ESSERE, NON ESSERE E SOPRAVVIVERE… | Potenza ed impotenza della volontà

di Giancarlo Serafino

Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 43 | inverno 2020/21

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Volontà di potenza, volontà di esistenza. Uno spot? Nient’affatto. La Volontà di Potenza come categoria filosofica ha avuto una specificazione tutta sua legata a due visioni diverse del mondo in Schopenhauer e Nietzsche, ma la peculiarità più moderna è quella di Adler legata alla sua psicologia del complesso d’inferiorità/superiorità. In poche parole avere un “piano di esistenza” è strettamente legato al fatto di avere una volontà di sopravvivenza nel corso della vita e di svilupparlo. Se mancasse questa volontà non ci sarebbe crescita, né corso della vita stessa. Ma come si manifesta questa volontà? Ogni individuo già dai primi anni di vita fa esperienza delle doti in cui eccelle e di quelle in cui trova difficoltà nella loro espressione. Ha più qualità fisiche che intellettuali? Eccelle negli sport? Nella musica, in matematica? È portato alla scrittura creativa o all’arte? Qualsiasi categoria può essere messa al centro del proprio piano esistenziale, cercando di equilibrare le eccellenze con le deficienze attraverso accorgimenti e strategie che tengano uniti tutti i lati della personalità nella costruzione continua del carattere. Dalla distorsione di tale volontà di potenza nelle sue varie sfumature maturano i famosi “complessi adleriani” in cui inferiorità e superiorità sono facce della stessa medaglia di distorsione. Alcuni tipi di distorsioni appaiono appena percepite, ma con l’attenzione ci si accorge dell’individuo che parla solo delle sue cose e non ascolta l’altro, di chi vuole avere sempre ragione o la vuole vinta. Anche lo spirito agonistico è alimentato da questa energia, ma la sua carica negativa viene sublimata dalla prestazione e dalla finalità della vittoria insita nel gareggiare. La sconfitta è mediata, nella persona equilibrata, con l’onore di avervi partecipato. Ma man mano che scendiamo in un’ipotetica scala di distorsioni, queste distonie si evidenziano sempre più nella forma più chiara e grave. La sconfitta non è sublimata e la carica negativa della rivincita può sfociare nella vendetta.

Una reazione “pacifica” alla propria sensazione d’insicurezza o d’inadeguatezza è data dalla sottomissione. Dal regno animale fino agli studi sociali sulla formazione del gruppo è indiscussa l’ascesa della leadership del più forte e del più capace. Ogni membro ha un ruolo a ventaglio intorno al “capo”. Quando i ragazzi formano le squadre per il gioco, calcio od altro, i più scarsi vengono per ultimi nella scelta. La sottomissione riconosce all’altro un’apparente superiorità fisica o intellettuale e ci si ripara sotto il suo ombrello. In questo contesto è il gruppo che ammortizza le cariche negative a volte autodistruttive e rimette in moto il piano esistenziale. Senza un ammortizzatore le distorsioni di volontà di potenza diventano sempre più paranoiche e pericolose. Di fronte  alla superiorità dell’altro, fuori da un contesto organizzato, lo sviluppo porta spesso, quando i freni morali inibitori vengono sciolti, alla distruzione o all’autodistruzione. Molti suicidi sono legati alla percezione angosciosa del fallimento della propria esistenza, in cui la coscienza è sopraffatta dagli impulsi d’impotenza e dalla mancanza di volontà. Ma la reazione alla propria insofferenza può essere pure mascherata con un atteggiamento di superiorità, sentimento che deve essere continuamente alimentato in ogni occasione a danno dell’altro. “Mors tua vita mea” è la locuzione che chiarisce questo concetto in cui la volontà di potenza viene percepita come una dura legge di lotta per l’esistenza. Sentimenti “negativi/positivi” (le due facce di Giano) come l’invidia e la gelosia diventano allora le spie accese di un pulsare distorto e pericoloso.

Molti casi di cronaca nera narrano di efferati omicidi senza moventi precisi attribuiti vagamente alla potenza o alla felicità altrui come contrappasso alla propria impotenza e infelicità. Siamo nei casi limite in cui la ragione è stata completamente sottomessa dalle cariche negative di sofferenza e non è stata capace di costruire le fragili mura di un meccanismo di difesa, sia pure un complesso di superiorità, e dalla mancanza di ciò, l’Io si è trovato scoperto come una lumaca, nudo nella bufera, trascinato da pulsioni distruttive che hanno incanalato l’invidia o la gelosia (o entrambe) verso l’illogicità dell’odio verso sé (autodistruzione) o verso il mondo (delitti verso persone  e cose).

Da Freud e dai suoi più ortodossi seguaci questo pulsare d’istinti viene ricondotto alla sessualità. In effetti è innegabile che ci sia un rapporto stretto tra le tante pulsioni dell’Io, o meglio esiste una combinazione tra le diverse fonti di energie pulsionali, come tra frustrazione e libido, che sembra nascere da un solo nocciolo; invece tutto dipende dal nodo che si è creato nello sviluppo affettivo soggettivo, e da dove e come è partito il bandolo della sua matassa. L’impulso sessuale può servire come manifestazione di una affermazione della propria volontà di potenza – i casanova docet – senza soddisfare l’emotività più strettamente affettiva, anzi, paradossalmente, inibendo qualsiasi slancio passionale intimo della funzione sessuale si preclude la soddisfazione della sessualità stessa. La libido è “consumata” come strumento di una distorsione della volontà di potenza e come tale si allontana da una manifestazione “genuinamente” sessuale. Molti approcci sessuali sono retti da questa distorsione, a volte velata, a volte irruente come nella gelosia, mero sentimento di possesso; a volte manifesta nei comportamenti di dominio/sottomissione o nei giochi sado-maso con diverse sfumature, anche pericolose. Pure a livello intellettuale le corrispondenze tra chi esercita la propria “potenza” come elemento attivo e chi la esercita come elemento passivo sono annodate a volte in una indivisibile reciproca dipendenza, in cui la morte dell’uno coincide con la morte dell’altro. Basti ricordare suicidi celebri come la pittrice Dora Carrington dopo la morte di Lytton Strachey  o Jeanne Hébuterne per la morte di Modigliani.

Tralasciando tutto il discorso che può esserci tra Istinto e Volontà di Potenza allo stato puro, il cosiddetto “istinto del cuculo”, così come si può osservare nella lotta tra i cuccioli per l’accaparramento del capezzolo materno, valutiamo con più attenzione l’impatto della vita con questa Volontà alimentata dal coacervo di diverse reti di rapporti sociali. In questo contesto tutti gli individui sentono la necessità di realizzare le proprie aspirazioni e tutti tendono alla gratificazione sociale attraverso il successo e il prestigio: questo almeno nelle condizioni ottimali, quando le capacità sono adeguatamente sollecitate al raggiungimento del fine. Anche il sopraggiungere di una variabile casuale difficilmente potrebbe soprapporsi ad un processo di autodeterminazione. Il bisogno di affermazione, dunque, richiede un processo di estensione del SÉ sul mondo, cosa possibile investendo energie pulsionali verso la crescita della propria identità di genere secondo le attese culturali della società di appartenenza: esposizione della virilità nei maschi e della seduzione nelle femmine. Una equazione semplicistica sembrerebbe, invece la realtà della vita è molto più complessa: non sempre i maschi riescono ad essere uomini, e le femmine non sempre riescono ad essere donne (ognuno con le proprie sfumature). Che discorso è questo? Se si prende in considerazione per esempio il genere maschile, la propria Volontà di Potenza si sviluppa con la proiezione della virilità individuale sul mondo. Ma il processo in sé non fa di un maschio un Uomo se non con una crescita complessiva di doti morali ed intellettuali; più facilmente questa proiezione diventando ossessiva, porta alla mitomania e all’esasperazione egocentrica. D’altro canto le insicurezze adolescenziali portano a ridurre la crescita del singolo nel confronto col gruppo dei pari.

Molti individui cominciano a sentirsi inadeguati con il loro corpo: a volte non corrisponde alle inclinazioni dell’identità di genere, ma al genere opposto; a volte il soggetto avverte una distanza abissale tra il proprio sviluppo fisico e quello dei pari; pertanto, in qualsiasi condizione si trovi, l’individuo deve fare i conti con un continuo processo di destrutturazione e ristrutturazione, nel passaggio da una fase all’altra nel corso della vita, per la crescita dell’identità dell’Io (che non sempre corrisponde all’identità di genere). Questo compromesso continuo avviene ritrovando l’equilibrio necessario per corrispondere alle attese sociali soprattutto sul piano comportamentale e morale (in senso lato anche in contrapposizione sul piano dei diritti). Quando l’individuo mente a se stesso, e per accorciare i tempi di un’affermazione bara sul tavolo sociale, ci troviamo già di fronte a un‘alterazione dei meccanismi psichici che dovrebbero regolare il principio di realtà: è la prima scorciatoia al di fuori della regola per raggiungere fini egoistici. È chiaro che la legge va sempre tenuta sotto la lente critica: c’è una differenza tra il rubare per arricchirsi (il denaro è il più devastante vettore della volontà di affermazione) e il sottrarre dei biscotti in un supermercato per fame. Un discorso che porta lontano e che in questa sede non può avere spazio; quel che preme ribadire è invece che quando l’Io non riesce a superare una “crisi” di ristrutturazione, l’individuo cerca di surrogare dal mondo esterno “pezzi” di affermazione, modelli non rielaborati, quasi dei punti di sutura che non chiudono la ferita psichica aperta: l’adattamento non lineare dell’affermazione della volontà, come piano di esistenza, porta quindi a contratture di diversa natura e a strategie di sopravvivenza alquanto distorte e devianti sul piano individuale, e pertanto anche sul piano sociale.

Ma non esistono solo distorsioni negative, rappresentate soprattutto da ossessioni, manie, psicosi di diversa natura, o “Volontà spezzate” come il lasciarsi andare (alcol, droghe, ecc.). Esistono anche distorsioni “travestite” come l’autodistruzione eroica (che ripaga nella storia) o la fuga dal  mondo come fa l’eremita e l’asceta.

Negli atti eroici alla Pietro Micca ci troviamo di fronte a una forma alquanto unica di “transfer di potenza”: l’individuo trasferisce alla storia la propria affermazione in una misura amplificata, traendo dalla propria vicenda gratificazione per essere ricordato dai posteri come esempio di estremo sacrificio: una ricompensa a volte cercata in alcune frange di fanatismo, non solo religioso.

Nella vita ascetica invece c’è l’abbandono dell’affermazione come lotta ma non come strategia della volontà, che invece tende a stabilire un rapporto “privilegiato” con una dimensione temporale superiore (Potenza attraverso l’Intermediazione). La superiorità dell’asceta è contemplata nella “Illuminazione”, ma anche nella riflessione filosofica, e qui entriamo nel campo delle menti eccelse che hanno sviluppato il proprio piano di esistenza sulla crescita intellettuale e morale.

Molti dei punti qui appena accennati richiederebbero un ulteriore approfondimento. Abbiamo comunque cercato di offrire al lettore molteplici spunti di discussione, consapevoli che, data la vastità dell’argomento, una trattazione esaustiva e al tempo stesso sintetica, sarebbe stata in questa sede pressoché impossibile.

Giancarlo Serafino


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