di Massimiliano Sardina
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 45 | estate 2021
Che cos’è la follia? Un cortocircuito cerebrale? La mera assenza di lucidità e razionalità? E se invece fosse ben altro? Se il folle fosse qualcosa di più di un semplice malato psichiatrico? «La follia è la sorella sfortunata della poesia.» sono parole del poeta romantico tedesco Clemens Brentano. La letteratura e la poesia, bypassando i rigidi confini tracciati dalla scienza medica, possono talvolta suggerire risposte meno circoscritte. E se la follia – questa inguaribile inquietudine – fosse solo una condizione spirituale?
Stefano Redaelli, professore di Letteratura italiana presso la Facoltà di “Artes Liberales” dell’Università di Varsavia, da anni concentra i suoi studi sui rapporti tra scienza, follia, spiritualità e letteratura. Beati gli inquieti (Neo, 2021), lungi dall’esaurirsi in un elogio della follia, vuole offrirsi piuttosto come un’indagine senza filtri sulla condizione umana (per sua natura inquieta, irrisolta, alla perenne ricerca di un equilibrio, di una direzione di senso, di una felicità, e mai complessivamente pacificata). «Se la letteratura è una lente di ingrandimento, – scrive Redaelli – la follia è più potente. È lente e specchio.»
Il romanzo vede come protagonista Antonio, un giovane ricercatore universitario che ha scelto la follia come oggetto di studio. Dopo anni di lavoro sui testi ora vuole conoscerla da vicino, analizzarla nel profondo e sperimentarne sulla sua pelle tutti gli strali. Ha in progetto di scrivere un libro, una testimonianza ragionata che possa, una volta per tutte, fare finalmente chiarezza. Con il consenso della direttrice del centro di riabilitazione psichiatrica Casa delle farfalle, Antonio decide di fingersi un paziente. Il suo sarà, a tutti gli effetti, un «autoricovero a fini letterari»: conoscere la follia per poterla raccontare. «…sono venuto qui per vedere i folli da vicino, conoscerli, perché i libri non mi bastavano più.»
Nella Casa delle Farfalle, folle tra i folli, Antonio entra in contatto con Angelo, Carlo, Simone, Marta, Cecilia e tutta una disperata umanità tenuta a distanza, trattenuta e neutralizzata. Gli accordi prevedono che il suo soggiorno in incognito duri una settimana, un tempo utile per osservare, ascoltare, interagire e comprendere. Reciterà bene il suo ruolo, nessuno dovrà accorgersi dell’impostura. Troverà lì, a stretto contatto con i malati psichiatrici, tutte le risposte che cerca. Ogni sera prenderà appunti, trascrivendo tutto con minuzia di particolari.
«Dovrei descrivere la noia, la nevrosi del vuoto scandito dal fumo, dalle medicine, dal cibo. Invece voglio cercare quello che c’è dentro, oltre questo spazio in cui la follia è incubata.» Antonio scrive al presente, perché tra le mura di quella struttura è l’unico tempo che riesce ad afferrare. Assimilando le storie dei suoi compagni – storie segnate da una sconfinata solitudine – diventa consapevole, giorno dopo giorno, che «il passato è il tempo dei depressi (…) Scrivo al presente perché è il tempo degli schizofrenici, una specie di collante per riattaccare pezzi di vita sospesi nell’aria, senza direzione, senza passato, senza futuro. Scrivo cose che non sono mai uscite da queste mura. Cose nascoste. Cose inaudite.» Il suo lucido io-narrante finisce gradualmente per dilatarsi in un coro folle, passionale, disperatamente umano. «Esisto quando mi ascolti, quando scrivi.» – gli dirà Marta. Sembra che tutti dicano cose insensate e adottino comportamenti imprevedibili, ma nessuno di loro mente. Tutti, nella Casa delle Farfalle, dicono la verità. Antonio fa sua questa consapevolezza, smette di cercare risposte definitive e, con empatia struggente, matura un forte senso d’appartenenza con il gruppo e una misteriosa – cristiana – reciprocità. «Ho discostato una porta e quel che ho visto ha suscitato nuove domande.»
Angelo, Carlo, Simone, Marta, Cecilia… Ai suoi occhi non sono che dei piccoli e indifesi cristi patiens. «Io dico che c’è del cristianesimo nella follia.» Malati sì, ma soprattutto beati. «Al cristianesimo la malattia è necessaria, pressappoco come alla grecità è necessaria un’esuberanza di salute (…) Chi conosce la loro beatitudine? Chi? Nessuno! È un tesoro seppellito in un terreno incolto.» Li vede come dei beati, ma Antonio non si sente beato. La sua pena, ora lo comprende, è tutta compresa nello «scarto tra malattia e beatitudine.» La permanenza nella struttura psichiatrica porterà il protagonista di fronte a un complesso gioco di specchi. Attraverso il confronto con i malati-beati, con i pazienti-patiens, Antonio farà i conti con se stesso arrivando a mettere in discussione la sua stessa sanità mentale, la sua stessa verità.
Alla fine dell’esperienza il ricercatore si ritrova al cospetto delle stesse domande. Chi sono i folli? Sulla base di quanto ha compreso potrà forse rispondere che sono dei diversamente liberi, e che «la loro libertà mette in crisi la nostra. Per questo gliela togliamo.» E ancora, più precisamente, che cos’è la follia? Se è una malattia, se ne può forse guarire? Sono stati Angelo, Carlo, Simone, Marta e Cecilia a suggerirgli che la cura più efficace per guarire dalla follia «è il fiore delle farfalle. Cresce sui dirupi e luoghi incolti. Ha un colore azzurrolilla, profuma di miele, fiorisce tutta l’estate, le farfalle ne vanno matte.»
Con Beati gli inquieti Redaelli osa un nuovo e coraggioso approccio nei confronti della follia, sviscerata nei suoi misteri più profondi e spirituali, e affrancata da tanti stereotipi squisitamente clinici. Della follia fa soprattutto emergere la grande intrinseca libertà che vi è sottesa, una libertà altra, tremendamente umana. Inquieta.
Massimiliano Sardina
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 45 | estate 2021
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