di Giuseppe Maggiore
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 42 | autunno 2020
Che ne è stato di quel bambino che muoveva i suoi primi passi in un mondo dove il reale e l’immaginario, l’animato e l’inanimato si confondevano; dove bambole, robot, guerrieri, draghi, dinosauri, elettrodomestici prendevano vita e lui stesso riusciva a essere indistintamente tutte queste cose e molte altre ancora? Che ne è stato di quella sua capacità di creare realtà ed eventi fittizi in grado di sfidare i confini dell’ordinario, ricombinandolo, reinventandolo, trasgredendolo? Il suo era ancora un mondo dove tutto poteva accadere, plasmato dalla sua fantasia e dalla sua capacità intellettiva, da quella naturale fluidità dell’essere infinite cose e infiniti modi; un mondo aperto alla sorpresa e all’imprevedibilità, alla propria e altrui unicità, alla possibilità di vivere esperienze e vite diverse. Era ancora il suo mondo. E suo era anche il corpo che intanto si andava trasformando, così i primi eccitamenti e le prime pulsazioni amorose. Per chi erano? Verso dove si dirigevano? Quale nome avevano?
Non sapeva, l’ignaro bambino, che qualcuno gli avrebbe presto sottratto quel suo mondo, e con esso anche la sua anima e il suo corpo. Tutto era già stato deciso prima ancora che nascesse, con quel fiocchetto azzurro posto alla sua culla (rosa per la sorellina), e con tutto ciò che seguì a ruota: i giocattoli, i vestitini, l’educazione, l’induzione a desiderare determinate cose piuttosto che altre, ad avere certi interessi piuttosto che altri, a impugnare fallici fucili piuttosto che glitterate bacchette magiche, a muoversi, parlare e agire in un modo piuttosto che in un altro. È così che mamma e papà prima, la scuola e tutto il resto poi, hanno assolto al loro obbligo sociale di farne un “uomo”, esattamente come hanno fatto della sua sorellina una “donna”. È nell’ordine contro-naturale delle cose che vada così: cos’è la società se non un superorganismo che sfida le aberranti e perverse leggi della natura? La dolce fatina che trasforma Pinocchio in un bambino in carne e ossa, dopo averlo per bene ammaestrato a essere docile, ubbidiente e ligio ai doveri: ora sì, che ne ha fatto un perfetto burattino che si presta al giogo sociale! E le tante cenerentole che attendono il loro principe azzurro, solo per tornare a fare ciò che già facevano: le cenerentole. Pinocchio e Cenerentola vivranno come da copione, ciascuno con le proprie castrazioni, le proprie mutilazioni, le proprie convenzioni e costrizioni sociali, in una messinscena che li manterrà per sempre divisi, seppur uniti, compagni di letto e di sventura. Archetipi di una natura addomesticata e di destini già tracciati ci ingannano entrambi con la falsa morale della loro favola. Una morale che va riletta al contrario, esattamente come va ribaltata l’idea stessa di una Natura esemplata su un sistema di valori che di fatto la smentisce, prende da essa le distanze, rigettando ogni sua più genuina e innocente manifestazione nei territori del perverso e dell’aberrante.
La natura è queer, e noi tutti siamo nati queer! Ma la buona fata turchina, sotto le cui mentite spoglie agisce la società, ci ha trasformati tutti in Organismi Geneticamente Modificati, ci ha catalogati, etichettati: nei sentimenti, nei gusti, nel vestire, nell’agire, nel vivere la relazione con noi stessi e con gli altri. Erano queer anche i nostri miti fondativi, prima che le mortifere religioni istituzionalizzate se ne appropriassero – in tutt’uno con le nostre coscienze e con i nostri corpi – denaturando, desacralizzando, desessualizzando, rendendo perverso ciò che era puro e viceversa. Scissi in dualismi che ci divisero per sempre, tra maschio e femmina, tra puro e impuro, tra natura e contro-natura ci contrapponiamo e ci facciamo la guerra.
Occorre tornare a essere queer per tornare a essere noi stessi, tali e quali la Natura ci aveva creati; essere non il rosa o l’azzurro, ma ogni possibile sfumatura tra un colore e l’altro; tornare a vederci come persone, prima ancora che come sessi, generi o categorie. Occorre uccidere la fata turchina coi suoi principi e le sue principesse! Solo così potrà esserci un lieto fine alla favola nera.
Qualcuno c’era già arrivato tempo fa, in tempi in cui la rivoluzione sembrava davvero possibile. Ma il suo fu un sogno che finì soffocato dentro il forno di una cucina. Era il 12 marzo 1983. A Milano moriva suicida Mario Mieli. Era stato uno di quelli per i quali si sarebbe detto “visse in anticipo sui tempi”, un precursore di quella presa di coscienza che oggi porta appunto molti a riconoscersi queer, termine la cui connotazione dispregiativa è stata ribaltata, resa sinonimo di un abbraccio lessicale che tutti accoglie e comprende, nessuno esclude (omosessuali, eterosessuali, lesbiche, pansessuali, bisessuali, transessuali, intersessuali ecc.): l’abbattimento, almeno sul piano semantico e concettuale di ogni barriera, settarismo e categorizzazione costruiti intorno al polimorfo universo dei sessi e dei generi. Riconoscersi queer per sentirsi parte di un’unica comunità umana, pur nelle diverse modalità di esprimere la propria personalità, il proprio essere, i propri sentimenti e la propria sessualità. Riconoscersi queer nel senso che intendeva proprio Mario Mieli quando parlava di transessualità, ovvero quella polivalenza sessuale che ci è connaturata e che, se liberata dall’oppressione, dalla condanna, dal senso di colpa, ci renderebbe finalmente liberi di esplorare e sperimentare la vasta gamma di sensazioni, sentimenti e attrazioni che siamo in grado di provare, senza con ciò doverci definire una volta per tutte eterosessuali, omosessuali, lesbiche, bisessuali ecc., senza doverci più sentire da questa o quell’altra parte. Essere creature amorose in fluido divenire. E lui, creatura spettacolare ma non di spettacolo, coscienza politica senza alcun referente politico, seppe fare della sua vita un perenne atto performativo, dove anche il travestimento diventava atto di denuncia, espressione di una coraggiosa e prorompente virilità alternativa, presa di coscienza della propria irriducibile natura polimorfa e polisessuale, specchio deformante dei ruoli e delle false identità in cui la società ci imprigiona: «Io sono contento di essere una checca evidente, “femminile”: la sofferenza che ciò, in questa società, comporta è al tempo stesso la misura o, se si vuole, lo specchio della dura e insieme fragile e preziosa bellezza della mia vita. È un grande destino possedere e cercare di vivere con chiara coscienza un’esistenza che la massa regolare, nel suo idiota accecamento, disprezza e tenta di soffocare. […] Il nostro travestimento è condannato poiché getta in faccia a tutti la realtà funesta del generale travestitismo, che deve restare taciuto, tacitamente scontato.» (in Elementi di critica omosessuale, 1977).
Se oggi, quando il ricordo di Mario Mieli sembrava ormai morto e sepolto, rimosso come i suoi stessi libri e le sue eclatanti azioni, persino in quanti avrebbero dovuto prenderlo a modello; se oggi, l’uscita di un film che ne abbozza appena (e male) la vastità di pensiero e di azione politica, sociale, culturale diventa l’opportunità per farlo riemergere dalle nebbie dell’oblio e per riconsiderarne le idee, allora ciò fa ben sperare che non tutto è perduto, che ancora c’è o ci sarà spazio per muovere nuovi attacchi e nuovi affondi a quel marcio sistema patriarcale, maschilista, sessista, intrinsecamente violento e criminale, che ci ha divisi, perseguitati, discriminati, uccisi in quanto donne, in quanto gay, in quanto lesbiche, in quanto diversi e non conformi alla mostruosa e mortifera Norma. Bisogna porre fine al potere coercitivo che da millenni agisce sui nostri corpi, sulle nostre coscienze, sulle nostre identità e sui nostri sentimenti più veri. Perché ciò sia possibile serve una rivoluzione Queer che unisca laddove siamo stati divisi, riconciliandoci innanzitutto con la nostra primigenia natura androgina, riconnettendo e riarmonizzando il maschile e il femminile che è in ciascuno di noi. La riscoperta della nostra essenza queer costituirà la riconciliazione col nostro vero Sé. Sarà questa la soluzione che porrà fine a molti dei nostri conflitti individuali e relazionali, consentendo un reale incontro tra l’uomo e la donna, ponendo finalmente fine alla guerra tra i sessi, a ogni subordinazione o prevaricazione di sorta, a ogni forma di violenza e di repressione individuale, sociale e politica cui tutti – uomini e donne – siamo soggetti.
Le premesse e i termini di questa rivoluzione, necessariamente radicale, sono già stati teorizzati, scritti e in parte attuati dallo stesso Mario Mieli, durante la sua vita splendente e fugace come una meteora. Ciò avvenne nel clima effervescente degli anni ’70, quando anche in Italia si assistette a movimenti di apertura e di trasformazione sociale sul piano delle conquiste civili, che videro protagonisti i movimenti degli operai, delle donne e degli omosessuali, ovvero quelle categorie sociali maggiormente oppresse dal dominio capitalista-eterocentrico. La gaya critica di Mieli si scaglia con lungimirante lucidità tanto contro la cultura maschilista quanto contro il capitalismo che se ne serve e la sostiene (emblematico il suo incontro con gli operai di una fabbrica automobilistica, in cui si presenta abbigliato da donna per parlare di omosessualità e omofobia), perché gli fu chiara fin da subito la comune matrice dell’oppressione di sesso, di classe e di razza: «Nelle donne soggette al “potere” maschile, nei proletari soggetti allo sfruttamento capitalistico, nella soggezione degli omosessuali alla Norma e in quella dei neri al razzismo dei bianchi, si riconoscono i soggetti storici concreti in grado di ribaltare i piani odierni della dialettica sociale, sessuale e razziale, per il conseguimento del “regno della libertà”.» (op. cit.).
La lotta per la liberazione e la piena legittimazione dell’omoerotismo si intreccia con quella per l’emancipazione della donna, ancora di là dall’essere conclusa, ma diventa in definitiva lotta comune a tutti, uomini e donne di qualunque orientamento: «Non si è ancora sentita a fondo l’urgenza di cogliere la commistione tra il potere dell’uomo sulla donna, da una parte, e il rapporto eterosessuale, dall’altra, rapporto che vede in sé riassunta la soggezione della donna soprattutto e dell’uomo stesso allo strapotere del fallo, simbolo nella cui forma assoluta è alienata tutta la vasta gamma delle misconosciute presenze dei sessi.» La rivoluzione che dovrà riscattarci tutti, come persone libere di vivere ciascuno la propria verità, non può che essere una rivoluzione eminentemente frocia, che veda in prima linea, accanto agli omosessuali, la donna «che è l’essenza, l’odore e la materia della rivoluzione stessa». Certe favole hanno ormai fatto il loro tempo, così come certe rappresentazioni presepistiche. Soltanto la verità ci renderà liberi, consentendoci di costruire una società più umana e pacifica; una società più felice. Forse questa sarà solo un’utopia, ma se quest’utopia racchiude in sé l’antico anelito dell’uomo alla giustizia, all’amore, al rispetto e alla pace, allora val la pena nutrirla e continuare a lavorare perché diventi realtà, somma conquista di civiltà. Forse il sogno di Mario Mieli non è morto del tutto in quel forno; forse i semi che lui aveva gettato stanno lentamente germogliando, e chissà che un giorno non riusciremo a trasformare questa nostra società, ancora troppo dilaniata da divisioni, violenza e discriminazioni, in un vasto campo nel quale fiori bizzarri, folli, unici e irripetibili celebrano all’unisono l’universale legge dell’Amore e della pacifica convivenza.
Giuseppe Maggiore
Bibliografia essenziale:
- Mario Mieli, Elementi di critica omosessuale, a cura di Gianni Rossi Barilli e Paola Mieli (Feltrinelli, 2002);
- Mario Mieli, Il risveglio dei Faraoni (Cooperativa Colibri, 1994);
- Oro, Eros e Armonia, a cura di Gianpaolo Silvestri e Antonio Veneziani (Fabio Croce Editore, 2002);
- La gaia critica. Politica e liberazione sessuale negli anni settanta. Scritti (1972 – 1983), a cura di Paola Mieli e Massimo Prearo (Marsilio, 2019);
- E adesso, a cura di Silvia De Laude (Edizioni Clichy, 2016);
- Luca Scarlini, L’uccello del paradiso. Mario Mieli e la lingua perduta del desiderio (Fandango Libri, 2020).
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