testimonianza di Agnes P. Mueller
raccolta da Marie Lange
traduzione dal tedesco di Andrea Pardo
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 42 | autunno 2020
Agnes P. Mueller, 66 anni, originaria di Duisburg, oggi residente a Bochum (Renania Settentrionale-Vestfalia), racconta la sua esperienza di premorte.
Sono trascorsi trent’anni, un tempo ragionevolmente lungo, ma l’esperienza che ho vissuto non ha perso una virgola della sua nitidezza. La memoria non ha sottratto e non ha sovrapposto nulla. Sarà un racconto fedele il mio. Avevo trentasei anni, lavoravo come interprete e conducevo una vita assolutamente tranquilla. Forse troppo tranquilla. Un bilocale, uno stipendio adeguato, un piacevole gruppetto di amici e, all’occasione, relazioni sentimentali di media durata (in quel periodo flirtavo con un italiano che, nel momento del bisogno, si è letteralmente volatilizzato). Palestra nelle pause pranzo il martedì e il giovedì. Cineforum con mia sorella tutti i mercoledì sera. Pranzo da mia madre a domeniche alternate. Il lunedì spesa e commissioni varie. Aperitivo rigorosamente di venerdì. Chissà, forse avevo letto da qualche parte che darsi dei ritmi serrati aiuta a vivere meglio e a dormire con regolarità. Il vero appuntamento fisso era però quello del sabato sera nei pub, ovvero vino rosso e tante risate. Una routine che, tutto sommato, a quel tempo trovavo appagante. Ma si sa, tanto più incasellata è la quotidianità tanto più il cosiddetto effetto sorpresa trova terreno fertile per irradiare la sua azione scompaginante.
Fui colta davvero all’improvviso. Non ebbi il tempo di reagire. Prima il calo di pressione, poi la perdita dell’equilibrio e infine il mancamento vero e proprio. La caduta. La testa che andò a sbattere non so dove, forse sulla spalliera di una sedia, sullo spigolo di un tavolo o direttamente sul marmo del pavimento. Certi particolari sei in grado di riferirli solo perché te li hanno raccontati. La vera fortuna, in quei momenti lì, è la presenza fortuita di qualcun altro, un testimone, qualcuno in grado di soccorrerti e di dare l’allarme. Fossi stata a casa da sola non sarei qui a raccontare la mia storia. A spedirmi dritta nel coma non fu lo svenimento, ma il brutto colpo che presi alla tempia destra. Cosa può fare un semplice calo di zuccheri! Siamo in pericolo sempre, in ogni singolo istante della nostra vita, ma questo lo realizzi solo se ci sei passato. E io ci sono passata.
Dovrei ora tentare di descrivere quella strana e misteriosa combinazione di tempo-luogo-senso che ha costituito il cuore profondo della mia esperienza nde. Tra il giorno del ricovero e quello del risveglio è intercorsa una settimana esatta. Così mi è stato detto e così testimoniano nero su bianco le cartelle cliniche. Quel frangente però io l’ho esperito molto diversamente, al di là della sua effettiva gittata temporale. Ricordo tutto con grande precisione. Ogni singola immagine del lungo piano sequenza. Premetto che di fantasia ne ho sempre avuta poca, quindi non c’è pericolo che ci abbia ricamato sopra.(…) Innanzitutto ricordo la mia piena consapevolezza: ero io, Agnes, ero in un luogo e in un tempo. Occupavo uno spazio concreto che potevo percepire con tutti i miei sensi. Sebbene fosse buio, io vedevo. Sebbene regnasse il silenzio, io sentivo. Sebbene non muovessi un passo, io procedevo, andavo avanti. Né stupore, né smarrimento. Mi sospingeva un vento lieve, carezzevole, più simile a un tepore che a un vento. Mi invitava ad andare avanti e io mi lasciavo accompagnare. Non mi ponevo domande. Stavo bene. Se nel letto d’ospedale il mio corpo intubato stazionava sospeso tra la vita e la morte, il mio io affrancato invece passeggiava leggero in quell’altrove parallelo. Sapevo di quell’altra me, di quell’altra Agnes che se ne stava distesa a sonnecchiare, ma non me ne curavo.
Quando dico che la consapevolezza non mi ha mai abbandonata, intendo questo. Nessun dolore per quella scissione. Mi appariva perfettamente normale quell’essermi dovuta separare. E non mi sono mai sentita così intera, così integra, così complementare a me stessa. Godersi la propria pienezza senza avvertirne il peso: c’è forse un privilegio più grande? Il mio pensiero fluiva ampio e sereno, sganciato dal passato, dalle preoccupazioni, dai ricordi, dai piccoli traumi, un pensiero spensierato (mi si perdoni il conflitto di parole) ma al tempo stesso onnisciente. In quel tempo-luogo-senso non contava più nulla perché contava tutto, e verso quel tutto io mi andavo gradualmente avvicinando. Più procedevo e più il benessere montava, s’accresceva. Ciò che mi lasciavo dietro s’andava sempre più sfumando. E, in fondo, cos’è che mi lasciavo dietro? Una vita trascurabile o poco più. Infinitamente più allettante si prefigurava quell’altra destinazione, quel punto d’arrivo che si celava oltre il buio. Erano considerazioni che facevo, ricordo di averle fatte, ma non ci fu in me la ben che minima esitazione. (…)
Quando cominciai a scorgere una piccolissima luce in fondo al buio, flebile e lontanissima, ricordo che fui attraversata da una specie di turbamento. Non durò che un istante, perché subito dopo a prevalere fu un violento connubio di gioia e curiosità (no, curiosità non è il termine esatto, dovrei sostituirlo con voglia). Sì, gioia e voglia tenute strette da un abbraccio di pace. Questo carburante mi spinse ad accelerare, a lasciarmi dietro più buio possibile. Ora non era più quel vento-tepore a sospingermi perché ero io, con il mio corpo fisico, a muovermi in direzione della luce. Provavo un certo sforzo, ma quella lucina mi premiava facendosi sempre un tantino più grande. Un puntino, poi un piccolo sole. Se da un lato avvertivo montare la fatica, dall’altro a travolgermi era la gioia, la voglia, la pace, un compenso spropositato se paragonato ai miei sforzi. Così mi ritrovai a correre, decisa a schiantarmi in quel nocciolo luminoso. Accorciavo la distanza, incurante del respiro affannato e delle gambe affaticate, sicura che quella luce da un momento all’altro mi avrebbe accolta e inghiottita. Più caparbia di quegli insetti notturni che si suicidano sulle luci elettriche, non desideravo altro che consegnarmi tutta a quella fonte d’oro. Bagnarmi, fondermi, polverizzarmi. Ero guidata da una consapevolezza cieca, dal più atavico automatismo dell’istinto: ero la curva che chiude il cerchio, la tessera che completa il mosaico. Tanto forte era il richiamo di quella luce che quasi sragionavo, ne ero completamente sedotta e soggiogata. Quando poi, stremata, mi ritrovai dinanzi a tutta la sua maestosa incandescenza provai… Ecco, qui le parole si inceppano, cercano maldestramente di accoppiarsi ma falliscono. Tutta la nitidezza si opacizza.
Cosa provai? Descrivere oltre non mi è possibile. Potrei farlo ma banalizzerei. Un benessere così totalizzante non può che ammutolire. Lascio quindi tutto all’immaginazione di chi sta leggendo questa mia testimonianza. (…) Non so se fu per una forma di disarmata riverenza che, giunta alla soglia della luce, quasi indietreggiai. La fluttuante parete luminosa si frapponeva tra me e quel che stava oltre. Cercai di sbirciare attraverso quell’indorata trasparenza, sopraffatta dalla gioia, dalla voglia e dalla pace. Intravedevo, cercando di farmi largo tra le vampate di luce, ma faticavo a mettere a fuoco. Fremevo, ansimavo. Ero un insetto impazzito. Una falena con le ali già mezze bruciate. L’immagine che più di ogni altra mi è rimasta impressa è quella delle mie mani che premono sullo schermo di luce. Mani d’oro su uno schermo d’oro. Io faccio pressione, spingo. Le mani affondano e riemergono in un giocoforza che ora mi attrae ora mi respinge. “Posso entrare?” Stando a quanto mi hanno raccontato i medici, queste sono state le prime parole che ho detto riaprendo gli occhi. “Posso entrare?” Con ogni evidenza, non sono entrata. E va da sé che, se fossi davvero entrata, se avessi penetrato lo schermo, questa storia non l’avrei mai potuta raccontare. Tutte le testimonianze di premorte, la mia non fa eccezione, hanno questo in comune: si fermano sul più bello, rimbalzano sulla luce.
Il risveglio sul letto d’ospedale mi ha reincarnata in un corpo dolorante, rigettandomi addosso tutto il peso dell’esistenza. Mentre gli altri gioivano e applaudivano, io ero tutta un fascio di nervi. Delusa. Arrabbiata. Strappata a quella gioia, a quella voglia, a quella pace, di cosa mi sarei dovuta felicitare? Ho taciuto per lungo tempo prima di confidarmi con qualcuno. Lo sconcerto è durato anni e mi ha impedito di aprirmi. L’elaborazione, estremamente sofferta, ha richiesto diversi setacci. Piano piano, passaggio dopo passaggio, ho capito che dovevo liberarmi, buttare fuori, trovare degli interlocutori. Ho rotto il ghiaccio con mia sorella, che tuttora ringrazio perché in quell’occasione ha saputo ascoltarmi senza giudicarmi. Per me ha significato molto. Attraverso internet, soprattutto in questi ultimi anni, sono entrata in contatto con molte persone che hanno vissuto esperienze nde molto simili alla mia, persone di ogni angolo del mondo, giovanissime o molto in là con gli anni.
Poter finalmente condividere quanto ho vissuto senza sentirmi necessariamente un’aliena mi ha dato molto conforto. Parlare con chi è ben disposto a comprendere ti alleggerisce davvero l’anima. Nella vita di tutti i giorni però, si sa, il dialogo langue. Il più delle volte trovo più gratificante tacere. Nella stragrande maggioranza dei casi la gente ti dispensa solo giudizi sbrigativi, pareri improvvisati o tutt’al più una cordiale indifferenza.(…) Non è facile portarsi dietro un bagaglio così. Sono esperienze che ti cambiano completamente rimodellando il tuo approccio con la vita di tutti i giorni. Inutile dire che la mia vita, all’indomani di questo evento, è mutata radicalmente. Ho intrapreso un mio percorso spirituale, un percorso molto difficile. Domande. Tante domande. Quando ho smesso di cercare a tutti i costi delle risposte, solo allora ho ritrovato un po’ di serenità. Tutte le sere, quando chiudo gli occhi, rivedo le mie mani sullo schermo di luce e affido i miei sogni a quella pace profonda. Non mi spingo oltre perché so di non potermi spingere oltre. Resto dove sono, ben salda sui miei piedi, fiduciosa e paziente. Sarò ben lieta di ripercorrere quel sentiero quando giungerà la mia ora, spero però il più tardi possibile perché a questa vita, tutto sommato, mi ci sono un tantino affezionata. Custodisco gelosamente il privilegio che mi è stato concesso, ma al tempo stesso lo condivido perché è giusto così.
Agnes P. Mueller
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 42 | autunno 2020
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