di Giuseppe Maggiore
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 43 | inverno 2020/21
L’agiografia – lo studio della vita e del culto dei santi – è stata per molto tempo tenuta in scarsa considerazione dalla storiografia ufficiale, restando perlopiù relegata nello specifico ambito di interesse religioso. Ciò ha fatto sì che se ne trascurasse il contributo, talvolta notevole, che poteva offrire all’indagine e alla ricostruzione storica dei luoghi e delle popolazioni, soprattutto dal punto di vista antropologico e culturale. I testi agiografici – in cui ritroviamo, non solo le notizie relative alla vita dei santi, ai miracoli da essi compiuti in vita o post mortem, ma anche la particolare relazione che lega queste eccezionali figure a determinati luoghi – hanno invece avuto sempre un importante ruolo nelle storiografie locali. Basti sfogliare una qualunque pubblicazione curata da qualche studioso autoctono, per rendersi conto di quanto le vicende storiche di ogni città chiamino spesso in causa il santo o la santa sotto il cui patronato essa è posta. Altro indizio è la pregnanza di certi culti che possiamo rilevare nell’onomastica e nella toponomastica dei luoghi. Più che la figura del santo in questione è interessante rilevare ciò che attorno a essa è fiorito, dando forma e colore alle specificità dei culti, degli usi e dei costumi locali, perché attraverso questi possiamo meglio risalire a quel sistema di modelli, credenze e valori nel quale una data comunità si identifica.
È quando il santo scende dall’altare e incontra il popolo che ne diventa parte integrante della storia, protagonista effettivo degli accadimenti che lo riguardano; ed è qui, in mezzo al popolo, che esso spesso finisce col perdere i propri connotati per assumerne altri; perde la propria vera identità per vestirne una che meglio rifletta le proiezioni e i modelli con cui la gente vuole o deve identificarsi. In mezzo al popolo, tra la gente, il santo diviene simbolo identitario, fulcro di un sentire che mischia sacro e profano, storico e leggendario, fino a costituire quell’indissolubile unicum di storia, cultura e tradizione che sostanzia l’essenza di un sentire comune proprio della comunità. Esempi emblematici di questi processi sono quei binomi ormai inscindibili, come Napoli e San Gennaro, Bari e San Nicola, Catania e Sant’Agata, Palermo e Santa Rosalia, solo per citare i casi italiani più noti, in quel meridione dove più tenace e persistente è l’influsso della tradizione. Esistono però culti ritenuti “minori” (perché circoscritti in ambiti geografici più ristretti o in piccole località), i quali riflettono sostanzialmente le stesse dinamiche, e nei quali ancora ritroviamo quell’osmosi di fede e cultura, di religione e politica che ha variamente contrassegnato gli eventi storici locali.
Con una pubblicazione dal titolo Vi prenderò dalle genti – La tradizione popolare di S. Febronia-Trofimena V. M. (Edizioni Montalbano, 2020), Pio Sirna, sacerdote e cultore di storia locale a Gioiosa Marea (Me), tenta di sgrovigliare la complessa questione che riguarda il culto di Santa Febronia nelle località di Patti (Me) e Minori (Sa). Il libro presenta il risultato di uno studio comparativo tra le fonti agiografiche che riguardano questa misteriosa figura – che le due località identificano con entrambi i nomi di Febronia e Trofimena -, l’analisi dei luoghi in cui affiorano tracce del suo culto, soprattutto attraverso la toponomastica, e le vicende storiche delle due città coinvolte. Sirna entra in aperta polemica con gli autorevoli studiosi le cui pubblicazioni sembravano aver ormai sciolto tutti i nodi della questione febroniana (tra i quali ricordiamo Giuseppe Arlotta, Reginald Grégoire, Paolo Chiesa e Maria Stelladoro) e, con non senza un pizzico di afflato campanilistico, tenta di ricondurre tale culto a una dimensione strettamente locale, svincolandolo così da quella ben più ampia e sfaccettata che esso ha nel resto del mondo.
Su Febronia, il cui culto solo in apparenza può essere definito “minore”, non sembra insomma essere stata fatta abbastanza luce, e ciò lascia ancora ampio spazio al dibattito tra gli studiosi. Permangono gli interrogativi di sempre: Chi era in origine colei che portò questo curioso nome? Era la Febris pagana venerata presso i Romani, le cui celebrazioni avevano il loro fulcro nel mese di febbraio in quella che è l’odierna festa di San Valentino? Era la dotta monaca vissuta in terra d’Oriente, il cui martirio sotto l’Imperatore Diocleziano è ricordato tra i più cruenti patiti dai primi cristiani? O era semplicemente la figlia dell’Imperatore bizantino Eraclio trasformata in un’eroina oggetto di culto? E ancora: ci sono mai state sante omonime in Sicilia (a Patti), a Pavia, o in Russia?
Seguendo la pista della santità, il suo nome appare per la prima volta nel VII secolo nei Miracula Artemii, in cui la vediamo al fianco del megalomartire Artemio nella guarigione delle malattie genitali femminili. La Passio che narra le vicende del suo martirio, dall’originale greco (scritto secondo la tradizione dalla consorella Tomaide che assistette agli eventi), è giunta a noi con numerosi testimoni sparsi nelle biblioteche di mezzo mondo (Albania, Austria, Francia, Germania, Grecia, Italia, Paesi Bassi, Russia, Spagna, Turchia, Ex Yugoslavia, etc.), redatti tra il VI e l’XI secolo in diverse lingue (arabo, armeno, copto, georgiano, irlandese, latino), fino ai più recenti del XIV – XVII secolo in italiano e francese. Secondo il lungo e romanzato racconto di questa Passio, la vicenda terrena di Febronia si svolse a cavallo tra il III e il IV secolo in Mesopotamia, nella città di Sibapoli Nisibi (odierna Nusaybin, al confine tra la Turchia e la Siria). Rimasta orfana all’età di due anni, crebbe sotto le cure della zia Brienne e della religiosa Tomaide, in seno ad una di quelle prime comunità ascetiche che potremmo identificare con quelle dei “Figli e Figlie del Patto”, sorte nella Mesopotamia settentrionale tra la metà del III e l’inizio del IV secolo, di cui ci riferisce Sant’Efrem da Nisibi. Consacratasi totalmente al Signore, condusse una vita da penitente, scandita dalla preghiera e dalla meditazione delle Sacre Scritture; il suo grande carisma nell’insegnamento della sacra dottrina attirò al cristianesimo molti pagani. Il 25 giugno dell’anno 305, nel corso della persecuzione contro i cristiani indetta dall’imperatore Diocleziano, mentre tutte le consorelle abbandonarono il cenobio per sfuggire ai persecutori, Febronia preferì coronare la sua professione di fede sottoponendosi al martirio. Atroci e molteplici furono i supplizi che le vennero inferti dai carnefici, su ordine del giudice Seleno, a motivo del suo rifiuto a rinnegare la propria fede: legata ad un palo, venne flagellata, raschiata con pettini di ferro, tormentata sull’eculeo; le vennero cavati i denti, tagliate le mammelle, quindi le mani ed i piedi, ed infine fu decapitata. Il racconto si conclude con le vicende del corpo, per il quale il vescovo della città aveva fatto erigere una grande chiesa, poi trasportato a Costantinopoli, dove si verificarono al suo arrivo molti eventi prodigiosi.
Questa Passio, che per la sua bellezza e originalità suscitò particolare ammirazione in molti noti bollandisti, nel XVII secolo venne pubblicata negli Acta Sanctorum dal gesuita Daniel Papebroch. A dispetto della relativa popolarità di cui ha goduto almeno in passato, la figura di questa santa è stata per molto tempo adombrata dal giudizio di alcuni autorevoli studiosi (in particolare Tillemont e Simon), i quali, negando ogni autenticità alla passio, ritennero Febronia una figura creata ad hoc dagli agiografi nestoriani della regione di Nisibi, in risposta al dilagare del monofisismo. Con l’evoluzione dei metodi di studio la moderna agiografia ha considerevolmente mutato il proprio approccio, e figure come quella di Febronia, in passato sbrigativamente liquidate come fittizie, sono oggi riconsiderate sotto una nuova luce e, per certi versi, storicamente riabilitate. Nel caso particolare di Febronia, infatti, nessuno degli studiosi ha saputo spiegarsi la diffusione del suo culto in diversi ambiti e in luoghi geografici molto distanti tra loro, per quanto il più delle volte relegato nei contesti monastici. Difatti esso affiora a macchia d’olio in varie parti del mondo, dall’Oriente all’Occidente, espandendosi dai luoghi di origine a tutto il Mediterraneo, e non solo. Una diffusione che la sola influenza bizantina non basta a spiegare.
Sono tre le località in cui Santa Febronia è ancora oggi venerata con particolare fervore come “Celeste Patrona”: Palagonia (CT), dove la tradizione rimane coerentemente legata al racconto agiografico che come abbiamo visto la colloca nella terra di Mesopotamia; Patti (ME) e Minori (SA), dove invece, per inveterata tradizione, la pietà popolare, oltre ad affibbiarle il curioso nome di Trofimena, la ritiene essere una santa siciliana vissuta e martirizzata nella città di Patti. Se fino ad ora queste due diverse tradizioni concordavano almeno sulla datazione del personaggio, in entrambi i casi collocato agli inizi del IV secolo, con un balzo a dir poco acrobatico Pio Sirna intende ora con questo libro spostare la vicenda della santa venerata a Patti e Minori in avanti di almeno tre secoli, ovvero nel VII-VIII secolo, cambiandone radicalmente contesto storico e connotati. Secondo Sirna, la Febronia-Trofimena venerata a Patti e Minori, non solo non è la santa “monaca” Febronia di Nisibi, ma nemmeno una tra le tante vittime delle prime persecuzioni contro i cristiani, come finora si era ritenuto, bensì una ragazza la cui vicenda si sarebbe consumata nell’agro di Tindari, «in un non romano contesto di proprietà terriere e nella turbolenta età della bizantinizzazione, della discussione monotelica e dell’iconoclastia.».
A differenza della ben articolata storia dell’omonima nisibena, nulla si sa di questa ragazza siciliana vissuta nelle contrade di Patti, né tantomeno chiare appaiono le circostanze del suo martirio, che sarebbe avvenuto per mano dello stesso padre o dei suoi amici. Tutto ciò su cui si fonda la tradizione è l’iscrizione sull’urna marmorea contenente il suo corpo, che intorno al 640, giunta misteriosamente in Campania, sarebbe stata rinvenuta da una lavandaia nel fiume Regina, presso Minori. L’iscrizione dice trattarsi del corpo di Trofimena Vergine e Martire sfuggita ai genitori siciliani. Questa notizia è riportata su un anonimo testo del X secolo, dal titolo Historia Inventionis ac Traslazioni et Miracula Sanctae Trofimenis, di fatto la prima e unica fonte storica su Santa Trofimena. Molto complesse e alquanto lacunose sono poi le notizie che indussero tanto i minoresi quanto i pattesi a concludere che questa Trofimena e la Febronia venerata a Patti fossero la stessa persona. Entrambe le figure erano avvolte nel mistero; poco o nulla si sapeva sul loro conto, né era sufficientemente chiaro il legame tra di loro.
A conclusione del Concilio di Trento, la Chiesa intendeva rispondere alle obiezioni protestanti circa il culto dei santi, molti dei quali dalla dubbia origine. È in questa circostanza storica che dalla città di Minori prese l’avvio un’indagine circa le origini di Santa Trofimena, origini che secondo la tradizione locale andavano ricercate a Patti, in terra di Sicilia. Tale indagine venne affidata al napoletano Quinto Mario Corrado, segretario dell’arcivescovo di Salerno Gaspar de Centelles, il quale, in mancanza di vere e proprie fonti storiche che dessero solidità a questo culto, procedette all’audizione di alcuni testi, tra i quali il più “autorevole” fu Giovanni Gallo, sacerdote della Cattedrale di Minori oriundo di Patti. Proprio il Gallo riferì di essere stato in possesso di una Vita di Santa Trofimena poi da lui stesso “aggiornata”. Anche a Patti si procedette a un’analoga “indagine” su Febronia, condotta da Giuseppe Loprotho, vicario generale del vescovo. E anche questa consistette sostanzialmente nel raccogliere alcune testimonianze orali. È dunque sulla base di queste indagini costituite dalla raccolta di semplici e non verificabili racconti orali, di persone comunque emotivamente e campanilisticamente coinvolte, che avvenne la definitiva fusione di queste due figure in una, sancita nel 1605 con la pubblicazione a Messina di una Vita di S. Febronia curata dallo stesso Giuseppe Loprotho e da un editto del vescovo che ne fissò al 25 giugno la festa (curiosamente lo stesso giorno della santa di Nisibi). La pietà popolare, forse pilotata dagli ecclesiastici locali, ha poi fatto il resto, arrivando a creare un itinerario dei luoghi di Patti dove Febronia-Trofimena sarebbe vissuta, avrebbe ricevuto il battesimo e subito il martirio.
A nulla valendo il parere degli autorevoli agiografi che si sono espressi sulla netta distinzione tra queste due figure, non ultimo quello di Reginald Grégoire che fa risalire Trofimena a una santa di Lione, alcuni tra i più accaniti sostenitori di questa attribuzione locale e unitaria sono arrivati persino a ipotizzare che Trofimena fosse il nome e Febronia il cognome. E a tal proposito Sirna avanza una sua suggestiva tesi che, partendo dall’analisi del significato di questi due antroponimi di origine greca, mira a collocarli nell’alveo di quelle contaminazioni culturali che ebbero luogo tra la cultura greca e quella latina, la quale: «coinvolgendo anche gli ambiti della flora e della fauna, prende a prestito derivati dal latino per veicolare ed esprimere in greco quei contenuti che nell’ambito popolare, periferico e dialettale in specie, interessano anche la vita agreste e pastorale.». L’autore, dopo aver messo in luce le analogie tra la Villa romana sita nel territorio di Patti e la villa Volusii Saturnini di Roma (poi divenuta Lucus Feroniae, perché vicina al bosco sacro alla dea), passa ad analizzare i vari nomi vicini per assonanza a quello della santa “pattese”: Februa, Februo, Triformia, Feronia e Fessonia. Dai riti purificatori dell’antica Roma, legati al culto di Februa o Februo (da februare = purificare), al culto della dea Diana di cui Triformia altro non sarebbe che la derivazione dell’epiteto triforme a essa attribuito, fino ai culti latini delle dee Feronia e Fessonia: tutti culti aventi in comune l’elemento purificatore dell’acqua, ma soprattutto quello del bosco e della vegetazione in genere. Tale excursus serve a Sirna per accreditare la sua tesi secondo cui Febronia-Trofimena non sia una figura di origine greca, ma latina: «Il greco Febrònia deriva così dalla latina Fabris, dea delle malattie, da faber, -is, o più esattamente da februare, purificare; un suo derivato è anche la greca bebrònia. Se analizziamo ora l’altro termine greco Trophime (latinizzato Trophima) osserviamo che ha una doppia derivazione: da trophé (nutrimento, da trépho, sostenere, mantenere) […] ma anche al latino tropha, poi sicilianizzato in troffa, per indicare un cespuglio/bosco protetto dalla citata dea Feronia. […] così di Febronia/Trofimena sono numerose e convergenti le attestazione di una figura, una pietra parlante, che vede nelle troffe di nocciolo ad Acquasanta l’indicazione di una storica e indigena presenza. […] Riteniamo perciò che con Febronia-Trofimena non si indichino due persone diverse […] ma che si intenda un’unica persona di origine latina […] a Minori si continua a dire/scrivere di Trofimena e a Patti di Febronia perché i due nomi sembrano esprimere e indicare, come in un novello Giano bifronte, l’unica identità della stessa persona venerata. Febronia/Trofimena dice dunque di una cristiana latina, e non greca, stanziata nella zona Acquasanta–Patti Marina in un curtense fundus agricolo-boschivo, forse affidato a affittuari, enfiteuti, locatori, residenti in villulae (pars rustica).»
Per quanto suggestive e apparentemente collimanti, le ragioni che spingono Pio Sirna a operare una così radicale e audace operazione di re-inventio su una santa e sul suo culto, solo per giustificare un vuoto incolmabile di fonti storiche che acclarino l’autenticità di una Santa Febronia siciliana, quando ormai tale pia leggenda era stata da più parti ricondotta all’originale siriano, rivelano a un occhio attento tutta la loro inconsistenza. Pur seguendo la moderna metodologia dell’approccio agiografico, il suo resta un procedere per ipotesi, muovendo da una storia che si fonda sostanzialmente nient’altro che su una tradizione orale priva di riscontri oggettivi. Per un dato tempo, anche a Palagonia Febronia era stata ritenuta una santa del posto, vissuta nella contrada Coste, dove si trova un eremo rupestre bizantino che porta il suo nome e che la raffigura in un affresco. Prim’ancora che sull’attendibilità di studi come questo, bisognerebbe interrogarsi sulla natura di una fede che sembra dipendere più dall’orgoglio campanilistico che dalla ricerca della verità.
Dalle pagine del libro di Sirna Febronia e il suo millenario quanto esteso e variegato culto, appaiono sviliti, ridimensionati a un contesto locale, quasi parrocchiale. Ma Febronia, del resto, è sempre stata una figura assai sfuggente ed enigmatica, che nella storia e nell’iconografia è apparsa di volta in volta sotto diverse vesti. Questa nuova rilettura della sua storia operata da Pio Sirna rappresenterà l’ennesima leggenda, e forse proprio attraverso il medium di questa leggenda la Santa vorrà parlare ai suoi devoti minoresi e pattesi, nel modo in cui essi riescono a intenderla.
Giuseppe Maggiore
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