di Gaetano Platania
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 44 | primavera 2021
Nel romanzo La forma del silenzio (Ponte alle Grazie, 2020), lo scrittore milanese Stefano Corbetta dà voce alle «parole mute» del piccolo Leo, un bambino affetto fin dalla nascita da sordità bilaterale profonda. Per eludere la straniante condizione ovattata – consapevole di trovarsi a vivere «dietro una parete di cristallo che lo teneva lontano dagli altri e teneva gli altri lontano da lui», – Leo ha affinato una particolare modalità d’interazione. Per comunicare con la sua famiglia e con il mondo attutito che lo circonda ha imparato a utilizzare la Lis (la Lingua dei Segni), un alfabeto silenzioso tracciato a gesti nell’aria. Anche il disegno gli offre l’opportunità di un ponte dialogale. Da un lato i segni (aerei, volatili, trasparenti) e dall’altro i disegni, espressioni concrete di emozioni colorate e floreali. «Non pensava alle parole. Leo le vedeva prima che nascessero. Non c’era suono che le rivelasse (…) Fin da piccolo aveva imparato a scrutare gli sguardi, decifrare i movimenti impercettibili del corpo, interpretare ogni piccolo segno che potesse nascondere un’intenzione. Funi a cui Leo cercava di aggrapparsi per non scivolare in un’altra forma di silenzio, quella più cupa e desolante dentro cui la sua solitudine sarebbe diventata insopportabile (…) Se doveva dire qualcosa, stringeva gli occhi e si metteva a tracciare segni nell’aria senza mai distogliere lo sguardo da chi gli stava di fronte, una preghiera che recitava con il corpo, parole mute che sgorgavano da un angelo ferito.»
All’età di sei anni l’equilibrio psichico di Leo subisce uno stravolgimento quando la famiglia, convinta di agire per il suo bene, decide di iscriverlo all’Istituto Tarra di Milano, una scuola per sordomuti dove la Lingua dei Segni era severamente vietata. Siamo nel settembre 1964. Tutte le vicende del romanzo sono ambientate tra la campagna lodigiana e Milano. Al Tarra – che prevedeva la frequenza con pernottamento dal lunedì al venerdì, con rientro a casa nel weekend – il piccolo Leo subisce una sollecitazione destabilizzante, quella di dover muovere le labbra, non più le braccia. La scuola, in altre parole, insegnava a leggere il labiale (in quegli anni l’orientamento educativo privilegiava perlopiù questa metodologia). Per un bambino abituato a tutt’altre dinamiche comunicative ed espressive questo sovvertimento si traduce subito in una logorante frustrazione. La manifestazione del disagio, muta ma eloquente, non sortisce però un cambio di rotta nella decisione intrapresa a fin di bene dalla famiglia. A distanza di pochi mesi, in pieno inverno, una sciagura improvvisa riformula il corso degli eventi.
Il 18 dicembre 1964, in una notte di neve, il piccolo Leo scompare misteriosamente. Tutte le ricerche nell’immediato territorio e altrove si rivelano vane. Solo a distanza di 19 anni la sorella Anna, divenuta psicologa e insegnante di sostegno in una scuola elementare, perviene finalmente alla verità. Una verità emblematica, sconcertante e dolorosa. Negli anni non si era mai rassegnata di fronte a quel vuoto privo di risposte, mossa dalla profonda convinzione che, da qualche parte, doveva pur esistere «…un posto in cui tutte le parole non dette di Leo erano state accatastate come legna per l’inverno del suo silenzio.»
Le investigazioni private dell’instancabile sorella subiscono una svolta significativa quando un nuovo paziente, il venticinquenne Michele, si presenta nel suo studio manifestandosi come un’entità impalpabile che progressivamente acquisisce consistenza. Sordo anche lui dalla nascita, si rivelerà il ponte tra la scomparsa e il ritrovamento di Leo. Come Beethoven, divenuto sordo intorno ai trent’anni, anche Michele «sentiva le vibrazioni», il messaggio custodito dal silenzio; da piccolo aveva letto su un libro che il celebre compositore aveva scritto le sue opere più importanti proprio dopo l’inizio della sua malattia. «Beethoven aveva tenuto a mente la quinta sinfonia per dieci anni, nel silenzio della sua anima aveva atteso che arrivasse il momento giusto. Sapeva di non poter fare niente, soltanto aspettare (…) Immaginava i suoni, gli stessi che aveva sempre ascoltato uscire dal pianoforte prima che la sordità lo aggredisse, ogni voce dell’orchestra, e scriveva sul pentagramma le note, lottando contro la frustrazione e la rabbia per quel destino ineluttabile. Poi, verso la fine della sua vita, aveva benedetto il silenzio che lo aveva isolato dal mondo per avergli permesso di entrare nel lago oscuro del suo io più profondo. Ed era lì che la musica si era elevata a perfezione.» Depositario di una verità che attende solo di essere svelata, anche Michele, come Beethoven, dà forma al silenzio, voce al non detto, all’impronunciabile.
Parallelamente alla vicenda del piccolo protagonista, che emerge anche attraverso dinamiche narrative vicine al giallo, il romanzo di Corbetta riflette con estrema delicatezza sull’evoluzione dell’insegnamento della Lingua dei Segni dagli anni Sessanta a oggi. Il disvelamento del giallo (la verità sulla sorte del bambino scomparso) fa il paio con un silenzio – un taciuto – che, inaspettatamente, prende forma.
Stefano Corbetta, classe 1970, ha all’attivo altri due romanzi: Le coccinelle non hanno paura (Morellini, 2017) e Sonno bianco (Hacca, 2018).
Gaetano Platania
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 44 | primavera 2021
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