MANIFESTO DELL’ATEISMO | Diventare più grandi di Dio | un saggio di Richard Dawkins (Mondadori, 2019)

di Cecily P. Flinn

Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 41 | inverno 2019-’20

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Dal punto di vista squisitamente probabilistico Dio esiste nella stessa misura in cui non esiste. Lo scienziato sa bene che è tecnicamente impossibile dimostrare l’inesistenza di qualcosa (Dio compreso). Nel 1952 il filosofo gallese Bertrand Russel fissò il concetto attraverso una semplice teiera di porcellana: «Se io sostenessi che tra la Terra e Marte ci sia una teiera di porcellana in rivoluzione attorno al Sole su un’orbita ellittica, nessuno potrebbe contraddire la mia ipotesi purché io avessi la cura di aggiungere che la teiera è troppo piccola per essere rilevata persino dal più potente dei nostri telescopi. Ma se io dicessi che, giacché la mia asserzione non può essere smentita, dubitarne sia un’intollerabile presunzione da parte della ragione umana, si penserebbe giustamente che stia dicendo fesserie. Se però l’esistenza di una tale teiera venisse affermata in libri antichi, insegnata ogni domenica come la sacra verità e instillata nelle menti dei bambini a scuola, l’esitazione nel credere alla sua esistenza diverrebbe un segno di eccentricità e porterebbe il dubbioso all’attenzione dello psichiatra in un’età illuminata o dell’inquisitore in un tempo antecedente.» Nessuno, men che meno l’ateo, può sventolare le prove dell’inesistenza di qualsivoglia divinità. La parola greca átheos – formata da theós, «dio», preceduta dall’alfa privativo – designa chi non crede in un’entità sovrannaturale (in dio e, in generale, negli dèi).

Scrive Dawkins: «Non possiamo sapere con certezza che non esiste alcun dio, così come non possiamo sapere con certezza che non esistono fate, folletti, elfi, hobgoblin, gnomi e unicorni rosa. Non possiamo fornire le prove della loro inesistenza, così come non possiamo dimostrare l’inesistenza di Babbo Natale, della Befana o del topino dei denti. Si possono immaginare un miliardo di cose di cui nessuno è in grado di dimostrare l’inesistenza.» Il punto cruciale è saper distinguere, con onestà intellettuale, ciò che è ragionevole da ciò che non lo è. L’indagine scientifica si basa su prove oggettive e dati rigorosamente verificabili. Per affermare l’esistenza di qualcosa, al di là d’ogni ragionevole dubbio, occorrono riscontri concreti. Ad oggi, scrive Dawkins, la comunità scientifica non ha potuto esaminare nessuna prova convincente dell’esistenza di un Dio. Non credere è dunque palesemente più sensato che credere. Eppure, a dispetto dei passi da gigante compiuti dalla ricerca scientifica in questi ultimi decenni, viviamo in una contemporaneità «ancora pervasa da suggestioni religiose d’ogni tipo», lacerata da gretti e pericolosi fanatismi, inquinata da ridicole superstizioni e assurde credenze che ci riportano dritti nel più bieco Medioevo.

In Outgrowing God (Diventare più grandi di Dio, Mondadori, 2019), il celebre biologo evolutivo Richard Dawkins ribadisce molti dei concetti già espressi nel coraggioso e irriverente L’illusione di Dio (2007), arrivando a formulare quella che potremmo definire una “guida per aspiranti atei”. Il saggio, lungi dall’esaurirsi in un gratuito attacco a chiunque professi una fede, si offre innanzitutto come grande terreno di riflessione. Tutto ruota intorno a una questione centrale: alla luce delle attuali conoscenze scientifiche, è ancora necessario credere in Dio per spiegare l’universo? Nel primo capitolo Dawkins pone al lettore (credente e non) la seguente domanda: «Credi in Dio? Quale Dio?», passando poi a enumerare alcune delle centinaia di divinità adorate nel corso della storia: Odino, Baldr, Thor, Snotra, Frigg, Ran… (adorate dai vichinghi); Zeus, Era, Poseidone, Afrodite, Ermes, Dioniso… (adorate dai greci); Giove, Giunone, Nettuno, Venere, Mercurio, Bacco… (adorate dai romani); Osiride, Thot, Nun, Anubi, Horus… (adorate dagli egizi); Adad, Enlil, Dagon, Marduk… (adorate dalle civiltà babilonesi-mesopotamiche); Bila, Gnowee, Karraur, Wala, Wuriupramili… (adorate dagli aborigeni australiani); Edain, Elatha… (divinità celtiche); Mawu, Anyanwu, Ngai… (divinità africane); e via così fino al drago ittita Illuyanka e al dio squalo delle Figi, Dakuwaqa. «Io, come immagino anche voi, non credo in nessuno degli innumerevoli dèi del cielo, dei fiumi, dei mari, delle stelle, della luna, del tempo, del fuoco, della foresta. Quanti dèi… in cui non credere. Non credo neanche in Jahvè, il dio degli ebrei, ma è molto probabile che ci crediate voi se avete ricevuto un’educazione ebraica, cristiana o musulmana.» La divinità ebraica Jahvè venne assimilata dai cristiani e poi dai musulmani (con il nome arabo Allah).

Sia il cristianesimo che l’islam, ci ricorda Dawkins, si evolvono dall’antica religione ebraica. «L’Antico Testamento, nella Bibbia cristiana, è puramente ebraico e il libro sacro dei musulmani, il Corano, vi si rifà in parte.» Le religioni cosiddette “abramitiche” – ossia ebraismo, cristianesimo e islam – individuano una comune origine nel patriarca Abramo, e si forgiano come “monoteistiche” (adoranti cioè una divinità singola). «Jahvè, il dio che oggi domina, nacque un po’ in sordina come dio tribale degli antichi israeliti, i quali erano convinti di essere a lui cari al punto di meritarsi la qualifica di “suo popolo eletto”.» Jahvè, scrive Dawkins, deve tutta la sua fortuna a una pura casualità, a «un accidente della storia»: se nel 313 Costantino avesse agito diversamente, non legalizzando il cristianesimo ma un altro dei culti coevi, oggi i fedeli si genufletterebbero al cospetto di tutt’altra divinità. Troppo spesso, denuncia il biologo, l’indottrinamento (verso questa o quell’altra religione) precede o scavalca del tutto la conoscenza della storia. Fa riflettere anche un altro dato conclamato: nei grandi numeri i figli aderiscono per lo più alla fede dei propri genitori e, in linea generale, alle credenze stratificate nel proprio paese d’origine.

Se Dio è uno e le religioni sono tante vuol dire allora che sono tutte false tranne una. Sì, ma quale? Cosa induce il fedele a credere che la sua religione sia quella vera? Dawkins sa bene che per smontare l’attendibilità di una qualsivoglia religione è sufficiente analizzare il suo corrispettivo testo sacro. Nello specifico, per mere esigenze di sintesi, il biologo si limita a prendere in esame le cosiddette Sacre scritture del cristianesimo: Vecchio e Nuovo Testamento. Quello che emerge dal Vecchio Testamento è il ritratto di un dio geloso, vendicativo e sanguinario. Tra i tanti passaggi raccapriccianti eccone uno dei più esaustivi: Or dunque, uccidete tutti i bambini maschi e tutte le donne, che hanno avuto rapporti intimi con un uomo; invece le fanciulle vergini, che non hanno ancor conosciuto l’uomo, serbatele in vita per voi. (Nm 31,17-18). Questo è quello che viene definito il buon libro. «Sarà anche così, ma viene da chiedersi come si possa trarre una morale decente da queste storie raccapriccianti di istinti violenti e sanguinari, di guerre per il Lebensraum, di genocidi perpetrati per pulizia etnica e di uso di donne e fanciulle come meri oggetti di proprietà degli uomini, da stuprare e sfruttare sessualmente.»

La teologia (l’arte di arrampicarsi sugli specchi) ha delle belle gatte da pelare nell’interpretare questi racconti tutt’altro che edificanti. Molti teologi contemporanei si concentrano più diffusamente sul Nuovo Testamento, «dove Gesù appare assai più buono del suo terrificante padre celeste.» In un caso come nell’altro, ci ricorda Dawkins, non si tratta di testi vergati in prima persona da una divinità grafomane, ma di testi redatti da uomini del tempo (testi che hanno subito riscritture su riscritture, traduzioni su traduzioni e deformazioni d’ogni tipo). Quello che è narrato nella Bibbia è storico nella misura in cui può considerarsi storico quello che è narrato nell’Iliade o nell’Odissea. Quali prove abbiamo che Abramo e Isacco siano realmente esistiti? Nessuna. «Non vi sono più prove della loro esistenza di quante ve ne siano dell’esistenza di Cappuccetto Rosso (un’altra storia abbastanza sconvolgente, anche se tutti sappiamo che è una favola).» Quel che è certo è che la Bibbia fu redatta molto tempo dopo gli eventi che pretende di descrivere. Anche il Vangelo più antico dei quattro canonici, quello attribuito a Marco, è stato redatto circa quarant’anni dopo la morte di Gesù. Pur ammettendo che Gesù sia realmente esistito (cosa possibilissima), quale attendibilità storica è lecito attribuire a testimonianze così distanti nel tempo? «Tutto quanto si legge nei Vangeli è il prodotto di decenni di narrazioni orali, che furono travisate ed esagerate secondo le tipiche modalità del passaparola, prima che i quattro testi fossero infine messi nero su bianco.» Nulla di quanto narrato nei cosiddetti testi sacri è verificabile. Ci troviamo di fronte a dei miti, e se decidiamo di credere a questi miti piuttosto che in altri (quelli vichinghi, ad esempio) è solo perché vogliamo crederci. A qualcosa, d’altra parte, si dovrà pur credere se non si accetta la finitudine.

Le religioni – tutte, nessuna esclusa – rispondono a questo legittimo fabbisogno di perdurare oltre la morte (il paradiso come ricompensa e second-life). La Bibbia non è che un accrocco di testi redatti migliaia di anni fa, «quando le mogli erano proprietà del marito e i beni più apprezzati di un uomo erano gli schiavi.» Se oggi dovessimo desumere il senso del bene e del male dalla Bibbia «continueremmo a lapidare gli uomini perché hanno raccolto legna di sabato». La Bibbia pullula di assurdità e di malvagità, ma i fedeli (e i teologi) scartano di qua e prelevano di là. Problema risolto. Se le prove oggettive costituiscono l’unico solido presupposto di qualunque tesi, allora va da sé che la Bibbia non può rappresentare assolutamente un valido motivo per credere. L’homo sapiens del XXI secolo non ha bisogno necessariamente di Dio per interrogarsi sull’universo, né di un testo sacro dal quale attingere un’etica. Può contare, oggi più che mai, sul buonsenso che nutre la ragione, e ancor più sulla sua sana proverbiale sete di conoscenza. Spetta alla scienza il difficile compito di rispondere agli interrogativi sul senso profondo dell’esistenza. Spetta alla scienza, non a una vetusta divinità antropomorfa, il rivelare. L’esistenza di un Dio-architetto non è razionalmente sostenibile. «Io credo che dobbiamo prendere il coraggio a due mani e diventare adulti, rinunciando a tutti gli dèi. (…) La verità scientifica è bella, anzi meravigliosa.» L’ateismo, la laicità si palesano quali requisiti fondamentali. Quello di Dawkins è un accorato invito a «liberarsi delle certezze consolanti e addomesticate per abbracciare la verità nuda e cruda.»

Per concludere, un breve aneddoto. Nel 2010 l’astrofisica Margherita Hack prese parte a un dibattito tra scienza e fede organizzato presso l’Auditorium della Gran Guardia di Verona. Qui, dialogando con l’allora vescovo di Verona Monsignor Giuseppe Zenti, l’astrofisica dovette ribattere a frasi di questo tenore: «Il vero ateo è l’egoista! Questo è il più grave dramma che stiamo vivendo!» oppure «La grandezza dell’uomo sta tutta nel riconoscere l’assolutezza di Dio!» o ancora «Identificare la razionalità nel solo ambito della scienza mi pare che sia estremamente riduttivo.» La Hack, stranita ma molto divertita, ha risposto come ci si aspetterebbe facesse uno scienziato. Ecco uno dei passaggi più efficaci: «…Perché il mondo è così? Com’è possibile che da una zuppa di particelle elementari si sia potuti arrivare a forme di vita così complesse come siamo noi? La risposta più semplice è di pensare a un essere superiore, Dio, che ha creato il mondo. Questa però mi sembra una risposta troppo facile. Più siamo ignoranti e più questa spiegazione la cerchiamo nell’aldilà, in Dio.»

Cecily P. Flinn


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