di Leone Maria Anselmi
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 43 | inverno 2020/21
Dante, questo illustre sconosciuto. Nell’immaginario collettivo, trascorsi ormai sette secoli tondi tondi dalla sua morte (1321-2021), trionfa il profilo di un uomo austero, spigoloso, umbratile, privo di sense of humor e con un che di vagamente monastico. Più un’icona, botticelliana, postuma, che un ritratto vero e proprio. Sebbene la sua scarna biografia appaia piuttosto avara di informazioni – infarcita perlopiù di aneddoti poco attendibili, opinabili illazioni e deliberate congetture – possiamo dire che, per grandi linee, la sua vicenda squisitamente storica ci è nota (ci riferiamo naturalmente a quell’accesa e imprudente militanza politica culminata poi nel castigo dell’esilio). Certamente meno nota, al grande pubblico come a tanti zelanti addetti ai lavori (i famigerati dantisti), è l’operazione intrinsecamente letteraria che ha reso Dante padre di una lingua nascente.
È questo Dante – il Dante clandestino – l’oggetto del racconto del critico letterario Marco Cavalli, autore di un affascinante homage che, con compiaciuta disobbedienza, spazia tra il memoir, il saggio e l’opera di narrativa. «Ho cercato il Dante clandestino, il Dante sfornito di documenti, di credenziali, l’esule in casa propria, l’irregolare scampato non si sa come alla santificazione nazionale.» Scritto dall’Inferno – non quello dantesco, ma quello creato diabolicamente ad arte da generazioni di suscettibili e inflessibili dantisti – Dante clandestino si offre in primo luogo come un accorato invito a riscoprire il vero autore della Commedia, il Dante scrittore. Attraverso la lettura integrale del «poema immaginoso» Cavalli recupera il Dante virginale, quello non adulterato da clericalismi e intellettualismi, affrancato definitivamente dai legacci della «tradizione talare della nostra letteratura». A emergere è il ritratto del pioniere che, con profetica lungimiranza, ha osato scommettere sulla futuribilità della lingua volgare; ma emerge anche la personalità di un uomo del XIV secolo che non rinuncia alle sue contraddizioni, né a certi guizzi di sottile e divertita comicità.
La Commedia – composta tra il 1304/07 e il 1321 durante gli anni dell’esilio in Lunigiana e Romagna – regge su gerarchie «linguistiche, non morali». Nel Paradiso, la beatitudine che Dante indica al lettore, spiega Cavalli, non coincide semplicisticamente con il raggiungimento della santità morale, ma con il godimento del medium letterario che la veicola ed esprime. «Raggiungere il paradiso significa gettare sul tragitto compiuto uno sguardo panoramico che permette di cogliere il disegno integrale non tanto del creato, quanto di un’opera che ha la stessa ricchezza, la stessa complessità, la stessa magnificenza del creato. (…) Non la visione di Dio, quanto una visione paragonabile a quella di dio.» Negli anni dell’esilio, lontano dalle vicissitudini temporali, Dante consegna se stesso «al dovere astratto e indifferibile di scrivere un capolavoro.» Più che un viaggio nell’aldilà, la Commedia si configura come un «viaggio mitopoietico» – un viaggio che ha luogo in quell’«eterno presente» che è «il tempo della scrittura» – un itinerario nel ventre della lingua madre. Dante la scrive in volgare fiorentino per raggiungere un pubblico più vasto e inventa la cellula stilistica della terzina a rima incatenata. La lingua volgare funge da materia prima per una lingua altra. «Prende questa creta molle, la plasma, la solidifica, la stratifica (…), dando vita a un’opera fondatrice della lingua italiana e celebrativa di se stessa.»
In questo libro Dante funge anche da pretesto per raccontare altro, in primo luogo per riflettere sul significato stesso della lettura, termine questo abusatissimo come ci ricorda lo stesso Cavalli, perché un conto è studiare letteratura e un altro è leggerla: «leggere è parola grossa che conviene non usare alla leggera». Al di là del pregevole contributo strettamente critico e saggistico, Dante clandestino vuole offrirsi, in un respiro molto ampio, come l’autobiografia di un lettore. Cavalli ricorda se stesso bambino all’età di cinque anni, steso sul tappeto di casa alle prese con un misterioso volume: La Divina Commedia illustrata da G. Dorè con note tratte dai migliori commenti di E. Camerini (un’edizione Sonzogno del 1935, uscita in edicola a fascicoli, acquistata dalla nonna paterna); poi, a sette anni, un altro ricordo: un’edizione Bur dell’Inferno trovata nel bagnetto di casa, un tascabile che «aveva la compattezza di una cassetta degli attrezzi.» A ventun anni la prima lettura integrale e a ventiquattro, nel 1992, la seconda (questa volta però senza l’aiuto delle note di commento). Ed è in questa seconda lettura, intrapresa durante il servizio militare presso il Centro Addestramento Reclute di Pesaro, che il Cavalli lettore incontra il Dante scrittore. Questa volta la Commedia fa sentire la sua voce da «un’edizioncina Hoepli (…), un parallelepipedo di cm 8,5×13 stampato su carta velina in caratteri tipo zampa di formica, così piccolo che lo si poteva alloggiare in una delle tante tasche dell’uniforme mimetica senza che, una volta abbottonata, se ne notasse il rigonfio.»
Bypassando gli asterischi dei pedanti commentatori, il lettore si addentra nella materia prima dello scrittore «imparandone la lingua». Le pene dell’Inferno, concepite per contrappunto, si riflettono in un gioco di specchi nella vita di caserma. Come «l’Inferno dantesco rispecchia la topografia politica di Firenze, il succedersi sterile delle rivalità tra gruppi di potere», così agisce il nonnismo nella disciplina militare, simile «a una giostra che gira azionata da un circolo vizioso che è anche un moto perpetuo.»
Dante clandestino è questo e molto altro. L’esortazione di fondo che serpeggia a più riprese tra le pagine del libro è che si ritorni ad ascoltare la vera voce di Dante, rintracciabile “nel ciel che più di sua luce prende”, ovvero in quel grandioso poema (e finzione artistica) che è la Commedia.
Leone Maria Anselmi
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 43 | inverno 2020/21
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