SENTIRSI A CASA DA QUALCHE PARTE | Il decoro | il nuovo romanzo di David Leavitt

di Massimiliano Sardina

Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 42 | autunno 2020

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«Alcune cose contano più dell’arredamento»

Con Shelter in Place (Il decoro, Sem, 2020), David Leavitt torna a fare le pulci a certa vacua upper middle class americana, quella che il sociologo Max Weber ha efficacemente stigmatizzato individuando tre principali indicatori predominanti: reddito, istruzione e occupazione. Tradotto: “professionisti ben educati con gradi di laurea e redditi comodi”. Un ceto a sé, elegantemente sospeso tra la gente comune e le altissime sfere. Ricchissimi sì, ma non troppo. Soddisfatti, ma al contempo inappagati. Apparentemente sazi e pacificati, ma sotto sotto sempre tormentati da inquietudini e capricciosi appetiti.

Inverno 2016. Nell’immediata era post-Obama certe frange della succitata classe media superiore si ritrovano a sperimentare, forse per la prima volta, un certo non so che di vagamente destabilizzante. Una paura su tutte: il drastico cambiamento politico, qualora dovesse verificarsi, andrà ad intaccare i privilegi consolidati? Cosa accadrà di preciso? Il venticello dell’insicurezza si insinua nelle residenze esclusive e fa vibrare impercettibilmente raffinati tendaggi e preziose suppellettili. Ne Il decoro un ristretto drappello di privilegiati dell’alta borghesia intellettuale liberale newyorkese conversa amabilmente nella veranda di una lussuosa casa di campagna nel Connecticut. I proprietari, una coppia di mezza età, sono Eva Kalmann (figlia di ebrei polacchi, nata e cresciuta a New York) e suo marito Bruce Lindquist (figlio di luterani del Wisconsin), consulente patrimoniale. Niente figli, ma tre vivaci terrier Bedlington, battezzati con i nomi dei personaggi di Henry James: Caspar, Isabel e Ralph. Oggetto della conversazione sono le potenziali conseguenze dell’elezione di Donald Trump come nuovo presidente. I dialoghi partono con una provocazione di Eva, la padrona di casa: «Vi andrebbe di chiedere a Siri come assassinare Trump?» A turno prendono la parola gli editori Aaron e Rachel Weisenstein, la giornalista Min Marable, l’arredatore d’interni Jake Lovett, il coreografo Grady Keohane (vicino di casa dei Lindquist, con la sua ospite Sandra Bleek) e lo chef a domicilio Matt Pierce.

Tra proiezioni ottimistiche, affermazioni diplomatiche, visioni apocalittiche e battute ironiche la conversazione degenera presto nei più raffinati luoghi comuni. Il fascismo capitalista del regime di Trump segnerà il tramonto definitivo della democrazia o certi valori – gli equilibri consolidati, la sicurezza, la libertà – si manterranno inattaccabili? Eva non ha dubbi e lo dichiara apertamente: Trump è il diavolo, e dal diavolo è bene tenersi quanto più alla larga. Ha deciso di «ignorare l’insediamento», di sottrarsi ai vergognosi festeggiamenti – specie quelli di Alec Warriner, il suo vicino di casa repubblicano – e di fuggire il più lontano possibile, via dalla casa di campagna in Connecticut e via dall’appartamento newyorkese su Park Avenue, via dagli Stati Uniti. Detestare Trump non fa necessariamente di Eva una bella persona. Eva è a tutti gli effetti una donna mediocre e ordinaria, incolore e insapore, una signora che ha bisogno di un arredatore per ostentare pubblicamente e a se stessa un buon gusto (un senso del decoro), una controfigura che per qualche oscura ragione si ritrova a vestire i panni di una protagonista, affascinante e carismatica quanto può esserlo una sfinge senza segreti. Ha un marito più succube che devoto, e una migliore amica (Min Marable) più opportunista che autenticamente fedele. Eppure, sebbene non brilli di qualità particolari e né faccia nulla per apparire diversa da quello che è, Eva riesce inspiegabilmente a intrigare e a catalizzare tutta l’attenzione su di sé. Sono gli stessi habitué dei suoi salotti a domandarselo senza saper rispondere: «…Cos’ha di speciale Eva? Perché parliamo sempre di lei?»

Decisa a fuggire dal suo diavolo, alla stregua di un’ebrea degli anni ’40 perseguitata dai nazisti, Eva decide di rifugiarsi a Venezia. All’occorrenza, giura, si fingerà francese pur di tener nascoste le sue scomode origini statunitensi. Si illude che l’antica città lagunare, scrigno di preziosi ricordi giovanili, potrà offrirle il rifugio ideale, un guscio protettivo, uno scudo antiamericano. Venezia, luogo fragile ed eterno che sfida le leggi della fisica, le appare come l’unica soluzione possibile. Quella stessa Venezia che, le farà notare il marito Bruce «era una roccaforte fascista sotto Mussolini (…) Nel ’43 la città consegnò di buon grado i suoi ebrei ai tedeschi.» In difesa di Eva interviene prontamente la fedele ancella Min Marable: «Non capisci quello che Eva sta dicendo (…) A Venezia sei immerso nel passato, perciò il presente si allontana. Ora, non sto dicendo che la storia di Venezia non sia spietata: in gran parte è orribile, eppure quando sei in un luogo così antico, non senti così tanto l’attrazione dell’immediato o la senti in un altro modo, forse perché vivi il passato, anche il passato violento, come fosse arte, e questo ti dà una prospettiva più chiara.» Ferma nella sua decisione, intimamente incapace di contemplare l’eventualità d’essere contraddetta, Eva rincara la sua determinazione: «Avere del denaro non ha salvato nessuno dalle camere a gas. I soli che riuscirono a fuggire furono quelli che capirono i segnali.» Quale segnale poteva mai essere più eloquente di quello dell’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti? Certo Trump non l’avrebbe perseguitata in quanto figlia di ebrei polacchi, ma attraverso altre vie sì, quindi meglio abbandonare il ghetto prima che muri altissimi rendano impraticabile la fuga. Così, nel giro di pochi giorni, col tacito consenso del marito, Eva acquista una vecchia casa sul Canal Grande e chiede al suo arredatore Jake di ristrutturarla e arredarla. Pregustando la riformulazione della sua vita nel Vecchio Mondo, lontana anni luce dalla minaccia dittatoriale incarnata da «Tr… l’innominabile» Eva prova a sentirsi a casa da qualche parte. Come tutti i personaggi de Il decoro anche lei cerca casa, ovvero qualcosa che plachi la sua paura del nuovo. Una bella scatola in cui andarsi a chiudere. Un bunker. Un’isola. Un’altra vita.

Incapsulati in dimore di prestigio i protagonisti del romanzo conducono esistenze tanto patinate quanto disadorne. Sebbene siano consapevoli che «Alcune cose contano più dell’arredamento» (sono parole di Eva), nessuno di loro fa nulla di concreto per mettere ordine e stabilire armonia. Tutti si ritrovano a condurre esistenze meramente decorative, accessorie, intercambiabili. Se del buono c’è, giace sepolto sotto l’effimero degli allestimenti. Non c’è raffinatezza, ci fa intendere Leavitt, che possa mascherare efficacemente e a lungo termine quel profondo senso d’insicurezza (il bisogno ossessivo di apparire diversi o migliori di quello che si è, per convincersi di star vivendo pienamente la propria vita). Il mutato clima politico destabilizza equilibri già di per sé precari. Il timore di perdere privilegi mette a dura prova anche i temperamenti più risoluti. Eva reagisce drasticamente e platealmente, decontestualizzandosi, catapultandosi nel primo altrove che le passa per la testa, ma anche gli altri, ciascuno a proprio modo, vivono il conflitto. Nella narrazione, che (in perfetto stile Leavitt) procede perlopiù per dialoghi sagaci e incalzanti, personaggi e ambienti si compenetrano vicendevolmente: tutto attende una ridefinizione, tutto è attraversato da una sorta di presaga temporaneità. Tutto, le vite disordinate dei singoli personaggi come gli ambienti esclusivi che le ospitano, sembra attendere un riassetto, una mano di vernice, un cambio di destinazione d’uso, una demolizione.

La casa (o il suo arredamento) assurge a spazio vuoto emozionale. Ed è questo vuoto che l’arredatore Jake, sapientemente, ogni volta rielabora per i suoi clienti, Eva in primis. «Per Jake, l’evasività è un aspetto della discrezione che, a sua volta, è un aspetto del gusto.» A differenza di molti suoi colleghi, sempre a caccia di copertine sulle riviste patinate del settore, Jake non si considera un artista ma un semplice buon esecutore. La sua esistenza (apparentemente solida ma profondamente ammaccata) paga il prezzo di un trauma amoroso vissuto da giovane, e proprio a Venezia, la città dove ora la sua cliente lo vuole riportare. Simpatizziamo per lui perché è l’unica voce fuori dal coro, o meglio, fuori dal decoro. Appare sincero e indifeso quando afferma con trasognato minimalismo: «…Il fatto è che non capisco i rapporti umani. Capisco soltanto le stanze, e anche con quelle, ogni giorno sono meno sicuro.» O ancora: «…Capisco la decorazione d’interni (…) Tende, tessuti, colori li capisco. Quello che non capisco è ciò che la gente intende quando parla di casa. Non sono sicuro di averlo mai capito.»

Sentirsi a casa da qualche parte… La sensazione di tornare a casa… «Chez moi is where the heart is»… Un’abitazione è un oggetto fisico, oppure una casa è solo un concetto? Casa è dove si dorme meglio, dove ci si sente protetti, dove ci si sente al sicuro? Casa è ciò che più ci rassomiglia, ciò che più ci rappresenta? Oppure, più semplicemente, casa è dove si è nati e cresciuti? Nessuno dei personaggi riesce a rispondere con esaustiva convinzione. La verità è che nessuno si sente veramente a casa, una casa che, per esteso, si allarga all’intera società, alle relazioni personali e professionali. Per certe frange della upper middle class forse casa è solo un costosissimo acquario di vetro appannato e infrangibile, un asettico non-luogo appositamente temprato per custodire, a oltranza, privilegi e diritti consolidati. Leavitt, lucido investigatore della contemporaneità, ci invita ad osservare da vicino le piccole crepe e le impercettibili incrinature. Ogni singolo personaggio, a dispetto del vantaggio economico-sociale di cui gode, vive da semplice comparsa la vita che vorrebbe vivere da protagonista. Figure incompiute, agite da un’ingiustificata paura, distanti tra loro e da loro stesse, più preoccupate della superficie che della sostanza delle cose. Difficile provare empatia verso i Lindquist (la volubile Eva e l’accondiscendente Bruce), verso la calcolatrice Min Marable, lo sconnesso Jake Lovett o il cinico Aaron Weisenstein; forse l’unico personaggio a trasudare vera umanità è quello di Kathy, la segretaria di Bruce, disarmata dalle cure chemioterapiche.

Ne Il decoro la commedia sfuma nel dramma e il dramma nella commedia. Privilegiati senza fissa dimora cercano invano un riparo da intemperie tutte interiori. Lo spiritual afroamericano Hard Trials posto in calce al romanzo introduce fin troppo esaustivamente la solitudine e lo smarrimento patiti dagli indecorosi non-protagonisti: «Oh le volpi, hanno le loro tane nel terreno e gli uccelli hanno nidi nell’aria, e ogni cosa ha un luogo ove nascondersi, ma noi poveri peccatori non possiamo rifugiarci in nessun posto.»

Massimiliano Sardina


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