Attanasio
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 45 | estate 2021
È stata l’età dell’oro del cinema hollywoodiano a generare l’ultima grande mitologia della storia umana. La Diva – arcano connubio tra la carne e la celluloide, creatura antropomorfa sospesa tra il terreno e il divino, quintessenza di una bellezza al contempo iper-sessualizzata e frigida, tanto stucchevole quanto intangibile – ne fu l’espressione più pervasiva e fatale. La Diva non è l’attrice e non è la donna, o meglio, è la donna fagocitata dall’attrice. La Diva è la riformulazione queer dell’archetipo femminile, una sorta di travestito biologico che fa genere a sé, infinitamente desiderabile ma assolutamente improfanabile.
Regina tra i sudditi, dea tra i mortali, la Diva vive mille vite e nessuna. Non ha età. Il suo tempo è quello di una posa o di un bacio appassionato. Può manifestarsi solo nella propagazione della stessa aura leggendaria che ne ha cristallizzato il mito. Se esiste lo è solo in virtù di una proiezione sullo schermo luminoso o di una impressione sulla carta patinata. La Diva è distante, inafferrabile, talmente iconica da rasentare l’invisibile. Sta lì, in una dimensione parallela inaccessibile ai più, e vive in un mondo dorato e perfetto. Amata, felice, ricchissima, eternamente giovane e tremendamente bella.
Diva tra le dive fu sicuramente Joan Crawford, star mondiale e icona della grande industria del cinema di Hollywood. L’American Film Institute l’ha collocata al decimo posto della classifica delle “50 attrici più importanti della storia del cinema”. Joan Crawford conobbe un successo planetario, in un’epoca (in particolare quella dalla metà degli anni Venti alla metà degli anni Quaranta) in cui le celebrità cinematografiche erano venerate dal grande pubblico alla stregua di vere e proprie divinità incarnate. La Crawford fu Diva fino in fondo, sotto i riflettori come nella vita privata, on the set & in the bed, in un’unica soluzione di continuità. Un divismo, il suo, figlio di quegli anni e oggi non più replicabile. Del successo – come la Garbo, la Dietrich e la Davis – assaporò nettari e veleni, lottando con tutta sé stessa per mantenere alto e lucente il suo scettro regale. Non imitò uno stile, ma seppe crearne uno. Inimitabile. Unico. Iconico. Quello che perseguì con più abnegazione e ostinazione, senza sosta e con ogni mezzo, fu la perfezione. Naturalmente, la sua idea di perfezione.
Oggi il suo mito, un po’ offuscato qui in Italia, rivive grazie alle ristampe in dvd di tutti i suoi film; un’occasione ghiotta per riassaporare le sue interpretazioni memorabili in Mannequin (1937) di Frank Borzage, A Woman’s Face (1941) di George Cukor, Humoresque (1946) di Jean Negulesco, Daisy Kenyon (1947) di Otto Preminger, Flamingo Road (1949) di Michael Curtiz o The Damned Don’t Cry (1950) di Vincent Sherman (per non citarne che alcuni). In Italia la sua voce – ferma, limpida, austera, passionale – è stata magnificamente doppiata in gran parte delle pellicole da Tina Lattanzi e Lydia Simoneschi.
Lucille Fay LeSeur nasce a San Antonio (Texas) il 23 marzo 1904, terzogenita di Anna Bell Johnson e Thomas E. LeSeur. Il padre, un poco di buono, abbandona la famiglia prima che Lucille venga alla luce. La madre si risposa presto con Henry J. Cassin e il nuovo nucleo familiare si trasferisce prima a Lawton (Oklahoma) e poi a Kansas City (Missouri). L’infanzia di Lucille non è delle più rosee. All’età di undici anni comincia a subire abusi dal patrigno e, a soli quattordici anni, viene messa incinta da un laido impresario; l’aborto comprometterà per sempre la sua capacità di generare. Giovanissima comincia a esibirsi come ballerina di fila o solista in diverse compagnie itineranti. All’età di vent’anni, dopo aver superato un provino con il noto produttore Harry Rapf lascia Kansas City per trasferirsi a Culver City (California), sede dei mitici teatri di posa della Metro Goldwyn Mayer. Nel 1925 l’ambiziosa Lucille entra in punta di piedi come comparsa in pellicole di King Vidor, Hobart Henley, Erich Von Stroheim e Monta Bell.
Nel film The Circle, di Peter Smith, la giovane attrice è per la prima volta accreditata come Joan Crawford (il nome d’arte venne selezionato dai lettori della rivista Movie Weekly attraverso il concorso Name the Star). Il primo ruolo di rilievo arriva con il musical Sally, Irene and Mary di Edmund Goulding, ma è ballando il charleston nel musical del 1928 Our Dancing Daugthers di Harry Beaumont che Joan Crawford diventa ufficialmente una star. A bucare lo schermo non è solo l’aggraziata fisicità anni Venti, ma soprattutto la grinta, la disinvoltura scenica e la carismatica espressività. Nella delicata congiuntura tra muto e sonoro, fiutata l’enorme potenzialità del medium cinematografico, Joan Crawford studia dizione per mitigare quanto più possibile l’accento texano.
Nel 1929 recita in Untamed di Jack Conway, il suo primo film sonoro, e sposa Douglas Fairbanks jr. (figlio di Douglas Fairbanks e figliastro di Mary Pickford), imparentandosi così con “la stirpe reale di Hollywood”. Sarà solo il primo di ben quattro matrimoni. Nelle relazioni, per via del suo difficile vissuto, ha investito forse con poca convinzione. Il lavoro (l’affermazione) ha sempre avuto la priorità. Lucille LeSeur ha convogliato tutta la sua energia per costruire, passo dopo passo, il mito di Joan Crawford. Desiderosa di riscatto, ha lottato per tutta la vita prima per trionfare e poi per sopravvivere nel diabolico ingranaggio di Hollywood. La determinazione e il coraggio non le sono mai mancati. Maniaca della perfezione, dell’ordine e della pulizia, ha sviluppato negli anni una personalità vieppiù risoluta e intransigente, a tratti dispotica. Caratteristiche, queste, che ha saputo abilmente trasferire sullo schermo, individuando uno stile interpretativo personalissimo.
Nel corso degli anni Trenta, sotto contratto con la MGM, interpreta ben venticinque film, divenendo una delle star più pagate e adorate di Hollywood. Nel ‘40 adotta Christina e, due anni dopo, Christopher; successivamente, nel ’47, adotterà le gemelle Cindy e Cathy. Nel ’43, dopo alcuni flop al botteghino, la MGM non le rinnova il contratto. Gli alti e bassi sono inevitabili e, la Crawford lo sa bene, quello di Hollywood è un meccanismo spietato. A giocare in suo sfavore è soprattutto l’avanzare dell’età. Nel ’44 firma per la Warner Bros e, decisa a non demordere, supera il provino per il ruolo da protagonista in Mildred Pierce di Michael Curtiz, ruolo che le varrà l’oscar come migliore attrice protagonista.
A quarant’anni Joan Crawford è ancora nel pieno della sua bellezza. Il suo stile detta mode. È in questo frangente che la sua iconicità si palesa con maggiore pregnanza: il portamento statuario, l’acconciatura domata e impeccabile, lo sguardo aggettante incorniciato da sopracciglia folte, le labbra turgide e disegnate; tutte caratteristiche che, negli anni Cinquanta, subiscono una rimarcata amplificazione fino ad assurgere a una sorta di maschera attoriale. Il talento di Miss Crawford è ben testimoniato dai circa novanta film che l’hanno vista come protagonista. Con consumata disinvoltura si è saputa calare nei panni della donna retta e virtuosa (Mildred Pierce, Johnny Guitar…) come in quelli dell’arpia tagliente e spietata (Queen Bee). Ma, a quale delle due personalità era maggiormente affine? È lecito credere al deplorevole ritratto postumo (1978) che ne ha tracciato la figlia adottiva Christina nel memory Mommie Dearest?
Una dettagliata retrospettiva della vita e della carriera di Joan Crawford è ben rispolverata da Davide Steccanella nel recente Joan Crawford. Damnatio memoriae di una stella (Ghibli, 2021). «Credo che sia venuto il momento di liberare Joan Crawford – scrive Steccanella – dall’assurda damnatio cui l’ha condannata la figlia e di restituire il giusto valore artistico a una delle più grandi attrici del ventesimo secolo.» Christina Crawford riferisce di una madre anaffettiva, alcolizzata e violenta. Traccia l’impietoso ritratto di una diva patetica, ossessionata dal suo stesso personaggio, libertina tra le mura domestiche, severa e autoritaria oltre ogni misura. Quella che Christina racconta e denuncia non è tanto la cattiveria di un soggetto egoico e disturbato, quanto la malattia dell’anima di una donna che non trova pace né dentro né fuori da sé stessa. Tra le righe traspare infatti, e dolorosamente, anche il difficile amore che legava madre e figlia.
Nel suo testamento la Diva non lasciò un soldo ai suoi primi due figli adottivi. Quella di Christina è stata dunque solo una forma di vendetta? Steccanella è di questo parere. Non nega che possano esserci stati dei dissidi tra madre e figlia, né tantomeno nega il noto carattere difficile e spigoloso di Miss Crawford. Questa biografia – seconda in Italia a quella di Alexander Walker: Joan Crawford. L’ultima Diva (A. Vallardi, Garzanti, 1989) – è un invito a riscoprire il profilo originario della grande attrice sepolto sotto la sovrapposizione postuma inflittale dalla figlia. Nel libro è demolita, forse troppo severamente, anche la trasposizione cinematografica del memory realizzata nel 1981 da Frank Perry. Qui una strepitosa Faye Dunaway si cala anima e corpo in una Joan Crawford estrema e dolorosamente caricaturale. Il film non piacque alla stessa Christina. Se il regista abbia o no calcato troppo la mano su certi aspetti inquietanti della personalità della Crawford è davvero arduo stabilire. Ad emergere, però, con straordinaria efficacia, è il karma archetipico che l’immaginario collettivo assegna alla Diva: prima lo splendore, poi la rovinosa débâcle (il demone della perfezione che trascina con sé il destino della dannazione). Quest’aura maledetta, checché se ne dica, ha contribuito non poco ad accrescere e valorizzare il mito della Crawford.

Difficile pensare che nelle parole di Christina non ci sia del vero. Difficile figurarsi la Crawford come una donna amorevole, vittima delle menzogne di una figlia delirante. Stiamo sempre parlando del volto che ispirò la malvagia Grimilde del primo lungometraggio disneyano (Biancaneve e i Sette Nani) e, successivamente, la perfida Crudelia De Mon de La Carica dei Cento e Uno. Vero è che un conto è sembrare cattiva e un altro è esserlo davvero. La verità, con ogni probabilità, va ricercata nel mezzo. Con buona pace dei detrattori di Mommie Dearest, Joan Crawford resta comunque una Queen of Movies di Hollywood, icona indelebile dell’âge d’or del cinema.
Tra le sue interpretazioni più struggenti va menzionata sicuramente quella in What Ever Happened to Baby Jane?, film cult di Robert Aldrich del 1962, dove recita al fianco dell’eterna rivale Bette Davis. Dal 1925 al 1970 la filmografia di Joan Crawford, tra alti e bassi, testimonia una versatilità sorprendente e un talento attoriale a tutto tondo. Nei suoi ruoli più pregnanti ha saputo veicolare l’immagine di una donna strutturata e determinata, femminile ma al contempo autorevole e dominante, mai accessoria. In My Way of Life, la sua autobiografia pubblicata nel 1971, dichiara: «(…) Quello che esigo da me stessa è incredibile. Mi aspetto la perfezione. La ottengo, in rari momenti, ma sono comunque troppo pochi.»
Maria Dente Attanasio
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 45 | estate 2021
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