IL REATO DI FALSIFICAZIONE DI MONETE NELLA TERRAFERMA VENETA DEL SECOLO XVI

di Ruggero Soffiato

Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 42 | autunno 2020

SFOGLIA LA RIVISTA

 

Le leggi veneziane sulla falsificazione delle monete

Le monete emesse dalla Zecca veneziana, in particolare il ducato, il cui valore corrispondeva al peso dell’oro in esso contenuto, (3,545 gr., la purezza era di 24 carati ovvero 997 millesimi) e che venivano accettate in tutti i mercati europei,  sono sempre state oggetto di falsificazione, sia attraverso l’impiego di metalli non nobili,  poi solo ricoperti di un sottile strato d’oro, sia limando le monete per ricavare da ognuna un po’ di metallo  prezioso (la cosiddetta operazione di “stronzatura”).

Nell’ordinamento giudiziario penale della Repubblica di Venezia, le pene previste per questo reato sono particolarmente gravi e cruente: taglio della mano[1] e il rogo, in quanto la fabbricazione e lo spaccio di monete false viene considerato come il massimo sfregio all’autorità di chi governa e viene esplicitamente definito,  nella raccolta delle Leggi Criminali del Serenissimo Dominio, “crimenlesae maiestatis”:

“L’adulterar le Monete è delitto chiamato Crimenlaese, ed il vero, e proprio Monetario, et adulteratore si dimanda quello, ch’adulterasse in alcun modo le monete del suo Prencipe, o pure d’altro Prencipe, nello Stato del quale commettesse la detta falsità, e che la moneta come di sopra falsamente fabbricata, ancor che fosse d’altro Prencipe corra, e si spenda in quello Stato, o luogo ove egli l’avesse composta, ed adulterata”. [2]

Lorenzo Priori, famoso giurista del XVIII secolo, nella sua Pratica Criminale, ci descrive nel dettaglio le cinque fattispecie di questo reato:

“Il primo è quando si stampa, e fabbrica moneta anche giusta, ma senza autorità del suo Prencipe, non potendo alcuno stampare monete se non ha l’autorità da qualche Regia Maestà, ovvero Prencipe, o Repubblica libera, ovvero da consuetudine introdotta da molto tempo, che non vi sia memoria in contrario.

Il secondo modo è falsificare, e adulterare la moneta, componendola di materia, o metallo non buono, o pure s’il metallo fosse buono, la faccesse di manco peso di quello dovrebbe essere.

Il terzo modo è quando si falsifica l’immagine, ovvero la sottoscrizione, imprimendogli altra forma, come sarebbe se fosse di rame, o d’altro metallo la ricoprisse con oro, o con argento, et altre simili.

Il quarto modo si dimanda , quando si stronza la moneta, levandogli, e radendogli, o con lima, o con taglio, o con acque, o altro instromento l’oro, o l’argento, o pur non dandogli nello stamparla il suo giusto peso.

Il quinto, ed ultimo modo è lo spender la detta moneta falsa, e corrotta col distribuirla fra le genti”[3].

 Quindi, anche coloro che semplicemente smerciano le monete false, vengono parificati ai falsari che le producono.

Le leggi e le pene

Le pene previste per questo delitto, che anche  il Priori definisce “Crimenlaese”, sono particolarmente pesanti: “La pena di  questo delitto per ogni ragione è di morte con la confiscazione di tutti li suoi beni, e particolarmente della casa, o luogo, nella quale fosse fatta la detta adulterazione”[4].

Nel suo voluminoso trattato, il Priori riporta numerose leggi della Repubblica concernenti questo reato: per ovvie ragioni, non è qui possibile riportarle tutte; ci limitiamo alla più antica ed alla più recente, che comunque riescono a darci un’idea della importanza dell’argomento.

La più antica legge che abbiamo rinvenuto è quella promulgata “Vacando il Dogado da poi la morte di M. Lorenzo Theupolo [Tiepolo] Dose”, cioè nel 1275:

“Che colui che falsifica la Moneda Nostra in Venetia, & il Venetian, che altrove la falsifica, sia brusado”

“Volendo le cattività dei Homeni con i rimedi delle pena castigare, statuiamo, che qualunque sarà trovado falsificar la Nostra Moneda in Venetia, deba esser brusado”

“ E se alcun Venetian falsificherà essa Moneda in altro luogo, & però serà trovado, & preso, debba esser brusado”.

Evidentemente la minaccia di una pena così definitiva – il rogo –  non deve aver scoraggiato molto i veneziani se, quasi quattrocento anni dopo – e con in mezzo almeno una decina di altre leggi severissime –  la Repubblica deve ritornare sul punto con l’ennesima “Parte”. In questo caso osserviamo che, oltre alle pene solo un  poco più leggere, vengono previsti dei “premi” ai delatori denunzianti, premio che viene riconosciuto anche nel caso siano complici. In pratica vengono riconosciuti, ante litteram,  i “pentiti”.

“1608. Adi 25 ottobre. In Pregadi [così si definiva il Senato]. Non si deve mancare con ogni mezzo possibile di procurar, che le deliberationi ultimamente fatte in proposito di valute habbino in tutte le sue parti la debita essecutione, acciò si veda finalmente rimediato a tanti disordini, che erano in tal materia con tanto danno publico, e  particolare; e potendo maggiormente promettersi di ottenere si fatto fine, quando che siano promessi premi alli denuncianti delli contrafattori ad esse deliberationi, dalli quali eccitati venghino prontamente a palesar li mancamenti, onde la Giustitia possi con fondamento procedere contra li colpevoli. Però

L’anderà Parte, che oltre tutte le altre autorità concesse dalle leggi nostre alli Proveditori sopra li Ori,  Monete, possino anche prometter alli denoncianti di quelli, che introducessero, o marcantassero Taleri, e altre valute d’oro, e d’argento prohibite da esse leggi,  similmente che spendessero, ricevessero, o marcantassero il Cecchino, e altre valute d’oro, e  d’argento permesse a maggior pretio del limitato per le medesime leggi, o in altra maniera vi contravenissero, facoltà, preso, convinto e castigato che sia il reo; o rei, di poter liberare un bandito da qual si voglia Rettor, o Magistrato, per altrettanto tempo, per quanto sarà bandito il denonciato per simili contrafattori, e per quelli che saranno condennati in galea per anni cinque, o in pregion per anni sette, possi esser liberato un bandito fin’anni venti; eccettuando però delli banditi del Consiglio nostro di Dieci, o coll’autorità, o per delegation di esso, overo delli banditi del Conseglio di Quaranta al Criminal; il che debba esser concesso con quattro ballotte di essi cinque Proveditori, e questo oltre li altri beneficii promessi alle leggi alli denoncianti in tal materia.

Et la presenteParte sia stampata, e publicata in questa Città, nelli luoghi soliti, e mandata à tutti li Rettori da Terra,  e da Mar, perché sia fatta publicar à intelligenza di cadauno”.

Lo scopo dichiarato nella premessa a questo decreto  è mettere ordine nella materia legislativa inerente questo delitto,  che non conosce  freno, nonostante i numerosi provvedimenti, le pene durissime ed i premi consistenti ai denuncianti. Però lo stesso  non sembra essere raggiunto in quanto le disposizioni ci sembra possano procurare ulteriore confusione.

Le sentenze

Dopo aver fornito un esempio delle numerose leggi relative al crimine di falsificazione di monete, presentiamo alcuni casi particolari, tratti dalle Raspe presenti nella raccolta dell’Archivio di Stato di Padova. Saranno presentati in ordine cronologico come conservati nella raccolta.

Sentenza[5] contro Giacomo Brusco, falsario[6]

Questo è uno delle prime sentenze (Raspe)  che si trovano nella raccolta dell’Archivio di Stato di Padova.

Il processo viene istruito su querela del Contestabile presentata alla Cancelleria pretoria e la sentenza viene letta e pubblicata al Tribunale del Pavone in Palazzo di Giustizia,  alla presenza dei Rettori Veneziani, ma anche con il concorso di testimoni e di un notaio.

Il fatto

L’imputato, tale Giacomo Brusco, ferrarese, è un falsario recidivo, condannato al bando dal tribunale di Mantova, la cui sentenza è stata trasmessa alla Cancelleria padovana. Il documento  descrive in dettaglio la situazione personale  e le  attività criminali dello stesso: vive in una casa in affitto vicino al fiume Brenta, tiene in casa diversi materiali e strumenti atti alla falsificazione, comprese le ricette di produzione e possiede una moneta falsa simile a quelle prodotte nella Zecca veneziana. Il testo della raspa appare particolarmente dettagliato nella descrizione degli oggetti ritrovati nell’abitazione dell’imputato, probabilmente ricavati dai documenti redatti dagli ufficiali che l’hanno effettuata.

Il processo e la sentenza

Ecco quindi il racconto che il cancelliere presenta attraverso la” raspa”.

 “Giacomo Brusco quondam Gerolamo di Ferrara. Retento. [cioè già incarcerato].

Contra il quale per noi e per l’officio nostro è stato proceduto sopra la querella del strenuo Sebastiano Fantino Contestabile di noi Podestà presentata alli XVIII decembre prossimo passato nell’ufficio della Cancelleria.

Sopra ciò, che avendo il detto Giacomo con sceleratissima temerità continuato come per habito di suo particolar essercitio, nella diabolica professione di far, et spender moneta falsa con l’impronto de segni et imagini diverse che sono nelle monete de diversi principi, così nella città di Ferrara, sua patria, come in quella di Ravena et in Hostia [L’attuale Ostiglia] del ducato di Mantova, per quel tempo che ha dimorato nei detti luoghi, dai quali per questo gravissimo delitto è anco stato bandito con pena della vita, come per autentica sentenza contra di lui pubblicata, et nell’officio nostro prodotta, chiaramente si legge”.

Segue una dettagliata elencazione degli strumenti, dei materiali ed anche delle monete già falsificate rinvenute nella sua abitazione; dopodichè il Podestà conclude:

“Giacomo Brusco da Ferrara quondam Girolamo antedetto retento

 Che sia condennato et che sia mandato a servir sopra la galera del Serenissimo Dominio per galeotto con ferri a piedi per anni diese et se fosse inhabile sia confinato in preson serrata per anni quindese continui, et in caso che fugisse di galera, o di prigione, sia bandito in perpetuo di Padova, et suo territorio, et per quindici miglia oltra i confini, et della inclita città di Venezia, et ducato e delliquatro luoghi[7] giusta la parte ed essendo preso in  alcun tempo dentro li confini, habbi chi lo prenderà lire dusento delli suoi beni e se ne saranno e se non delli denari deputati alla taglia; et lui sia confinato in prigione in vita sua. [….] nelle spese del processo. Per monetario ex  arbitrio. In questi scritti sentenzialmente pronunciamo et terminiamo

Notiamo subito come la pena sia molto più aderente alla legge del 1608 che non a quella del 1275: evidentemente i quattro secoli avevano determinato una maggiore indulgenza per questo tipo di reato.

Sentenza[8] contro Giovanni Pampergo todesco[9]

Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una sentenza emessa a seguito di un  processo istruito direttamente dal giudice del Maleficio nella Cancelleria pretoria.

Il fatto

Di questo Giovanni Pampergo la sentenza non ci offre molte notizie: viene semplicemente definito  “todesco”. È arrestato da un ufficiale della Corte, ma non ci vengono fornite altre informazioni su come si sia arrivati all’arresto, se per denuncia di qualcuno o per pubblica fama. Viene però rilevata un’aggravante, cioè il possesso di più “archibusi de ruota”[10], il che non è consentito dalle leggi della Repubblica. Le leggi a questo riguardo sono molto numerose e prevedono pene molto severe, anche per il solo possesso. Non è questa la sede per una disamina particolare di queste leggi ma, a solo titolo di esemplificazione, riportiamo una parte della legge emanata dal Consiglio dei Dieci  nel 1558, quindi pochi anni dopo questo processo. Ma le leggi precedenti erano altrettanto severe:

In Materia di archibusi, e altre arme

  1. Adi 2 giugno. In Consiglio di Dieci, e Zonta

       È Stato provisto per questo Conseglio in diversi tempi, che non si possano tenere, né portare schioppi da roda curti, sotto pena di bando, e pecuniaria, come nelle parti sopra di ciò prese, e alli 21 di Ottobre 1553 fu statuito per questo Consiglio, che chi scaricasse schioppo, così in questa città, come in cadaun loco del Dominio nostro contro di alcun altro, o ferendolo, o non ferendolo, fosse immediatamente appiccato per la gola, e tutti li suoi beni confiscati, come nella Parte sopra di ciò presa; nondimeno si vedono moltiplicar tanto i delitti che si commettono nel Stato Nostro con Schioppi per la Libertà che si ha di tenerli, e portarli con offesa di Dio, e della Giustitia, che è necessario fargli maggiore provisione per la quiete, e salute dei Sudditi Nostri, però

       L’Andarà Parte, che salve e riservate tutte le Leggi , e Ordini fatti in questa materia alla presente Parte non repugnante, tutti schioppi e archibusi da roda, così longhi, come curti, […] siano in perpetuo banditi, e prohibiti, si che niuno, di che sia stato, grado, o conditione esser si voglia, nemine eccetto, ardisca far, né far far, portar, né tenere in casa in questa Città, né in alcun luogo del Dominio Nostro schioppi, nè archibusi, né balestrine prohibite, ut supra, in pena, se sarà nelle forze, di stare un’anno in pregion serrata, e di esser confinato al remo in galia in vita sua. […].

Il processo e la sentenza

Dalla sentenza pochi sono i particolari che si possono ricavare per conoscere meglio lo svolgimento del processo e, data la brevità, si riporta interamente:

Giovanni quondam Giovanni Pampergo todesco

       Contra il quale per noi è stato proceduto sopra la retentione et […] fatta a le prigioni della persona sua per Angelo officiale de la Corte di noi Podestà et compagni il dì 23 febraro prossimo passato per quello che esso Zuane poco temendo le pene imposte per le leggi del Serenissimo Dominio allimanzadori di monete di argento quelle così diminuite spendendo publicamente con grave danno del prossimo tenendo ancho in casa archibusi de ruota[11]prohibiti commettendo le predette cose con offesa del Serenissimo Dominio e de la giustitia onde constituito sopra tali imputationi ha fatto le sue difese ma non relevanti, però a castigo suo et esempio di altri acciò che imparino astenersi detestando et diabolico delitto che Zuanne predetto sia mandato a servir sopra le galere del Serenissimo Dominio  con li ferri ai piedi per galeotto per anni sei, et in caso d’inhabilità le sia tagliata la mano più forte si che resti separata dal brazzo et poi sia bandito di Padova et suo distretto et di tutte le terre et lochi del Serenissimo Dominio terrestri et maritimi, navili armadi e disarmadi et de l’inclita città di Venezia et ducato per anni vinti nel qual tempo se venissi nelle forze sii appiccato per la gola si che muora con taglia allicaptori de lire trecento per stronzador di moneta et altre cose contenute nel processo ex arbitrio e nelle spese.

           Die sabati nono Juli 1583

Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una sentenza abbastanza mite: sei anni di remo sulla galera; però le disposizioni della Corte si inaspriscono notevolmente nel caso che il condannato sia considerato inabile al remo: taglio della mano più valida e bando per vent’anni. Ciò è probabilmente dovuto al possesso dell’archibugio (le “altre cose”). Abbastanza usuale invece la pena che vien inflitta nel caso il condannato venga sorpreso a rientrare nel territorio padovano: l’impiccagione.

Sentenza[12] contro Giacomo Bruno Barbiero[13]

Il contenuto di questa raspa ci mette di fronte ad una situazione molto più complessa rispetto alle precedenti, presentando un imputato reo di molti altri e gravi delitti, oltre a quello di  “haver per molto tempo stronzato monete d’argento et d’oro et quelle così stronzate maliciosamente spese et haver getato le stronzature in verghe e fondelli[14] et quelli venduti in questa città et in Venezia”.  Vi sono, infatti, coinvolti  i Rettori di altre città, il Vescovo, gli Avogadori di Comun ed assistiamo anche alla messa  in atto di molte delle strategie difensive previste dalla legislazione vigente.

Il fatto

Giacomo Bruno Barbiero, il 21 agosto 1597, viene denunciato  con l’imputazione di cui sopra, ma anche di esser stato trovato in possesso di “alcune monete stronzate con corezuolo[15] da disfar argento et altre robbe e scritture per esso alla Giustitia presentate et una pistola de ferro curtarugine prohibita separata però la roda dalla canna ritrovata sopra due camini di detta casa tenendola contro la forma della legge dell’eccellentissimo Consiglio di X 1596”. Viene poi arrestato per le  imputazioni suddette, ma poi, proseguendo nell’iter processuale, la raspa ci fa scoprire come questo Giacomo sia persona di pessima qualità et malissimo esempio come quello che si ritrova all’assassinio et altri scelerati sopra la campagna di Gussolengo[16] de Verona contra alcuni somieri da seda per il qual proclamato restò contumace in perpetuo bandito dal Chiarissimo Regimento di Verona et come nel suo bando e doppo è stato conosciuto reo del svaliso da lui et altri cinque commessi contro li Corrieri di Augusta l’anno 1595  a Perzen[17] terra de Trento alla pubblica strada con arcobusi et altre armi e haverli levato cento dieci libre d’oro, 600 talleri et un bossolo[18] de muschio[19] del qual bottino havendo havuto il detto Giacomo la sua portione che fu de ducati 3mila in circa se ne vene in questa città nella quale con molte persone in diverse maniere contato il denaro sopradetto comprando particolarmente un beneficio per liberarsi del predetto bando havendo investito a livello et prestato a molti diverse quantità di denari et con essi comprato diverse case havendosi in oltre cambiato il nome et cognome facendosi chiamar or Giacomo et hor Filippo Brocha per starsene a questo modo isconosciuto in questa città et altrove ocultar le sudette sue scelerate operationi”.

 

Descrizione dei reati commessi da Giacomo Bruno Barbiero

 

Ci troviamo con tutta evidenza  di fronte ad un malvivente recidivo, già componente di una banda di grassatori, condannato, in contumacia, al bando dal Podestà di Verona per omicidio. Ci viene presentato anche come un abile profittatore dei frutti delle sue ruberie, in possesso quasi sicuramente di buone relazioni che gli consentono di ottenere un beneficio ecclesiastico; prestatore di denari e  investitore in immobili.

Il processo e la sentenza

Anche lo svolgimento del processo, per quanto se può dedurre dal testo della raspa, ci conferma quanto questo imputato sia un abile conoscitore delle pratiche giudiziarie, delle quali si avvale per difendersi. Innanzitutto nega di rispondere all’interrogatorio, “facendo istanza di esser restituito in chiesa alla porta della quale si era fuggito per salvarsi dalli ministri conscio della sua colpa”.

Per mezzo dei suoi avvocati ricorre a “ Monsignor Illustrissimo Vescovo et all’officio del Chiarissimo Avogador per sotrarsi dal giuditio e per starsene impunito delle sue sceleratezze”.

Ciononostante, la Corte pretoria, dopo aver dato avviso ai capi del Consiglio dei Dieci, viene da questi autorizzata a procedere ed anche il vescovo non fa opposizione. L’imputato si difende ulteriormente affermando,  e suffragando con documenti le sue affermazioni, di essere stato assolto per l’omicidio dal tribunale di Trento,

       stante la restituzione per lui de ducati mille duecento alli mercanti interessati nel denaro rubato come per certi atti da lui prodotti nel processo appare et introdoto anco altre sue diffese non però legitime e relevanti per iscusatione dell’imputationi sudette quali diligentemente considerate et udite anco l’allegationi ex novo fatte per suoi  deffensori all’espeditione predetta devenendo sententiamo che

Giacomo sudetto sia condannato che sii condotto al luoco solitio della Giustitia ove sopra un solaro eminente dalli ministri di quella gli sia tagliata la mano più valida si che resti separata dal brazo et poi debba star serato nella preggion Leona per anni cinque continui per delitti come nel processo et nelle spese.

       1598- Indictione XI die sabbati 27 Junij.

Come possiamo vedere ci troviamo di fronte ad una pena severa e, pur non avendone evidenza documentale, possiamo supporre che, dato che l’imputato era agli arresti, la stessa sia stata regolarmente eseguita.

Conclusioni

Le sentenze per falsificazione di monete e reati correlati che abbiamo presentato sono soltanto tre delle numerose rinvenute nel Fondo dell’Archivio di Stato patavino, anzi, per il periodo preso in considerazione dalla nostra ricerca (50 anni circa, 1580-1630) sono quelle più numerose rispetto ad altri reati quali, rapina a mano armata, omicidio, banda armata, furto sacrilego, lesa maestà, incendio doloso, falsa testimonianza, etc.. Ciò può far pensare che, nonostante le severe pene previste, il reato fosse particolarmente redditizio e tale da far correre il rischio. Nei tre casi presentati gli imputati erano tutti “retenti”, cioè già incarcerati, ma ciò raramente accade. Molto spesso gli imputati, infatti, quando vengono a conoscenza della convocazione del Tribunale, di essere cioè  “proclamati”,  si guardano bene dal presentarsi e fuggono oltre i confini della Terraferma, quasi sempre nel Ducato di Milano o negli stati della Chiesa, costringendo i Tribunali ad emettere sentenze in contumacia.

La presentazione di questi tre casi è stata anche l’occasione per meglio comprendere alcuni aspetti della società del tempo e delle leggi che ne regolavano i comportamenti, ma non solo, anche le procedure utilizzate nei Tribunali, in particolare il cosiddetto “rito inquisitorio” che non consentiva la presenza di avvocati difensori; l’imputato era solo davanti al Magistrato che era,  nello stesso tempo, accusatore e giudice. Nel caso del falsario, ma anche rapinatore, Giacomo Bruno Barbiero, ci troviamo di fronte ad un’eccezione: l’imputato ha già subito un processo ed ha avuto quindi modo di acquisire esperienza delle procedure e se ne serve con spregiudicatezza, chiedendo l’intervento, quasi sicuramente attraverso una “supplica” degli Avogadori di Comun, una Magistratura veneziana d’appello, che, se lo ritenevano giustificato, potevano interrompere il processo ed avocarlo a se stessi. Ma, come abbiamo visto, la strategia non funziona, il processo procede regolarmente e la sentenza viene, probabilmente,  eseguita: taglio della mano più valida.

Ruggero Soffiato

[1] “Ancora statuiamo, che se alcun falsificherà il Sigillo Nostro, over del Sale, o serà falsador della Moneta Nostra, ch’el debbia perdere la man, se lui harà confessado quello, over serà convinto per Testimonii.” Si veda: LEGGI CRIMINALIDEL SERENISSIMO DOMINIO VENETO  in un solo volume RACCOLTE e PER PUBBLICO DECRETO RISTAMPATE, Colui che falsificherà il Sigillo, over Moneta. Cap. XX., p. 7.

[2] Ivi, p. 26.

[3]Priori L., Pratica Criminale, p. 126.

[4]Ibidem.

[5]ASP. Archivio giudiziario criminale, Raspe, busta 1, fascicolo 1, carte 18-19

[6]Il processo si svolge durante il Reggimento di:

  • Alvise Giustiniano fu Podestà di Padova dal 20 settembre 1578 al primo maggio 1580; Francesco Angussola, vicentino, Vicario, Domenico Azzalino, trevisano, Soranzo Brescia, e Annibale Minadoi, rodigino
  • Francesco Cornaro fu Capitano dai primi giorni di settembre 1578 al 30 aprile 1580. Gloria, A. I Podestà e Capitani di Padova, dal 6 giugno 1509 al 28 aprile 1797, p. 21.

[7] “Quando un Reggimento procede con la sua autorità non può bandire se non dalla città in cui risiede per quindici miglia oltre il confine e dalli quattro luoghi giusta le parti, che sono Oriago, Bottonigo, Fusina e Gambarare. Quando bandisce definitivamente può estendersi a bandire anco dalla città di Venezia e Dogado. Guidozzi G., ” I giudizi criminali, Pratica criminale, pag. 33.  Citato in Passarella C., Magistrature penali e riti giudiziari in un inedito manoscritto veneto settecentesco. Tesi di dottorato, Università di Milano, Scuola di dottorato in Scienze Politiche, AA 2013/2014.

I quattro luoghi indicati dal Guidozzi e dagli altri pratici veneti hanno tutti uno sbocco in laguna, come spiega chiaramente Fabio Mutinelli nel suo Lessico veneto:

  • Bottenigo, Butinicum, maremma vastissima tra Lissafusina e Marghera, p. 68;
  • Borgata alla destra di un ramo del Brenta, che a Lizzafusina sboccava nella laguna, e ch’è distante da essa circa tre miglia. Trovasi menzione di questa borgata sin dall’anno 819, chiamandola però sempre gli antichi documenti per fossa Gambararia, ed accennando ch’era circondata di buone campagne, di selve e di macchie. Gambarare formava parte, come vedemmo, del Dogado, e era retta da un Podestà, p. 177;
  • Lizza Fusina. Paesello al margine della laguna, ove un dei rami del Brenta avea foce. Eravi un ospedale per i pellegrini, beneficato assai dalla celebre Speronella, [Leggendaria donzella padovana vissuta nel XII secolo] ed è appellato san Leone in buccafluminis, p. 226;
  • Oriago, anticamente Villaggio dirimpetto a Gambarare, presso il quale, da quanto sembra, terminava un tempo il territorio del Dogado, p. 283.

[8]ASP. Archivio giudiziario criminale, Raspe, busta 2, fascicolo 1, carta 34.

[9]Il processo si svolge sotto il reggimento di:

  • Natale Donato, Podestà dalla metà circa del marzo 1583 agli ultimi giorni del luglio o primi di agosto 1584;
  • Andrea Foscarini, Capitano dalla seconda metà di marzo o dalla prima dell’aprile 1583 all’11 circa dell’agosto 1584. Gloria, A. I Podestà e Capitani di Padova, dal 6 giugno 1509 al 28 aprile 1797, p. 22.

[10]Archibugio a ruota. – Così detto per un congegno a rotella nel sistema di accensione, congegno che tardò parecchi anni a diffondersi. L’origine di questi archibugi è incerta: alcuni l’ascrivono a un orologiaio di Norimberga nell’anno 1517; ma sembra invece più probabile, come implicitamente risulta da alcuni documenti dell’epoca, che si tratti di un’invenzione italiana. www.treccani.it.

[11]Archibugio a ruota. – Così detto per un congegno a rotella nel sistema di accensione, congegno che tardò parecchi anni a diffondersi. L’origine di questi archibugi è incerta: alcuni l’ascrivono a un orologiaio di Norimberga nell’anno 1517; ma sembra invece più probabile, come implicitamente risulta da alcuni documenti dell’epoca, che si tratti di un’invenzione italiana. www.treccani.it.

[12]ASP. Archivio giudiziario criminale, Raspe, busta 2, fascicolo 1 , Carte 19-20.

[13]Il processo si svolge durante il  Reggimento di:

  • Alvise Bragadin, Podestà dal 26 maggio 1597 al 28 febbraio 1599; Latino Dal Colle, Vicario; Domenico Dotto; Lelio Piovene, assessori.
  • Domenico Dolfin, Capitano dal 13 febbraio 1597 al 5 ottobre 1598.Gloria, A. I Podestà e Capitani di Padova, dal 6 giugno 1509 al 28 aprile 1797, p. 23.

[14]Fondèlo, s.m.. Verghetta o verghello d’oro e d’argento, formato di rimasugli di questi metalli. Boerio G., Dizionario del Dialetto Veneziano, p. 228.

[15]È da intendersi crogiolo, recipiente usato per fondere i metalli.

[16]Evidentemente si tratta di Bussolengo, in provincia di Verona.

[17]Si tratta evidentemente di Pergine Valsugana, cittadina posta sulla via che dalla Germania conduce in Italia.

[18]Bòssolo, s.m. Bossolo, vasetto di legno o di latta per uso di riporvi dentro qualche cosa. Boerio G., Dizionario del Dialetto Veneziano, p. 65.

[19]Muschio, s.m. Muschio, materia odorifera, ch’è l’escremento della Capra Gazzella che lo produce in certo tempo intorno al bellico  come in uno apostema. Di questo liquore si servono i Profumieri nelle loro composizion odorifere.. Boerio G., Dizionario del Dialetto Veneziano, p. 369.


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