di Massimiliano Sardina
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 43 | inverno 2020/21
Se qualcosa di buono l’attuale pandemia ci sta insegnando è che le grandi tragedie su scala globale, lungi dall’essere mero appannaggio dei disaster movies, si verificano davvero. Occupati a fronteggiare la grave emergenza covid-19 rischiamo però di non prestare più la dovuta attenzione alla vera spada di Damocle che pende sul nostro capo: il cambiamento climatico. Se il virus è subdolo e invisibile, altrettanto non può dirsi di quest’altro nostro furioso nemico. I suoi segni, vieppiù flagranti e profondi, sono sotto i nostri occhi. Eppure, c’è chi finge di non vedere. Chi minimizza. Chi addirittura nega. Sono in pochi che, anziché negare la realtà, decidono di dire le cose come stanno. Uno di questi è Jonathan Franzen, noto al grande pubblico soprattutto per il suo romanzo Le correzioni.
Consapevole di vivere in un mondo dove «le tenebre avanzano in fretta» lo scrittore e saggista statunitense Jonathan Franzen ci consegna un pamphlet dai toni tutt’altro che rassicuranti. Sensibile alle problematiche ambientali e climatiche da oltre un trentennio, Franzen non usa mezzi termini per denunciare lo stato delle cose, cercando al contempo però «un modo per coltivare una qualche speranza» pur se nel bel mezzo di una «situazione disperata.» What if we stopped pretending? – tradotto in Italia con un altrettanto efficace E se smettessimo di fingere? – costituisce un conciso compendio di quanto già enunciato in articoli apparsi nel 2017 sul «New Yorker» e sul «Guardian» e in modo particolare nei saggi Xing Ped, Salva quello che ami e Scrivere saggi in tempi bui (pubblicati nel 2019 in Italia da Einaudi nella raccolta La fine della fine della terra). Il saggio si apre emblematicamente con un aspro aforisma kafkiano: «C’è molta speranza, infinita speranza, ma non per noi.»
Dati scientifici alla mano (compreso il rapporto 2019 delle Nazioni Unite sull’estinzione delle specie), Franzen osa sfidare apertamente la governance globale, l’establishment climatico e tutte le istituzioni impegnate a negare la realtà, compresi quegli attivisti ambientalisti mossi solo da interessi professionali o politici; colpevole di delitto contro l’ortodossia progressista, si scaglia sia contro i democratici (per i quali il problema tutto sommato può risolversi), sia contro i repubblicani (per i quali il problema non esiste affatto). Il tempo per giocare ai piccoli ecologisti è finito. Franzen usa parole forti, crude, schiette: «Se avete meno di sessant’anni, avrete buone probabilità di assistere alla totale destabilizzazione della vita sulla terra: carestie su vasta scala, incendi apocalittici, implosione di intere economie, centinaia di milioni di rifugiati in fuga da regioni rese inabitabili dal caldo estremo o dalla siccità permanente. Se avete meno di trent’anni, vi assisterete quasi sicuramente.»
Il danno inflitto da Homo sapiens al pianeta è talmente grande da avere innescato un processo irreversibile. In Geologia dell’Umanità (2002) Paul Crutzen ha stilato un dettagliato elenco dei disastri perpetrati dall’uomo: «[…] L’attività umana ha trasformato da un terzo a metà della superficie del pianeta. La maggior parte dei principali corsi d’acqua è stata arginata o deviata. Le fabbriche di fertilizzanti producono più azoto di quanto ne venga fissato in natura da tutti gli ecosistemi terrestri. Le industrie ittiche rimuovono più di un terzo della produzione primaria delle acque oceaniche costiere. L’uomo usa più della metà delle risorse accessibili di acqua sorgente al mondo.» È stato Crutzen a battezzare con il termine “Antropocene” questa nostra era irresponsabile votata all’autodistruzione. Dalla rivoluzione industriale a oggi il nostro impatto sul pianeta ha prodotto ferite insanabili. Terra, acqua, aria: non c’è elemento che non rechi traccia e segno del nostro abuso. Tanto nella stanzialità quanto nelle isteriche dinamiche del transito, specie negli ultimi due secoli (e con una forte accelerazione nei decenni più recenti), non ci siamo fatti scrupolo nel trasformare il paesaggio a nostro uso e capriccio. Il danno si è accresciuto proporzionalmente allo sconsiderato incremento demografico su scala mondiale. Una specie infestante. Questo siamo. E va da sé che il sovrannumero, presto o tardi, dovrà fare i conti con la decimazione.
Tappiamo il suolo con i nostri insediamenti, immettiamo veleni nell’aria e nell’acqua, scommettiamo sul nucleare (ben consapevoli della vulnerabilità degli impianti di fronte all’imprevedibilità delle incognite), deforestiamo, deviamo le traiettorie dei fiumi, ci sostituiamo drasticamente al lento e normale corso degli eventi favorendo la proliferazione di determinate specie a dispetto di altre, mischiamo le carte per barare a nostro vantaggio (un vantaggio a brevissimo termine). Non facciamo altro che produrre plastica e bruciare plastica. La raccolta differenziata può lavarci la coscienza, ma di certo non laverà il pianeta. A fronte di tante belle parole le multinazionali (per buona parte vere e proprie mafie dell’industria) si confermano sempre più potenti e prepotenti, abilissime nel minimizzare e rassicurare, sorde a ogni monito, indifferenti a ogni appello, intoccabili come eteree divinità. Tutto è sacrificato al profitto immediato e, nel giro di una manciata di generazioni, all’ingordigia dei padri non potrà che far seguito l’inedia dei figli. Con l’affinamento della tecnologia l’uomo si è gradualmente trasformato in una forza capace di alterare la natura. Si ritiene che l’Antropocene sia iniziato con la rivoluzione industriale (o con l’incremento demografico post Seconda guerra mondiale), ma tracce dell’atavica aggressività umana si riscontrano anche in stagioni più remote. Nel saggio La sesta estinzione (2014) Elizabeth Kolbert asserisce che «l’uomo è stato un assassino e uno sterminatore sostanzialmente fin dalla sua comparsa.»
Quanti gigatoni di anidride carbonica ci sarà ancora dato di emettere prima che la catastrofe si manifesti in tutta la sua inarrestabile portata? Gli effetti del cambiamento climatico si stanno verificando con sempre maggiore rapidità in ogni angolo del mondo. Le cronache quotidiane parlano chiaro. È questa rapidità ad aver sollecitato l’impegno militante di Franzen, unitamente al consolidarsi di una dolorosa consapevolezza, il dover «venire a patti con la possibilità che l’apocalisse climatica si verificasse nel corso della mia vita.» Aprire gli occhi su ciò che sta accadendo intorno a noi è un dovere civile. «Gli effetti delle emissioni di CO2 nell’atmosfera sono comprensibili anche da un alunno di terza media.» Solo istituendo in tempi strettissimi draconiane misure di riformulazione potremmo sperare di scongiurare la débâcle, ma vagheggiare che si verifichi davvero un totale riassetto delle infrastrutture e dell’economia globale è pura utopia. Impensabile che colossi in via di sviluppo come la Cina, l’India o l’Africa rinuncino alle centrali elettriche a carbone. Impensabile che l’americano medio rinunci alle sue bistecche e al suo pick-up. Impensabile una messa al bando globale del petrolio e derivati. Gli interessi economico-politici a breve termine avranno sempre la priorità su ogni altra considerazione, anche a prezzo dell’estinzione. È il trionfo del petro-consumismo, «la malvagia industria dei combustibili fossili che tiene l’umanità in una morsa di ferro.» Il problema di fondo di Homo sapiens è tutto compreso nel divario tra progresso tecnologico e progresso morale.
«Si può continuare a sperare che la catastrofe sia evitabile, e sentirsi sempre più frustrati o furiosi per l’inerzia del mondo. Oppure si può accettare l’idea che il disastro sta arrivando e cominciare a ripensare il significato della parola “speranza”.» Quello di Franzen non è pessimismo ma disincantato realismo. Fermare la macchina aveva senso fino agli anni Novanta. I più allarmanti dati scientifici sulla catastrofe climatica globale erano già chiari dalla fine degli anni Ottanta. Ora è troppo tardi. «Una guerra senza quartiere contro il cambiamento climatico aveva senso solo finché era possibile vincerla. Nel momento in cui accettiamo di averla persa, altri tipi di azione assumono maggiore significato.» Franzen in altre parole, affida le sue speranze non già alla capacità di evitare la catastrofe, ma a quella di affrontarla in modo ragionevole e umano. L’imperativo è dunque smettere di fingere e cominciare ad accettare più consapevolmente l’imminenza dell’apocalisse climatica.
L’Ipcc (il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico) vagheggia l’obiettivo zero emissioni entro i prossimi trent’anni. Com’è noto, se la temperatura media globale aumentasse di soli due gradi l’intero ecosistema collasserebbe. Se… Il problema è che non esiste più un se, ma la certezza scientifica che tutto ciò avverrà in tempi relativamente brevi. «Alcuni attivisti sostengono che se ammettiamo pubblicamente di non poter risolvere il problema, la gente si sentirà scoraggiata e non farà più niente per migliorare le cose.» Un’ammissione pubblica sarebbe disastrosa anche sul fronte socio-politico. Franzen ribadisce fermamente che, anche se non possiamo più sperare di evitare il surriscaldamento globale, ci sono ancora ottime ragioni pratiche ed etiche per contenere quanto più possibile i livelli di anidride carbonica. Anche se il futuro surriscaldato è alle porte, le misure collettive per ridurre le emissioni di CO2 devono comunque rimanere un’assoluta priorità. Il pamphlet si chiude con l’auspicio che si parli meno a sproposito di clima e più consapevolmente di ambiente, di biodiversità e di interventi mirati su piccola e larga scala.
In appendice compare un’intervista rilasciata al «Die Literarische Welt». Qui Franzen prende in esame più da vicino le ambigue politiche europee, colpevoli di impattare negativamente sull’ecosistema «tramite trattamenti agricoli che rendono sterile il suolo, tramite la distruzione delle riserve ittiche, tramite una cattiva gestione forestale, tramite un’insostenibile diffusione della caccia legale e illegale, e sì, anche tramite parchi eolici, direttive sui biocarburanti e altri programmi energetici virtuosi.» Si salva, sulla carta, la virtuosa Svezia (zero emissioni entro i prossimi dieci anni).
In Europa come in America e nel resto del mondo una vera e propria politica climatica attende ancora di essere avviata. Ne La grande cecità (2017) lo scrittore indiano Amitav Ghosh definisce il cambiamento climatico «un problema “contorto”, e non “normale”, proprio perché l’orizzonte temporale per intraprendere un’azione efficace è molto ristretto: ogni anno che passa senza una drastica riduzione delle emissioni globali rende la catastrofe più certa.» Affinché l’Ipcc possa raggiungere l’obiettivo delle zero emissioni entro i prossimi trent’anni occorre una netta ridefinizione della società contemporanea, nei consumi, nei trasporti, nello stile di vita. Difficile immaginare che possa realizzarsi una trasformazione così radicale. «Se un pericolo c’è nella traiettoria umana, – scrive il biologo statunitense Edward Osborne Wilson – non risiede tanto nella sopravvivenza della nostra specie, quanto nel concludersi dell’estrema beffa dell’evoluzione organica: proprio nel momento in cui raggiunge la piena comprensione di sé attraverso il pensiero dell’uomo, la vita condanna a morte le sue creature più belle.»
Lucido, lungimirante, accorato, cupo. E se smettessimo di fingere? trae cruda forza dalla sua brevità e colpisce come un pugno allo stomaco.
Massimiliano Sardina
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