LA VENERE IN GUÊPIÈRE | Silvana Pampanini, metamorfosi di una dea

di Paolo Schmidlin

Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 43 | inverno 2020/21

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Signora Pampanini, lei che è stata una bellissima donna… Enzo Biagi  così esordisce in una domanda di un’intervista televisiva a Silvana Pampanini. Mai frase fu più infelice perché l’attrice, già alle soglie dell’ottantina, s’inalbera subito: “Biagi, lei mi sta offendendo! È stata? Io SONO ANCORA una bellissima donna! Guardi qui… soda come a vent’anni!” e davanti all’allibito Biagi si solleva la gonna, scoprendo le gambette un po’ legnose da vecchia e le allunga verso il giornalista. “Vogliamo parlare di questo stacco di coscia? Anche i capelli… sono i miei… miei! Le altre hanno tutte la parrucca.” e si tira i ricci freschi di bigodino della cui nuance, “marron glacé”, va molto fiera. Il timido Biagi arrossisce, balbetta qualche scusa e cerca di rabbonire con qualche complimento la diva indispettita. Questo episodio inquadra perfettamente il personaggio Pampanini che, armata di un ego smisurato, difendeva strenuamente il suo essere “diva”, anche quando i fasti della gloria cinematografica erano ormai ben lontani.

Nata nel 1925 (“romana de Roma”, così si definiva), fu la prima attrice italiana del periodo post bellico a essere conosciuta in tutto il mondo. Un esordio quasi casuale – presentata, a sua insaputa, dalla maestra di canto – sul più classico dei palcoscenici: quello del concorso di Miss Italia. È il 1946 e la ragazza, di famiglia semplice ma con qualità fisiche più che evidenti, si presenta alla serata finale con un abito di chiffon sfumato dal rosa al blu offerto da Graziella Curiel. Sbaraglia senza colpo ferire tutte le altre concorrenti. C’è addirittura qualche tafferuglio perché dalla giuria viene inizialmente scelta Rossana Martini; ma lei é acclamata “a furor di popolo” e si crea una tale bagarre che alla fine viene eletta Miss Italia ex aequo. L’altra Miss sarà rapidamente dimenticata, mentre a Silvana si aprono tutte le porte. Anzi, le iniziali polemiche alimentano la sua popolarità. Comincia quasi subito a lavorare nel cinema come protagonista, con la 20th Century Fox, poiché è di una bellezza strabiliante e straripante: alta, mora, formosa, gambe stupende e tornite, occhi magnetici di un verde tempestoso. Così bella, solare, prosperosa, dotata di un carattere semplice e diretto, è esattamente quello che ci vuole per gli italiani, usciti stremati e intristiti dalla guerra mondiale. Rappresenta la rinascita, l’uscita da un periodo oscuro e sofferto, fatto di fame e privazioni. Con la Pampanini si apre il periodo ridente delle cosiddette “maggiorate”. Il padre, tipografo in un quotidiano romano e pugile dilettante, inizialmente la osteggia ma poi si “arrende” al successo della figlia e ne diventa l’agente; i rigidi principi capitolano velocemente davanti al fatto che, nei primi anni ’50, è l’attrice più pagata in Italia.

Gira decine di pellicole e, come ambasciatrice del cinema italiano, viaggia moltissimo non avendo obblighi familiari. Già in quegli anni era di un tal egocentrismo da precludersi relazioni sentimentali stabili. Amava la seduzione, essere corteggiata da uomini famosi e facoltosi, essere omaggiata… era ciò che potremmo definire una “allumeuse”. Stuzzicava i maschi ma concedeva loro poco o niente. Nonostante la vita abbia millantato “storie d’amore” e ammiratori illustri, non si sposò mai né ebbe mai un compagno al suo fianco. Anche nelle occasioni mondane era quasi sempre sola o con sporadici accompagnatori a farle da “cavalier servente”. La Pampanini – Ninì Pampan, la ribattezzarono i francesi – bastava a se stessa, si nutriva del suo personaggio, in una sorta di frigidità emotiva. Gli uomini erano il contorno, la conferma del suo potere seduttivo, nonché del suo mito.

Più avanti, quasi a giustificare a posteriori la sua solitudine e la mancanza di un figlio, raccontò di un misterioso amore finito in tragedia, quando lei aveva venticinque anni. Una storia che sembra costruita a tavolino per dimostrare la sua nobiltà d’animo, così che nessuno potesse insinuare che la magnifica Pampanini fosse sola per motivi caratteriali; era soltanto rimasta fedele a un grande amore perduto. Lui, naturalmente, era formidabile, la perfezione umana: “Alto un metro e ottanta, sportivo, molto forte. Bellissimo, elegantissimo, ricchissimo, innamoratissimo. Pieno di premure. Il principe azzurro dei sogni.” Nella sua autobiografia ne farà una descrizione – guarda caso senza mai farne il nome – degna di un romanzo di Liala, con tutto il parterre di ovvietà per signorine in calore: mazzi di fiori, ville incantevoli, cene a lume di candela sorseggiando i vini più pregiati, in cui lui le sussurrava “Bevi talmente poco, che quel poco che bevi deve essere eccezionale”. Come nel più scontato dei melodrammi, lui muore a un mese dalle nozze per la recrudescenza di un male contratto in guerra e lei rimane l’innamorata inconsolabile. Così mette finalmente un sigillo al capitolo fastidioso delle domande indiscrete, delle curiosità moleste, dei dubbi sulla sua reale capacità di amare. Con la consueta immodestia conclude: “Sposando un uomo, certo, ne avrei delusi cinquantamila. Ma io ero innamoratissima…”. Punto.

Comunque negli anni Cinquanta la nostra Silvana interpreta, diretta dai migliori registi, i suoi film più famosi. Tra questi Bellezze in bicicletta (1951) in cui pedala mostrando le gambe e canta la famosa canzone, La presidentessa (1952), La bella di Roma (1955), Racconti Romani (1955), La strada lunga un anno (1958). Tale è la sua popolarità che snobba persino le offerte che le arrivano da Hollywood dove si reca saltuariamente per promozioni o eventi. Al suo fianco recitano i nomi eccellenti del nostro cinema: Peppino De Filippo, Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Amedeo Nazzari, Massimo Girotti… In seguito lei racconterà aneddoti su tutti, soffermandosi in particolare su Totò – allora popolarissimo e molto più vecchio di lei – lasciando intendere che la canzone Malafemmena l’avesse scritta per lei. A suo dire, il principe de Curtis era follemente innamorato e “sognava il profumo della mia bocca che non aveva respirato”; ma quando lui la chiese in moglie, lei lo raggelò: “Caro Totò, io ti voglio bene ma come a un padre”.

Non mancano poi i racconti delle sue conquiste oltreoceano, che la Pampanini elargirà a piene mani per decenni. Nel suo sconfinato narcisismo non perde occasione di narrare quale creatura ammaliante lei fosse e di come nessuno di quegli splendidi uomini avesse potuto resistere al suo fascino; dal bacio sulla bocca di William Holden (respinto perché già occupato), alla cotta di Gary Cooper (“certi accostamenti… mi prendeva per la vita… gli ho detto di no mio malgrado”), a Orson Welles, schiaffeggiato in macchina perché “mi voleva fare sua”, fino a Tyron Power che sposa Linda Christian perché “io magnanimamente gliel’ho lasciato”. Come altre grandi bellezze, che non tollerano che maschi attraenti possano restare indifferenti a tale “bendidio” e disprezzano i gay, era vagamente omofoba; negava che Danny Kaye o Rock Hudson fossero omosessuali: “Ma per carità… Rock era di una virilità! Girava sempre scene molto forti con le donne… ed io so che quelli lì non se la sentono di farle.”.

Lo splendore della Pampanini raggiunse il suo apice nei pieni anni cinquanta, con ruoli di finta ingenua procace, in un profluvio di guêpières, sottovesti, giarrettiere, a esaltare le sue curve eburnee. In quegli anni Silvana viaggia ovunque (in Giappone gli ammiratori, per strada, sventolano la sua foto e le gridano “Pampalini, Pampalini!”), indossa abiti dei sarti più famosi, gioielli, si avvolge in lussuose pellicce – ermellino imperiale, visone color albicocca, zibellino – che sono la sua passione e che continuerà sempre a regalarsi. Incontra tutti e con tutti recita la sua parte di femmina fatale: re Fārūq I d’Egitto, Gianni Agnelli,  Peron, Charlie Chaplin, il principe  Hirohito, Humphrey Bogart, Omar Sharif… La sua bellezza tuttavia si offuscherà presto: già nel 1964, solo trentanovenne, accetta il ruolo patetico di una tardona nel film Il Goucho di Dino Risi. A documentare la sua avvenenza restano tuttavia – oltre alle innumerevoli fotografie – alcune opere d’arte che lei stessa commissiona ad artisti dell’epoca. Evidentemente anela ad essere immortalata, forse avvertendo che qualcosa va appannandosi e che la sua folgorante carriera è già giunta ai titoli di coda. Fino alla fine conserverà nella sua abitazione un grande ritratto in abito da sera blu dipinto nel 1962 da Paulo Ghiglia e due busti – in bronzo e in marmo – creati, lo stesso anno, dallo scultore bulgaro Assen Peikov.

Sebbene i ruoli cinematografici interessanti scarseggino, Ninì Pampan non tira certo i remi in barca. Si destreggia tra qualche ruolo non da protagonista in film mediocri, programmi radiofonici e apparizioni televisive. Donna oculata, negli anni di “vacche grasse” ha messo da parte un discreto gruzzolo che le consente di vivere agiatamente. Ci tiene moltissimo a comunicare agli altri un’immagine di squisita raffinatezza ma il suo appartamento tradisce un gusto piuttosto grossolano, da “generone romano”: mobili in stile, spessi tendaggi dalle mantovane damascate, consolle dorate finto rococò, tovagliette in macramè, fiori artificiali, colonnine in porcellana, letto a baldacchino… e suoi grandi ritratti fotografici incorniciati, in bella mostra. Il kitsch la fa da padrone. Negli anni a venire non cesserà mai di promuovere e indorare la sua figura d’attrice, con ammirevole perseveranza e un patologico eccesso di autostima.

Sul finire degli anni novanta, con l’avanzare della vecchiaia, il suo fisico subisce crudeli metamorfosi; i lineamenti – che già all’epoca della straordinaria avvenenza non erano certamente angelici ma erano decisi e marcati – si alterano in modo inquietante. Naso e orecchie si ingrandiscono, gli occhi appaiono slargati come due uova al tegame, le forme da maggiorata si svuotano e il busto sembra rimpicciolirsi e divenire ossuto, creando una sproporzione con la testa enorme, resa ancor più voluminosa da feroci cotonature. Un destino beffardo la trasforma nella caricatura di se stessa; sembra un travestito che imita la Pampanini. Diviene una sorta di macchietta, invitata qua e là nei salotti televisivi, dove ancora tiene banco perché non si tira mai indietro quando c’è da parlare… e da sparlare. Silvana – quando non sfodera il suo fastidioso perbenismo di facciata – è comunque molto simpatica: vivace, infarcisce i suoi racconti con battute salaci in romanesco e sghignazza con la sua vociona, potente anche in tarda età (“perché ho studiato canto”, non manca di rimarcare), ostinata nella convinzione di mantenere un’allure da grande diva. Spara a raffica commenti tranchant verso i colleghi e le “rivali”. Con le donne non è mai generosa, entra in competizione: “La Loren e la Lollobrigida? Le ho avute accanto quando io ero protagonista, nei miei primi film… chi faceva la generica, chi la comparsa”; su Adriana Asti: “Si è data al cinema pornografico”.

Anche con gli uomini si atteggia a moralista, con un sussiego che paradossalmente risulta volgarissimo: “Certi uomini hanno bisogno di determinati sfoghi… hanno un modo di fare che è zozzo. Hanno bisogno di puttane che sanno veramente come fare il loro mestiere.(…) Un rozzaccio qualunque non potrà mai dire: sai, sono andato con la Pampanini…”. Sostenuta dal consueto ego ipertrofico, sciorina le sue memorie, enfatizzate, edulcorate, pubblicando anche una scadente autobiografia, “Scandalosamente Perbene”, in cui tutto è descritto come meraviglioso, lussuoso, sfavillante. Sfidando il patetico cerca di presentare la sua vita come una favola, quasi a voler convincere anche se stessa. La sua vanagloria é persino divertente quando racconta di aver avuto “più proposte di matrimonio che mal di testa” o “Tutti mi ammiravano, Dio mi ha dato qualità fisiche e intellettive particolari…”. È tenace nella sua volontà di spacciarsi per una donna molto fine, sofisticata, di classe… anche nell’abbigliamento. “Il bianco è il mio colore preferito perché comunica grazia, purezza”, spiega. Però poi si smaschera quando butta lì bollenti sottintesi o mostra una certa pruderie nel parlare di faccende di sesso; ha il vezzo di usare parafrasi e allusivi doppi sensi che spesso risultano più volgari del turpiloquio e svelano un retropensiero morboso: “Se un uomo ha il colletto della camicia sporco, penso subito a come avrà lo slip”.

La Pampanini negli ultimi decenni della sua vita si lancia in una mondanità frenetica; non si perde una premiére, un vernissage, una sfilata. Energica e caciarona la si vede comparire ovunque, carica di orpelli, di toupet, con il trucco a prova di grandine… in genere avvolta nelle sue amate pellicce che oramai, più che un’immagine di lusso, rievocano vecchi racconti di yeti. Vittima del solito delirante desiderio di protagonismo, non si sottrae mai ai flash dei paparazzi né si fa prendere da timidezza quando si tratta di esibirsi in manifestazioni di vorace appetito davanti ai buffet dove, famelica, ingurgita tartine, risucchia filamentose piadine al formaggio, protende le fauci verso succulente fette di prosciutto… Nella sua vanità appare a volte ingenua e fa tenerezza quando, pur di apparire, si presta a improbabili servizi fotografici per rotocalchi commerciali: in uno si esibisce in un’arena, inguainata in un costume da torero, con tanto di muleta e con i capelli acconciati in modo da imitare il cappello dei matadores; in un altro giace languida sul suo lettone barocco, con in mano un libro su Madre Teresa (si professa molto religiosa) indossando solo un baby doll e spessi collant, con l’alluce valgo che svetta in primo piano.

Silvana è comunque una donna buona e si fida di tutti. Quando nel 2002 le propongono di far parte del cast di Domenica in, è entusiasta come una ragazzina: dovrà interpretare alcuni sketches su personaggi famosi. Non realizza di venire subdolamente messa alla berlina. Il clou lo raggiunge quando le fanno impersonare Kelly LeBrock ne La signora in rosso. La Pampanini, in parrucca scura, si dimena su un cubo con le gonne che si sollevano mosse da un ventilatore, stile Marilyn, mentre le telecamere la inquadrano dal basso, con il pube adiposo da anziana evidenziato dal body di Lurex fiammante. Quando qualche animo pietoso, la mette in guardia sul grottesco del suo ruolo, sdegnata, lascia la trasmissione, dopo solo due mesi: “Mi hanno presa in giro, mi volevano rendere ridicola” dichiara furibonda. Nelle ultime interviste appare ancora estroversa e prodiga di aneddoti ma più magra e fragile, sempre munita di un fazzolettino per tamponare un po’ di bavetta agli angoli della bocca.

Triste è l’epilogo della sua esistenza. Nel 2015 è operata d’urgenza per un blocco addominale; languisce per mesi in ospedale, in terapia intensiva. Livida e spelacchiata, senza trucco e parrucche, é ormai ineluttabilmente vecchia. Sola.

Muore il giorno dell’Epifania, a novant’anni. La camera ardente, allestita in Campidoglio, resta tristemente deserta: spicca la bara bianca, come da sua volontà perché “è il colore che si addice al feretro di una signorina”. Al funerale, sottotono e snobbato dai volti noti, solo alcune mummie – Silvan, Elsa Martinelli – si trascinano fuori dai loro sarcofagi per salutarla. Colpisce, a meno di due mesi dalla sua morte, l’impudica asta dei suoi beni. La sua intera vita sbattuta in piazza in gran fretta. Ogni cosa: la sua biancheria intima, gli abiti con le patacche ancora fresche degli ultimi vernissage, le pellicce sbausciate… Tutto svenduto e offerto alla curiosità del pubblico. Un malinconico finale nella cornice polverosa di una casa d’aste di second’ordine. Allora sorge il pensiero che forse quella smania di uscire, di partecipare, di presenziare, celava una disperata solitudine. Che probabilmente nessuna di quelle persone – con le quali si faceva fotografare affettuosamente avvinghiata – le era davvero amica ma, probabilmente, da costoro veniva esibita alle luci dei flash come un simpatico, bizzarro fenomeno circense.

Riguardando ora le foto degli ultimi anni, ci rendiamo conto che i suoi sorrisi non erano mai dei veri sorrisi ma erano smorfie; che dietro al fondotinta pesante e sotto ai riccioloni da “bigodino extra-large” c’era una donna anziana, stanca, che pur di non restare sola nella sua casa di pessimo gusto affrontava la fatica – perché indubbiamente di una fatica si trattava – di camuffarsi, di addobbarsi e di trascinarsi fuori per immergersi in quella deprimente e muffosa mondanità romana. Recitava ossessivamente la sua parte per sentirsi ancora “Ninì Pampan”. Replicava se stessa all’infinito, per non essere dimenticata.

Paolo Schmidlin


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