Un racconto di Paolo Schmidlin
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 45 | estate 2021
Severa e sdegnosa ma non spettrale; così appariva la vecchia villa, impenetrabile nel suo isolamento, con le persiane color fegato serrate e la cupola a pagoda del corpo retrostante che si stagliava contro la massa scura dei pini.
Incuteva una sorta di soggezione, un vago sentimento di rispetto, come davanti a un’anziana signora in lutto. Forse per questo, dopo tanti anni, ancora non era stata profanata da estranei: nessun vandalo aveva avuto l’ardire di varcare quella soglia, come in genere accade con le dimore in abbandono.
Era passato almeno un decennio dalla morte della proprietaria e da allora il silenzio regnava sul giardino incolto e le foglie secche si erano accumulate sui gradini d’ingresso, fin sulla porta; persino gli uccelli sembravano evitare di fare il loro nido nei paraggi e tra l’erba alta nessun passo umano, ma solo il fruscio di qualche serpe che aveva fatto il suo nido nei vecchi muri.
Quando la signora Hermina, molti anni prima, era approdata al paese arrivando dalla profonda Germania – proprio da una cittadina della Foresta Nera, luogo che già col suo nome evocava favole cupe e incuteva un certa timorosa reverenza negli abitanti – era una bionda di mezza età ancora piacente, con inquisitori occhi celesti e un seguito di valige e bauli che ai paesani era apparso spropositato. Con piglio deciso aveva subito preso possesso della villa, fatto riparare il tetto, rinnovato i bagni, fatto risistemare il grande giardino, cintato da bassi muretti in granito e cancelli di ferro battuto.
Era una donna cortese ma poco incline alle confidenze e si esprimeva fluidamente con un forte accento germanico. Quando dalla villa, che si trovava in una zona un po’ rialzata, proprio ai piedi della montagna, essa scendeva nel borgo, si limitava a sbrigare le necessarie commissioni e si relazionava con i locali con garbo ma pochi convenevoli.
Pochi mesi dopo in casa si era installata una governante, arrivata dalla toscana in un mattino di pioggia battente: l’Amaranta. Da allora era stata lei a occuparsi di certe incombenze, come le spese e la posta. L’Amaranta era più socievole, si fermava a parlare con i bottegai, non rifiutava se le veniva offerto un bicchierino di sambuco; con la sua presenza colmava quel fossato di diffidenza e faceva da intermediaria tra la signora e gli abitanti del villaggio, fino allora chiusi ognuno nel proprio riserbo. Lei era più giovane della “padrona”; era una mora solare, sui trentacinque anni con il sorriso pronto e uno sguardo diretto che ispirava fiducia. La sua presenza allegra contribuì lentamente a sgretolare quel muro di estraneità e ritrosia che si era creato tra la gente del posto e la signora.
L’Amaranta chiacchierava volentieri – sempre attenta a non addentrarsi in argomenti troppo intimi – e pian piano, attraverso quelle conversazioni, i paesani impararono a conoscere quella donna straniera che si faceva chiamare Frau Hermina ed era approdata tra loro per qualche ragione oscura. Saltò fuori che dietro a quella figura apparentemente fredda si celava un personaggio eclettico, una studiosa di occultismo, seguace della Società Teosofica, che creava medicinali naturali con oli ed erbe, sapeva leggere le carte, cogliere i cambiamenti legati ai transiti dei pianeti e trovare risposte attraverso le ritmiche oscillazioni di un pendolo.
I locali cominciarono a guardarla con altri occhi e timidamente cercarono di rompere il ghiaccio. Dapprima qualcuno si azzardò a mandarle in regalo un cestino di nespole mature; poi Gemma, la fioraia, le recapitò una pianta di peonie bianche screziate di rosso da piantare in giardino… Persino la Pinetta, la più anziana del paese, le fece avere, attraverso la governante, dei guanti e una sciarpa colorata, fatti con avanzi di lana faticosamente da lei sferruzzati con le dita ritorte dall’artrosi.
Così il portoncino di mogano della villa finì con l’aprirsi al paese. Di tanto in tanto qualcuno chiedeva all’Amaranta un appuntamento con la signora e si presentava all’uscio col cappello in mano e un mazzetto di fiori o una caciottella di capra come cadeau.
All’interno di quelle stanze misteriose, profumate d’incenso d’Harar, si svolgevano colloqui molto particolari tra Hermina e l’ospite, che tra timore e fascinazione, svelava i propri problemi: una malattia debilitante, una moglie che pareva sterile, una vacca che non si alzava più dal giaciglio. E nella penombra del salottino che guardava verso il bosco, seduti a un tavolo rotondo, tra mazzi di carte, consegne di flaconcini di vetro contenenti misteriosi distillati dai riflessi d’ambra, vibrazioni di un ipnotico pendolo in cristallo, si svolgeva un rito confidenziale e antico. I nodi sembravano sciogliersi e, alla fine, il visitatore si congedava con un profluvio di ringraziamenti e mezzi inchini a mani giunte.
Tuttavia i due mondi, che pur ora s’incrociavano, rimanevano distanti. I paesani osservavano la vita della casa e la signora col reverenziale rispetto che si prova per una “santona”, ma la devozione – si sa – è ben diversa dall’affetto.
Quando in certe notti d’autunno prossime al plenilunio il giardino della casa s’illuminava dei baluginii di decine di candele accese per qualche rito propiziatorio o quando la signora e l’Amaranta bruciavano qualcosa in misteriosi falò sul retro della villa, loro osservavano quegli incomprensibili cerimoniali con sospetto e un certo timore.
Poi, a ben guardare, il rapporto tra quelle donne era assai strano… Si era mai vista una vera signora dare tale confidenza a una governante? Certe sere d’estate, quando le finestre al primo piano restavano aperte per fare entrare la brezza profumata di caprifoglio e d’osmanto, se si passava nei paraggi le si sentiva ridere; ma non erano sempre risatine discrete… erano delle vere risate, a crepapelle, come quelle di due ragazzacce che scherzano tra loro, un po’ brille. I paesani non riuscivano a credere che la severa Hermina fosse partecipe di quell’allegria scomposta. Spesso c’era anche della musica, ma non quartetti di violoncello come si sarebbero aspettati, bensì una musica “moderna” che in quel contesto aveva qualcosa di addirittura peccaminoso. No, non era normale! I paesani non criticavano apertamente ma, guardandosi l’un l’altro, stringevano le labbra e alzavano le sopracciglia, come a dire: “Comportamenti senza dubbio bizzarri, ma tolleriamo finché è possibile”.
Il fatto che fece drizzare le orecchie a tutti, fu quando la “Luigina delle pecore”, passò di lì in una sera di vento per andare a controllare che il vecchio fienile di sua proprietà reggesse alle folate… e le vide: in una camera illuminata del primo piano le due donne stavano in piedi, abbracciate. L’Amaranta teneva la testa appoggiata alla spalla della signora che con una mano le accarezzava, lentamente, la schiena. Poi si spostarono, tenendosi per mano, verso una zona purtroppo nascosta alla vista. La contadina rimase lì, pietrificata dallo stupore, in mezzo alle raffiche di vento che le frullavano le sottane.
Il sussurro passò di bocca in bocca, ma è risaputo che la convenienza vince sul moralismo; per cui tutti digerirono quel boccone dal gusto strano e continuarono a recarsi dalla tedesca, accompagnati dal fardello delle proprie richieste e dei propri crucci. Trovavano sempre una buona parola, un rimedio, un consiglio, un magico elisir. Frau Hermina era per loro, al contempo, un confessore, un medico, una fattucchiera. Tutti uscivano dalla sua casa con l’animo un po’ più leggero.
L’Amaranta però non visse a lungo. A quarantaquattro anni fu colta da un male allo stomaco che rapidamente la consumò; a nulla valsero con lei i rimedi e gli intrugli della signora, che già aveva presagito il peggio quando dal mazzo dei Tarocchi era uscito, in posizione nefasta, il XVI arcano: la Torre. La videro deperire di giorno in giorno. Quando morì, l’Amaranta era tutta occhi; quei begli occhi allegri apparivano dilatati e sprofondati nelle orbite come laghi scuri.
Frau Hermina ne fu straziata. A lungo non volle più vedere nessuno. Però i paesani, nel loro modo timido e schivo, si erano affezionati a quella figura rassicurante e non la lasciarono sola. Dapprima le portavano a casa delle provviste, lasciandole davanti all’ingresso. A un certo punto qualcuno osò suonare, e si avviarono brevi formali conversazioni; la signora appariva pallida e smagrita. La svolta fu quando la Giancarla, la parrucchiera a domicilio, le regalò una cagnolina in un cestino di vimini, col pretesto che, una volta cresciuta, potesse fare la guardia: la Birbi. Con quella compagna vivace e instancabile, la signora parve riprendersi; ricominciò a uscire e gradualmente nella vecchia casa si ricreò il consueto andirivieni di visite. Che col tempo divennero meno opportunistiche e maggiormente confidenziali. La tedesca sorrideva di più, domandava delle famiglie, offriva biscotti un po’ stopposi al luppolo selvatico.
Visse altri vent’anni, rispettata e finanche amata dalla gente del posto.
Poi una mattina di fine gennaio notarono che la spesa del giorno prima non era stata ritirata. Cautamente entrarono in casa e la trovarono in camera, distesa a faccia in giù sul pavimento. La finestra era spalancata e nella stanza era penetrato tutto il freddo dell’inverno. La signora, lì immobile da oltre un giorno, ghiacciata ma ancora viva: “Lasciatemi andare…” implorò. Il suo corpo ossuto, avvolto in una sgargiante vestaglia ricamata con disegni di pavoni, ricordava un magnifico uccello esotico crudelmente abbattuto.
Dopo la sua morte, la casa rimase inviolata per anni.
Ma una sera d’autunno i due figlioli del Zanzi, il proprietario della trattoria sul ponte, con l’incoscienza e la curiosità della loro età, s’intrufolarono nella villa forzando una finestrina bassa, sul retro, che si apriva sulla lavanderia.
Da lì s’inoltrarono, facendosi strada con la fioca luce di una torcetta a pile, nel silenzio delle stanze superiori dove, dopo anni, ancora si percepiva nell’aria un vago sentore d’incenso. Sobbalzavano ad ogni cigolio, ad ogni scricchiolio dei vecchi parquet ma andarono avanti nell’esplorazione. La luce della torcia colpiva oggetti che all’improvviso emergevano da buio come visioni: un vaso con dalie di seta polverosa, una pendola muta da anni, la sagoma sinistra e tarmata della cagna Birbi, che era stata amorevolmente impagliata dopo esser morta per un prolasso.
In fondo a un corridoio furono attratti da un lieve bagliore, che proveniva dal famoso salottino delle visite; un lucore azzurrino, come di un televisore dimenticato acceso su un canale morto. Quando si avvicinarono, col cuore in gola, le videro… Videro due sagome che sembravano fatte della materia impalpabile del sogno, che emanavano un leggero chiarore di fosforo. Una era in piedi e appoggiava la mano sulla spalla dell’altra che, seduta al tavolo, teneva tra pollice e indice un pendolo di cristallo.
I ragazzini sentirono tutti i peli del corpo rizzarsi e se la diedero a gambe, incespicando qua e là e sbucciandosi le ginocchia per uscire in fretta e furia dalla stretta finestrella da cui erano entrati.
Da allora la vecchia casa rimane chiusa nel suo silenzio denso di segreti e, dall’alto, sembra vegliare sul paese.
Paolo Schmidlin
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 45 | estate 2021
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