NON È VON GLÖEDEN | È da lì che viene la luce | un romanzo di Emanuela E. Abbadessa

di Massimiliano Sardina

Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 44 | primavera 2021

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Non è raro che l’ispirazione per il soggetto di un romanzo possa scaturire da una fotografia. Magari una vecchia fotografia in bianco e nero, di quelle smangiate sui bordi, ingiallite o sbiadite dal tempo. Lo scatto di un autore ignoto o, perché no, il capolavoro di un grande fotografo storicizzato. Nell’istantanea, custode inconsapevole della struggente fuggevolezza del vivere, il tempo sembra concedere una porzione di sé, consentendo a chi guarda di potersi affacciare da una finestra altrimenti murata. Sulle fotografie, immobili e mute testimoni di un passato irrimediabilmente perduto, sopravvivono giovinezze e solitudini d’inestimabile bellezza, atmosfere immortalate in un perfetto equilibrio di luci e di ombre. Nella sua etimologia greca, lo ricordiamo, fotografare significa scrivere con la luce. Parole oscure e luminose emergono dunque da questi piccoli fotogrammi, ritagli di mondo che al tempo stesso tacciono e raccontano. È da lì che viene la luce muove proprio da queste premesse, offrendosi come una sorta di fotografia romanzata o, specularmente, come un romanzo fotografico.

«La mia ispirazione – scrive la scrittrice e saggista catanese Emanuela E. Abbadessa nelle note a margine del romanzo – è prima di tutto fotografica, mi viene cioè da un’immagine statica intorno alla quale mi piace ipotizzare una storia, ovvero un prima e dopo lo scatto.» Per È da lì che viene la luce (Piemme, 2019) tutto ha origine da «un primo piano di una ragazzetta del popolo con gli occhi profondi e vagamente seducenti», scattato dal fotografo tedesco Wilhelm von Glöden (1856 – 1931), noto anche come il barone di Taormina. La fascinazione per le rievocazioni arcadiche di von Glöden affonda nella più tenera infanzia della scrittrice siciliana che qui si riappropria, riplasmandola alla luce di una nuova suggestione, di una materia già ampiamente interiorizzata. Il barone Wilhelm von Glöden, in altre parole, è presente, prepotentemente connotante, ma non a livello biografico. Al suo posto, agitato dal medesimo demone foto-estetico, ritroviamo il barone Ludwig von Trier.

Abbadessa immagina la figura cagionevole di un nobile tedesco che, per ragioni legate alla salute, si trasferisce a Taormina. Primavera 1932. Sulla costa nordorientale di una Sicilia povera e splendida si snoda la vicenda di un uomo ancora inconsapevolmente omosessuale in un periodo storico – l’undicesimo anno dell’Era Fascista – in cui l’omosessualità era sinonimo di scandalo e punita col confino su isole e paesi sperduti. Scrutando nel pozzetto della sua inseparabile Rolleiflex Ludwig von Trier non tarda a mettere a fuoco la Magna Grecia che, a intermittenze, gli si manifesta tra la campagna e il mare. A Taormina Ludwig von Trier diventa per tutti “lo straniero”, il tipo ricco e strambo che si aggira per le campagne con una strana scatola legata al collo. Cerca la guarigione per i suoi polmoni sofferenti, cerca la quiete, ma soprattutto cerca l’ispirazione per la sua arte (un’arte per inciso ancora giovane quella della fotografia, sebbene all’epoca vantasse già un secolo di sperimentazioni). In progetto c’è una mostra da tenersi a Roma. Nel corso delle sue peregrinazioni il barone non si limita a catturare paesaggi; ad intrigarlo sono soprattutto i volti e i corpi della gente del luogo, depositari di una bellezza e di un’espressività atemporali.

Tra questi c’è Agata Costa, una ragazzetta mora e felina, tanto povera quanto scaltra, felice di guadagnarsi qualche soldo restandosene immobile senza la fatica del lavoro. Altra figura chiave del romanzo è quella di Elena Amato, la governante, una giovane donna che condivide col barone «un segreto simmetrico e speculare», quello di un’identità sessuale dolorosamente inespressa. A Taormina Trier conoscerà, in due distinte fasi, lo splendore della luce e l’abisso dell’ombra. Ne uscirà provato tanto come artista quanto come uomo. La luce, abbagliante e rivelatrice, gli si manifesterà attraverso il sembiante umano-archetipo di Sebastiano Caruso, un diciassettenne di caravaggesca avvenenza. Il fortunato incontro si traduce presto, per volontà di entrambi, in una frequentazione assidua. La differenza d’età, squisitamente greca, oppone un limite ma spalanca un orizzonte. In Sebastiano, turgido e arrendevole come un Prigione michelangiolesco, Trier trova il suo modello, la sua musa, quel brivido mai provato. L’ispirazione, debitamente irrorata, veicola una nuova iconografia capace di fondere mito e realtà. «Fermo.» Lo scatto suggella la simbiosi tra due dimensioni altrimenti inconciliabili. «Era qualcosa di acciuffato da un altrove lontano tutto racchiuso dentro di lui, strappato con le unghie dal mondo delle idee e reso concreto nell’istante indispensabile alla luce per entrare nell’obiettivo e impressionare la pellicola.»

Al cospetto del suo modello, perfetta incarnazione di un’idea dell’arte più volte vagheggiata e mai prima d’allora visualizzata nel concreto, Trier si sente sopraffatto. La bellezza è violenta, penetrante, quasi offensiva. È da lì che viene la luce, un bagliore abbacinante e incandescente che al tempo stesso acceca e rivela. «Era come se gli occhi del giovane lo stessero penetrando ma tanto profondamente da scuotergli le viscere, agguantargliele con una mano, torcerle e poi, aprendo la stretta del pugno, lasciarle lì, sanguinolente e ancora pulsanti.» Destabilizzato dalla bellezza ellenica del taorminese, incapace di elaborare razionalmente la propria natura, Trier sceglie di rimanere a distanza – una distanza paternalistica – e di sublimare le sue pulsioni attraverso il filtro dell’arte. «Nel viso di Sebastiano, Ludwig non rivedeva soltanto i tratti somatici degli antichi che avevano abitato l’isola. Durante l’ultima seduta fotografica aveva notato in lui la malizia selvatica e inconsapevole di certi volti del Caravaggio che contenevano nello stesso tempo un languore innocente e un lampo di volontà.» Seminudo, calato nelle vesti di un acerbo Bacco o di un idolino classico, metà divino e metà monello, sospeso tra il casto e il lascivo, Sebastiano Caruso incarna l’archetipo del creaturale arcadico, lo spettro efebico di una perduta bucolica âge d’or. L’inquadratura fotografica lo incornicia e lo protegge decontestualizzandolo dalla dimensione terrena e trasponendolo in uno spazio-tempo altro, quello assoluto dell’arte. Trier lo sfiora appena. Non va oltre. L’autocensura e l’inibizione disarmano ogni suo anelito.

Ludwig von Trier, lo ribadiamo, non è Wilhelm von Glöden, non ha la sua compiaciuta e coraggiosa spregiudicatezza. Abbadessa, lo sottolineiamo ancora, caratterizza l’eroe protagonista «senza desiderio di aderenza alla sua biografia». Con il suo illustre alter ego condivide solo il titolo nobiliare di barone, la predilezione per l’anatomia maschile e, con ogni evidenza, lo stile classicheggiante della rappresentazione.

È da lì che viene la luce si offre innanzitutto come la storia di una delicata amicizia tra un fotografo e il suo modello, tra un artista e la sua musa, tra un uomo maturo e un giovanetto. Un rapporto malvisto, il loro, suscettibile d’ogni sorta di sospetto, ma di fatto un rapporto pulito, platonico, destinato purtroppo ad interrompersi proprio sul più bello (forse poco prima che quell’amicizia sfociasse in un sentimento più totalizzante). Fotografia dopo fotografia il legame tra i due si consolida sempre più. Il giovane taorminese è ben contento di guadagnarsi qualche soldo, ma a renderlo felice è soprattutto l’esperienza stimolante vissuta al fianco del suo amabile e gentile datore di lavoro. Comincerà presto anche lui ad appassionarsi al mondo magico della fotografia, stregato dalle macchine meravigliose utilizzate dal barone: la Rolleiflex, la Leica, l’ingombrante Eastman o la più versatile Piccolette Contessa-Nettel.

Trier, dal canto suo, sente nascere uno scopo, un’impellenza: «educare Caruso alla bellezza e riversare in lui quanto sapeva dell’arte». Un proposito squisitamente greco, spogliato qui però d’ogni altro riferimento. Trier non può andare oltre, non ha gli strumenti (se non quelli dell’arte). Ogni contatto ravvicinato, anche minimo, si traduce in smarrimento e frustrazione. «Poi abbassò la testa e appuntò lo sguardo sulle cosce del ragazzo. I muscoli rilassati le facevano apparire più larghe, come più vigorose, e la peluria ancora sottile, per effetto della penombra in quella parte della stanza, gli conferiva l’aspetto implume di un efebo.» Trier non può che mantenersi a distanza, la stessa che intercorre tra l’obiettivo e la posa, una distanza simbolica ma sconfinata (come quella che separa l’arte dalla vita). Da un lato le fotografie scattate al suo modello, perfette per la mostra che aveva in mente di allestire, e dall’altro tutta l’incompiutezza della sua vita. Trier è sospeso tra questi due poli, ma è comunque felice. La presenza di Sebastiano gli ha restituito la salute e l’ispirazione.

Analizzando il suo lavoro il fotografo perviene poi alla seguente constatazione: il corpo non costituiva arte in sé, ma «lo diventava soltanto se strappato dal mondo concreto e collocato in uno spazio ideale» dove assurgeva a simbolo e archetipo. «Pensò ai volti di Caravaggio, alle statue di Prassitele, ai Prigioni di Michelangelo e le membra molli o vigorose di quelle opere, le labbra degli uomini ritratti, i loro occhi aperti o socchiusi, gli comunicarono solo bellezza. E la bellezza non era mai malata.» Contraltare del corpo fascista – forgiato dall’esercizio ginnico, ipermascolino e militaresco fino al caricaturale – il corpo di Sebastiano si fa veicolo di grazia e sensualità primitiva, un corpo atemporale cristallizzato nel trapasso dall’adolescenza all’età matura.

La storia di Ludwig von Trier evolve dolorosamente dalla luce all’ombra. Abbadessa, molto simbolicamente, ne fa una vittima sacrificale della brutale realtà fascista. La Sicilia degli anni Trenta non è più quella della seconda metà dell’Ottocento, quando l’isola era stata una mecca e una terra franca per il turismo omosessuale. Nel ristretto microcosmo di Taormina – tutt’altro che un eden arcadico – il barone subirà il tradimento, la calunnia e il pestaggio imboccando una rovinosa parabola discendente. Sofferente nel corpo e nell’anima, privato della «possibilità di sognare», disincantato e incapace di reagire, Trier si consegnerà passivamente al suo destino.

Custode del suo dramma sarà la fedele governante Elena Amato, omosessuale ma segretamente innamorata di lui. Sprofondato nell’ombra, debilitato, Trier attingerà forza e lucidità residue dalla sola vera luce che aveva illuminato e scaldato la sua vita: la luce pura del suo amato modello, la luce di Sebastiano Caruso. È da lì che viene la luce. «Formò dentro di lui l’immagine di Sebastiano. Lo vide nudo, magro, bellissimo, sorridente e provò un desiderio talmente lieve e puro che non riuscì a pensare ad altro se non al bisogno di quel corpo di essere amato. Lui meritava amore e non un sentimento obliquo che non aveva il coraggio di confessare nemmeno a se stesso.»

Liberamente ispirato alla storia del barone di Taormina – pioniere, insieme a Guglielmo Plüschow della fotografia omoerotica – il romanzo di Emanuela E. Abbadessa si offre come un delicato inno alla luce contrapposto all’ombra brutale e disumana dell’ignoranza.

Massimiliano Sardina


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