di Elena De Santis
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 44 | primavera 2021
L’amore, cos’altro è, se non un sogno a occhi aperti che trasforma l’amato in un ordito di rappresentazioni? Non proferì mai parola il più grande amatore della storia del cinema. Era nato nel 1895, lo stesso anno in cui nasceva il cinema, e morì nel 1926, un anno prima che il cinema iniziasse a parlare. La sua immagine sul grande schermo fu l’epifanica apparizione d’un uomo che incarnava tutto il fascino e il mistero dell’esotico, il cui talento risiedeva nello sguardo prima ancora che nella recitazione; uno sguardo algido, passionale e sfuggente, lo sguardo di chi, straniero, giunge da lontano e guarda lontano. Su quell’immagine muta e ammaliante si cristallizzarono in modo rapido e inatteso le proiezioni e le più ardite fantasie di quante sognavano in cuor loro d’esser rapite e portate via. Nasceva così il mito hollywoodiano di Rodolfo Valentino, primo latin lover della storia. La morte prematura, avvenuta a soli 31 anni, ne suggellò per sempre la fama e la gloria.
Nessuno dei suoi compaesani di Castellaneta (Taranto), dove era nato Rodolfo Gugliemi, lo avrebbe mai detto; nessuno dei suoi connazionali gli avrebbe dato credito. I suoi primi 13 anni vissuti in Italia lo davano come un ragazzo inconcludente, con scarsi profitti alle scuole elementari, radiato per cattiva condotta dal Convitto per gli Orfani dei Sanitari Italiani di Perugia, scartato dall’Accademia di Marina di Venezia, infine diplomatosi in agraria a Sant’Ilario di Nervi (Genova). Né erano state troppo pretenziose le sue aspirazioni, quando, nel 1913, era giunto a New York con l’intento di trovare lavoro in campo agricolo, senza però riuscirci. L’insuccesso lo fece ripiegare dapprima a fare l’accompagnatore in un night club, poi, grazie alle sue innate doti di ballerino, riuscì già dall’anno seguente a guadagnarsi qualche ruolo in alcuni film, fino alla definitiva consacrazione del 1921 con il ruolo principale ottenuto nel film I quattro cavalieri dell’Apocalisse. Il resto della storia è impresso in pellicole che, al di là del loro effettivo o discutibile pregio artistico, hanno fatto di lui un’icona ancora oggi di forte pregnanza evocativa nell’immaginario collettivo. Tanto che, più dell’immagine stessa, il nome in sé ha assunto una valenza iconografica che lo rende sinonimo di fascino e seduzione. Raggiunta e sorpresa dalla sua fama, la patria ricorda Rodolfo Valentino come “Nome che in terra straniera significò arte e bellezza italica”.
Ma a contribuire al mito di Valentino fu insospettabilmente anche la letteratura, non solo perché la sua fortuna cinematografica ebbe il battesimo nella scrittura della sceneggiatrice June Mathis, che lo impose come protagonista del film ispirato al romanzo di Vincent Blasco Ibanez, ma anche per due opere letterarie, entrambe di carattere autobiografico, che lo stesso ci ha lasciato: la raccolta poetica Day Dreams e My Private Diary. Fu durante un periodo di sospensione dal lavoro, a causa di un contenzioso con la produzione cinematografica per cui lavorava, che Valentino affidò alla poesia i suoi pensieri e le sue riflessioni.
Una poetica semplice e criptica allo stesso tempo, che sembra tradire una volontà dissimulatoria, un timido ed esitante canto di labbra tacite a cui l’autore stesso allude in uno dei suoi versi, come a voler denunciare un silenzio imposto o autoimpostosi. In tutti i componimenti traspare qualcosa di inespresso, un non detto, forse per primo a se stesso, che preme e si arresta sulla soglia. Una poesia non eccelsa, che a tratti ricorda la poetica del fanciullino di pascoliana memoria, e che la critica giudicò piuttosto scialba, infantile, priva di dignità letteraria, ma che certamente lascia intravedere qualcosa di irrisolto nell’animo inquieto di Rodolfo, un dubbio frequente che lo interroga sul senso della vita e del percorso da lui intrapreso; pervasa da un sentimento nostalgico che lo richiama alla perduta spensieratezza dei primissimi anni, se mai spensierato fu; con l’immancabile critica a una società ipocrita e materialista, e soprattutto con un sentimento del sacro che ha i caratteri di una spiritualità panteistica capace di stabilire frequenti connessioni analogiche tra l’uomo e la natura.
Un anno dopo la sua morte, la seconda moglie Natacha Rambova, nel libro Recollections, sostenne che le poesie di Day Dreams sarebbero state dettate a Valentino da grandi scrittori del passato tramite scrittura automatica, nel corso delle sedute spiritiche che tenevano periodicamente; le iniziali poste tra parentesi sotto i titoli di alcuni componimenti si riferirebbero ai nomi di coloro che li hanno ispirati. Pare comunque che la stessa Rambova abbia messo mano nella loro stesura, insieme all’agente di Valentino, George Ullman. Se di una trovata editoriale si trattò, sicuramente ebbe molto successo, dato che alla sua uscita nel maggio del 1923 Day Dreams vendette più di mezzo milione di copie. Tradotta con il titolo Sogni ad occhi aperti, la raccolta è giunta in Italia solo nel 1995, in occasione del centenario della nascita di Rodolfo Valentino, a cura di Antonio Miredi e traduzione di Marinella Grosa per la Petrini Libreria di Torino. Una seconda pubblicazione a cura e traduzione di Paolo Orlandelli è del 2006 per la Newton Compton Editori.
Elena De Santis
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 44 | primavera 2021
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