di Agata Keran
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 42 | autunno 2020
Incisore, scultore, pittore: tre specialità che segnano e scandiscono la ricerca espressiva di un artista pensatore, per molti aspetti controcorrente. Dal bulino allo scalpello, per dedicarsi negli ultimi tempi e quasi per sfida, anche alla lievità finora inesplorata del pennello e alle sue inattese alchimie cromatiche.
Un percorso sfaccettato e, al contempo, coerente e organico, senza cesure o ripensamenti. In ogni epifania del suo multiforme estro, Maurizio D’Agostini continua pertanto a scolpire alacremente il segno, a donare un respiro volumetrico alla materia trattata. Balza alla mente dai cassetti della memoria l’espressione “scolpire il tempo”, coniata dal regista Andrej Tarkovskij, i cui temi cinematografici presentano molte affinità e tangenze con il fecondo immaginario dell’artista veneto.
Una forma mentis figurativa, sollecitata sovente da immagini filmiche, teatrali e musicali, in cui trovano casa miti e presenze allegoriche legate a un tempo fuori dalla storia, al di là del presente caotico che ci circonda e mette a soqquadro l’equilibrio psichico dell’individuo. L’arte di Maurizio è una forma di bilancia visiva ed emozionale tra l’antico quasi ancestrale e la tensione continua verso nuovi orizzonti, da scavare ancora con attrezzi esplorativi dell’homo faber. Egli appartiene alla genia dei classici controcorrente: le sue immagini di Venere non assomigliano per nulla a quella di Milo o della sua discendente spirituale dipinta da Botticelli, ma riportano lo sguardo verso l’archetipo primordiale della Grande Madre, tentando di forgiare un ologramma di carattere più aperto e universale, in cui la tradizione formale del mondo occidentale incontra in modo curioso e sincero le memorie sacre d’Oriente, sulla scia illuminante di Mircea Eliade e Constantin Brancusi.
Non a caso, anche per la produzione plastica di D’Agostini – seppur stilisticamente lontana dal linguaggio più essenziale e primitivista dello scultore romeno – calzano a perfezione le parole del grande studioso dei miti dedicate a Brancusi: “[Egli] ha riscoperto la visione straordinaria di un uomo per il quale la pietra esiste, la roccia esiste, in un modo, diciamo, “ierofanico”. Ha ritrovato dall’interno, l’universo di valori dell’uomo arcaico. […] Io sono sempre stato affascinato da questo problema: come ritrovare l’unità fondamentale, se non del genere umano, almeno di una certa civiltà indivisa nel passato dell’Europa?” (in M. Eliade, La prova del labirinto, Milano1990, p. 58).
La ricerca spirituale che D’Agostini continua ad affinare nel corso del tempo ha una particolare vena geoculturale che nulla toglie alla sua vocazione globale: il suo temperamento espressivo tocca le corde profonde del paesaggio veneto, di cui egli si mostra cantore e genius loci. I colori gentili della terra nobile di Andrea Palladio, Giangiorgio Trissino e Antonio Pigafetta e la materia morbida e plasmabile dei colli berici ed euganei, costellati di numerosi gioielli architettonici, rimangono nella filigrana di ogni sua creazione. Misura, estro e armonia: il mito delle origini prende corpo nuovamente, rigenerandosi appieno, e diventa poesia figurata di un presente eterno e assieme intimo. Sogno ad occhi aperti di curare un allestimento di queste opere simbolicamente eloquenti nel loro habitat naturale, ossia all’interno di una delle ville antiche dove gli ambienti interni ed esterni, a partire dal cornicione o dal giardino, riverbera noi medesimi temi e quesiti della classicità, restituiti allo sguardo contemporaneo in seguito a una riscrittura sostanziale del loro messaggio ultimo.
Uno degli apici qualitativi di questo processo di restituzione originale della tradizione mitologica è il ciclo scultoreo di sette Pianeti, realizzati in terracotta dipinta (semirè) tra il 2002 e il 2009 in seguito a un’importante sollecitazione musicale legata all’omonima suite per grande orchestra di Gustav Theodor Holst, di intensa ispirazione teosofica, scritta tra il 1914 e il 1916.
Racconta lo stesso autore: “Mi appassionai alla suite musicale de I sette pianeti di Gustav Holst a casa di amici, i coniugi Borgato. […] Ero inebriato da quelle musiche. Il mio scopo consisteva nel materializzare quei suoni secondo le mie visioni, riuscire a creare delle sculture che fossero in grado di rappresentare le musiche che ascoltavo. Fu un’impresa di cui vado molto fiero, una ricerca e una sperimentazione che mi ha portato molto lontano, nel mondo esaltante del mistero e dell’inconscio. E così nacquero in ordine temporale Giove, Saturno, Marte, Venere, Nettuno, Mercurio e Urano.” (in I pianeti di Maurizio D’Agostini, s.l. 2016, p. 11).
Dopo una lunga meditazione sull’argomento, ogni movimento sonoro di Holst acquisisce un equivalente plastico attraverso il gesto creativo dell’artista veneto: Mars, the Bringer of War; Venus, the Bringer of Peace; Mercury, the Winged Messenger; Jupiter, the Bringer of Jollity; Saturn, the Bringer of Old Age; Uranus, the Magician; Neptune, the Mystic. Il prezioso bagaglio sapienziale del mito, che ha incantato gli umanisti del passato, incontra in quest’occasione la sensibilità del “secolo breve”, lacerato da aspri conflitti e radicali trasformazioni, per salutare con grande energia espressiva l’alba del nuovo millennio, rendendo viva la promessa della sopravvivenza degli antichi dei oltre la soglia dell’era digitale.
La dimensione storica e antropologica del mito lascia spazio alla visione personale e soggettiva dell’artista demiurgo che risemantizza liberamente un racconto radicato tra i meandri nell’immaginario collettivo. “Le sculture dei sette pianeti sono in realtà la rappresentazione visiva delle mie molteplici personalità. Le mie opere nascono dallo scatenamento dell’immaginazione, che si trasforma in materia, e dall’assoluta libertà di espressione”, commenta lo stesso autore riconoscendo in quest’opera un’autentica summa della propria ricerca.
Composta da sette elementi distinti, essa è concepita come un corpus organico in quanto rappresenta una costellazione ideale, in cui manca emblematicamente la terra. Viene acquistata nel 2013 dal Gruppo Veneto Banca, ma dopo il fallimento recente dell’istituto mancano ancora le notizie sulle sue sorti e si teme pertanto la disgregazione dell’unità compositiva.
Un altro tema cruciale che concentra ormai da anni l’attenzione e le energie creative dell’autore è melancholia, uno dei quattro temperamenti o umori in cui la cultura greca suddivide l’intera umanità. Questo stato d’animo persistente, detto anche “saturnino”, nell’epoca umanistica diventa simbolo della vita intellettuale, basata sull’introspezione e sulla riflessività. Nel caso di eccesso, tali qualità interiori portano all’inquietudine, alla malinconia e, in alcuni casi, anche alla depressione. Per questo temperamento, il punto di forza coincide con quello di debolezza, ossia la straordinaria sensibilità nei confronti del mondo reale e immaginario, che contrassegna la perenne curiosità del viaggiatore, del poeta, dell’artista. Il “melancholico” non si ferma mai di fronte a un limite prestabilito, ma rimane continuamente in tensione, nello sforzo di bucare il muro per aprire una nuova e inesplorata soglia. Il suo sguardo vorrebbe decollare con ali leggere verso l’infinito, mentre la testa rimane sempre china per il peso esuberante dei pensieri: è questa l’immagine che la tradizione iconografica dell’età moderna contempla come ritratto di chi è segnato da bile nera.
Volendo dare una chiave autobiografica anche a questo tema, emerge chiaro il profilo di un pensatore fecondo e inquieto che “scolpisce il tempo”, creando di volta in volta un volume fisico ed etereo che sfocia nella quarta dimensione, tanto bramata da artisti di ogni tempo. “L’anima, lo stupore, la pietà, nella rotazione e nella sfera della vita. Quando i pensieri si incrociano, con il sottile segno della spiritualità è la saggezza, quella sacrale che costituisce le forme di D’Agostini.”, rammenta in un omaggio assai ispirato la psicologa e scrittrice Vera Slepoj (in Maurizio D’Agostini, a cura di D. Gecchele, Vicenza 2005, p. 44).
Ben quattro opere, nate a partire dal 2011, ricordano già nel titolo questo concetto antico. In questa sede presentiamo l’immagine dell’ultima variante ancora inedita, realizzata quest’anno. Un titolo che rimembra in modo quasi spontaneo le incisioni cinquecentesche di Albrecht Dürer o i ritratti di Giorgione, ma che D’Agostini sviluppa grazie alla visione dell’omonimo film del danese Lars von Trier, presentato nel 2011. Il termine originario viene radicalmente riplasmato: Melancholia diventa il nome di un corpo celeste che entra in collisione con il nostro pianeta e, al contempo, allude al turbamento psichico della protagonista del racconto cinematografico, in preda a una forte depressione. Metafora della fragilità umana e del suo superamento, per il nostro artista, questa narrazione costituisce il punto di partenza per uno scavo interiore negli abissi delle “molteplici personalità” dell’individuo, soprattutto di quella saturnina, estremamente suscettibile a fremiti e incline a improvvise trasformazioni.

Credo tuttavia che il senso più profondo della riflessione sulla melancholia segni il suo opus in modo davvero diametrale e che questo filo rosso compenetri molte delle sue creazioni. Sembra infatti che D’Agostini sia solito porsi in dialogo con forze primigenie del creato: luce e buio, amore e morte, ordine e caos, armonia e dissonanza, musica e rumore. E in questa incessante e difficile psicomachia, che distingue ed eleva ogni esito del suo processo creativo, la necessità interiore di trovare nuove forme di equilibrio continua a imporsi con vigore sull’energia tragica della disgregazione.
Anche in questo periodo faticoso di pandemia, D’Agostini continua ad arricchire il proprio catalogo con nuove opere, realizzate nell’atelier di Costozza di Longare, uno dei luoghi più suggestivi della provincia vicentina, in attesa di un importante evento espositivo che lo vedrà protagonista il prossimo anno, nella città francese di Annecy.
“La Francia è la mia seconda patria dove ho vissuto, lavorato e viaggiato per anni. Grandi amicizie, grandi amori e importanti collezionisti. Numerose opere ho prodotto in Francia; la mia prima esposizione risale al 1984, alla Galerie Bagnorea di Annecy, la città gemellata con Vicenza, e sempre ad Annecy, nella primavera del 2021, sono stato invitato dall’assessorato alla cultura a realizzare una importante retrospettiva, dove esporrò opere di incisione, scultura e pittura.”
Un grande riconoscimento dunque alla carriera artistica di respiro europeo nell’amata terra d’adozione, verso cui D’Agostini prova un intenso sentimento di affinità culturale, tanto da mettere in dubbio inizialmente la mia considerazione riguardo al rapporto sostanziale della sua arte con il paesaggio delle origini. Eppure, sono sempre più convinta che il suo idioma classicista, innestato nel suolo fecondo del lascito rinascimentale italiano, per molti aspetti “glocal” (con la vocazione al contempo globale e locale), sia il vero segreto della sua – quasi neoplatonica-universalità. Ma quale genere di globalità? Per rispondere, vengono in soccorso le parole del poeta e artista Fiorenzo M. Gobbo: “Passano dal mio cuore tutte | le direttrici dell’universo. | Piccolo e grande mondo | io sono.” (in Fiorenzo M. Gobbo, a cura di F. Solmi, Zola Predosa 1981, p. 36).
Insomma, contemplando la forma silente della materia lavorata dalle mani dell’artista, che racchiude in sé il “piccolo e grande mondo”, lo sguardo coglie un’eco di memorie d’arte, di letture e di musiche risalenti al Cinquecento veneto. E, d’improvviso, la fisicità apparentemente muta dell’opera diviene una polifonia sontuosa di voci che uniscono senza soluzione di continuità il passato all’avvenire.
Agata Keran
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 42 | autunno 2020
Copyright 2020 © Amedit – Tutti i diritti riservati