VISIBILITÀ E PERCEZIONE DEL QUEER | Pelle queer maschere straight | un saggio di Antonia Anna Ferrante

di Mario Caruso

Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 41 | inverno 2019-’20

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Il paradosso della visibilità è quello di finire col renderci invisibili. Ciò che prima non si osava pronunciare, dichiarare, mostrare rientrava in quel regime di invisibilità che nascondendo negava di fatto l’oggetto stesso del nascondimento. Per molto tempo è stata questa la tattica adoperata da chi lottava contro la “questione” omosessuale. “Non ti nomino, quindi non esisti”. Una negazione che non agiva solo dall’esterno, ma che il più delle volte l’omosessuale stesso si autoimponeva. Ancora oggi per molti omosessuali è così, e sono padri e madri di famiglia, personaggi pubblici della politica o del mondo dello spettacolo, sacerdoti, suore e irriducibili casanova. Costoro sono i primi a negare che esista un problema legato all’omosessualità, anzi, sono sovente loro stessi i propugnatori di campagne diffamatorie e discriminatorie nei confronti di chi lotta per la rivendicazione dei diritti LGBT. L’ideale per loro sarebbe non poterne e non doverne parlare, un’esclusione a priori che risolve il problema ignorandolo. Più se ne parla più la cosa diviene nota e a quel punto diventano noti anche tutti i suoi stratagemmi e camuffamenti.

Anche l’omofobia si rivela per quel che è: una maschera troppo fragile, l’indizio e il sintomo di qualcosa di irrisolto con se stessi, la frustrazione verso qualcosa con cui non si è in grado di fare i conti, la rabbia verso ciò che non si accetta e fa paura: “Dimmi chi odi e ti dirò chi sei.” Ogni gay dichiarato viene visto come uno smacco alla propria codardia, l’avanzamento di qualcosa che rischia di travolgere e ridurre in frantumi anche quella bella e rassicurante facciata che ci si è affannati a costruire su di sé. Il coming out (ossia l’uscire allo scoperto) di qualcuno provoca disagio, inquietudine, proprio perché potrebbe tradursi in un outing (ossia l’essere messo allo scoperto) per qualcun altro: “Non mostrarmi ciò che sono!”. Ma scelta o indotta che sia, cosa comporta poi questa visibilità? In entrambi i casi essa non si traduce automaticamente in una maggiore libertà a poter essere finalmente se stessi, senza più tutti quegli infingimenti e condizionamenti vari imposti o autoimposti. Il rischio è poi che una sola caratteristica, in questo caso l’orientamento sessuale, fagociti tutto il resto, finendo con l’oscurare o far passare in secondo piano tutte le altre peculiarità della propria persona. Si viene in definitiva relegati in una nuova forma di invisibilità, dalla quale riesce talvolta persino più difficile uscire. Tutto ciò che nella società viene percepito come diverso rispetto a ciò che è considerato “normale” dà vita, oggi come sempre, a un corollario di stereotipi e pregiudizi che produce una rappresentazione del diverso, anziché una sua reale comprensione e assimilazione. In quest’ottica non c’è alcuna differenza tra chi considera l’omosessuale un pervertito e chi invece lo definisce una persona più sensibile, entrambi stanno definendo, classificando, ingabbiando una soggettività complessa e articolata in un’etichetta, in uno stereotipo più o meno riduttivo e fuorviante.

Riuscire a liberarsi da questi vecchi e nuovi schemi della rappresentazione, sia essa finalizzata a demonizzare o a edulcorare la realtà, rappresenta ancora oggi la vera sfida dell’uscire allo scoperto, ed è questo che ci invita a fare Antonia Anna Ferrante nel suo libro Pelle queer maschere straight (Mimesis, 2019). L’autrice, che si definisce una “terrona trans-femminista queer”,  attraverso l’analisi critica di alcune popolari serie televisive in cui irrompono personaggi, storie e diversità un tempo privi di spazio, perché considerate intollerabili o immorali, riflette su quella visibilità che il mondo LGBTQ+ ha conquistato nello scenario pubblico grazie ai media di massa, passando dalla televisione «medium domestico e addomesticante per eccellenza attorno a cui le famiglie si raccoglievano» (come scrive Tiziana Terranova nell’introduzione), a Internet «medium individuale e libertario in cui la famiglia era [risulta ndr] decisamente assente».

Nell’anno in cui si celebra il cinquantennale dai moti di Stonewall vale la pena chiedersi cosa ha prodotto in termini di trasformazione sociale questa visibilità, e in che modo è cambiata la percezione che si ha del “diverso”, ossia di tutte quelle identità che si collocano al di fuori dei percorsi e delle aspettative sociali comunemente definiti “normali”. Decenni di lotte da parte dei movimenti femministi, omosessuali, lesbici, transessuali – in breve tutti coloro che un tempo formavano il popolo degli esclusi da ogni diritto e riconoscimento – hanno indubbiamente determinato grandi trasformazioni sociali, ma resta da vedere se queste trasformazioni possano essere considerate in linea con i valori che animavano in origine quelle lotte. Sì, è vero, oggi ci sono infinite altre nuances oltre la bicromia rosa-azzurro imposta alla nascita, una vasta gamma di colori e sfumature che rappresenta altrettante possibilità di scelte, di ruoli e identità che ciascuno può avere all’interno di quella vecchia favola un tempo fatta solo di principi e principesse. Ma fino a che punto l’emersione di tutta questa moltitudine di modi di vivere e di sentire non è più considerata un “fuori la norma” da tollerare, bensì un “dentro la norma” in cui ciascun individuo possa sentirsi libero di assecondare la propria natura, senza con questo dover subire lo stigma sociale o incorrere in altri complessi?

Antonia Anna Ferrante ci mette in guardia da una visibilità che rischia di restare ancora una volta imbrigliata tra le maglie del cosiddetto mainstream, ovvero quel regime culturalmente e politicamente egemonico che non intende accogliere e assimilare il diverso per quel che è, bensì mira ad assoggettarselo, neutralizzandolo in tutto il suo potenziale destabilizzante affinché non possa costituire una reale alternativa alla monocultura dominante. È questa una visibilità che spaccia la verosimiglianza per la verità, che non libera ma omologa e addomestica, lasciando «che tutte queste differenze siano mangiate e digerite dalla macchina della rappresentazione», la stessa che può di volta in volta ridicolizzare, mostrificare, o ancora normalizzare e rendere rassicuranti, in ogni caso fare oggetto di una qualche forma di strumentalizzazione. Se oggi, in una società apparentemente ben disposta a fare i conti con i propri scheletri nell’armadio, tutto sembra spingere a mostrarsi, rendersi trasparenti, dichiararsi, è anche lecito chiedersi con la Ferrante: va bene uscire dall’invisibilità, ma a che costo?

«La trasparenza riduce tutto all’omogeneità, rendendo rappresentabile la complessità della realtà su un piano unico di due dimensioni. Tutto è visibile, ma perde di consistenza e di profondità.» Il costo che questa visibilità comporta è ancora una volta il rischio di essere assoggettati a un processo di normalizzazione che decide cosa possa essere culturalmente accettabile e cosa no in seno alla società eteronormata. Ed è a questo rischio che la Ferrante oppone la resistenza queer (termine-ombrello sotto cui vanno tutte quelle identità che non si identificano con nessuna delle categorie riferite all’orientamento sessuale, come gay, lesbica o bisessuale, o che perlomeno non se ne sentono compiutamente rappresentate): «Lo spazio queer è attraversabile da tante più persone di quelle che possono essere individuate sin dall’inizio da un progetto d’identificazione.»; è uno spazio entro il quale è possibile «continuare a interrogarsi su cosa siano i legami, le relazioni, la parentela.»; uno spazio in cui è possibile ripensare la nozione stessa di famiglia, come la intendeva già la studiosa di teoria queer Eve Kosofsky Sedgwick, ossia conferendole una nuova e più elastica definizione, capace di «accogliere legami non coniugali, vincoli non diadici, relazioni non procreative e definite dai genitali.»

Tutto questo aprirebbe alla possibilità per tutti di poter «articolare in infiniti modi possibili i legami di sangue, legali, di intimità, di convivenza, di supporto e soccorso.» semplicemente affermando quella innata propensione umana a saper dar luogo a una articolazione di rapporti e sodalizi molto più vivace e creativa di quella tradizionalmente e istituzionalmente normata: «Da sempre madri single, genitori surrogati, famiglie allargate, adozioni più o meno formali, modelli comunitari di diverso genere spingono i limiti concettuali del significante famiglia.» La forza prorompente del queer sta proprio in questa sua capacità di saper «costruire “modi di vita”, irriducibili alla norma, che producano un’etica e dei valori non universali e che non cerchino alcuna forma di istituzionalizzazione.»; consiste nell’opposizione tanto alla cultura eteropatriarcale che annaspa nei guasti di un modello familiare ormai funzionante solo negli spot pubblicitari, quanto a una certa cultura gay estetizzante, ruffiana e farlocca che oggi tenta di «imitare la normalità performandola in modo grottesco, esagerandola». Il soggetto queer non intende nascondersi sotto la maschera straight, non ambisce all’assimilazione subalterna attraverso l’imitazione e la reiterazione di ciò che la norma eterosessuale ha prodotto e imposto; lui resta un soggetto che si colloca “altrove”, al di fuori da ogni etichetta o classificazione legata al sesso, al genere, all’orientamento sessuale o all’etnia. Il soggetto queer afferma la radicalità del sentimento, lotta «contro le convenzioni sociali che impongono quali siano i legami legittimi e gli amori vivibili», quelle stesse convenzioni che, nel caso di legami non riconosciuti o impronunciabili, stabiliscono chi abbia diritto a prestare cure o la legittimità di un lutto.

La rivoluzione queer parte dunque proprio da questa rivendicazione di libertà e radicalità dei sentimenti, che fa della famiglia proprio il luogo di contestazione e di trasformazione sociale, perché «Finché ci saranno una normalità e una disciplina degli affetti, mettere attenzione, desiderio, e soprattutto cura, nelle relazioni in cui sceglieremo di crescere sarà un atto di ribellione rivoluzionario.» Proprio per quella valenza che potremmo definire universale, la visibilità queer, mentre rifugge da ogni sorta di stereotipo e di gabbia sociale, da ogni tentativo di normalizzazione, assolutizzazione e addomesticamento, garantisce a tutti uno spazio in cui poter esprimere a pieno la propria soggettività. Ogni avanzamento in questa direzione non costituisce perciò una conquista per questa o quella categoria, ma una conquista di civiltà per l’umanità intera.

Mario Caruso


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