di Massimiliano Sardina
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 41 | inverno 2019-’20
Gesù disse: “Colui che cerca non cessi dal cercare, finché non trova e quando troverà sarà commosso, e quando sarà stato commosso contemplerà e regnerà sul Tutto.” (Vangelo di Tommaso, loghia 2).
Una villa di campagna nel Ponente Ligure. Metà degli anni Ottanta. La luce bionda che trasfigura il paesaggio sembra presa a prestito da una tela di Monet. Oliver irrompe nella vita di Elio in piena estate, quando gli alberi d’albicocca si incendiano di frutti succosi e maturi. E sarà proprio la cangianza d’oro e rosa di quelle albicocche che Elio evocherà, turbato e insonne fin dalla prima notte, nel tentativo di decifrare il turgido incarnato di Oliver, così simile a «un inizio d’alba in una notte burrascosa». Chi è davvero Oliver? Quale rivelazione destabilizzante si cela sotto la sua camicetta azzurra? Non è l’angelo sterminatore del Teorema pasoliniano, «venuto per distruggere», ma l’angelo della Visitazione, venuto per amare.
In Chiamami con il tuo nome (Guanda, 2008) lo scrittore francese André Aciman aveva raccontato, con struggente e rara delicatezza, l’idillio archetipo dell’amore virile. Un amore graziato dalla giovinezza, dalla bellezza, dall’arte, dalla musica e dalla letteratura. L’amore speculare (omosessuale, perfetto) tra il pianista Elio e lo studioso di lettere classiche Oliver, rispettivamente di diciassette e ventiquattro anni.
Questo, in breve, l’antefatto: ogni estate il padre di Elio, professore di lettere classiche, aveva l’abitudine di ospitare per sei settimane dei giovani letterati per aiutarli a rifinire il loro manoscritto prima della pubblicazione. Quell’anno la scelta era caduta sull’americano Oliver, autore di un saggio su Eraclito. Dividendosi tra il lavoro e la vacanza, l’americano stringe giorno dopo giorno con il figlio del professore un legame speciale destinato a travalicare la semplice attrazione. Vinta l’iniziale circospezione i due si faranno sempre più vicini finché, disarmati, finiranno col denudarsi di maschere e corazze. È Elio, il più giovane, la voce narrante del romanzo. È lui che, traboccante di desiderio, dice: «…volevo solo che si chinasse a raccogliere la mia dignità che tanto facilmente gli avevo gettato ai piedi. Io ero Glauco e lui Diomede. In nome di chissà quale oscuro culto maschile, gli stavo cedendo la mia armatura d’oro per la sua di bronzo.» Tuttavia, in nome di quella reciprocità assoluta di cui si è detto, è come se a narrare fosse Oliver (due entità distinte, sì, ma coincidenti, agite dallo stesso demone).
Il romanzo è la straziante rievocazione di quella lontana estate, stagione dell’anima, dove i due giovani si sono amati come a pochi è concesso amarsi. «Fa che l’estate non finisca mai, che lui non se ne vada mai, che suoni all’infinito la stessa musica, non chiedo molto e giuro che poi non chiederò più nulla.» La reciprocità, nutrita da una passione divorante, sconfina in un’adesione straniante che li porterà a chiamarsi l’uno con il nome dell’altro. Chiamami con il tuo nome. Elio e Oliver commutano il celebre verso della poesia Two Loves di Lord Alfred Douglas, l’amato di Oscar Wilde, da «Io sono l’amore che non osa pronunciare il suo nome» a «Io sono l’amore che osa pronunciare il suo nome.» La simbiosi amorosa infrange lo specchio d’acqua sul quale si disperava Narciso: lungi dall’esaurirsi in una proiezione, l’amore che li unisce è reale, concreto, tangibile, circoscritto nello spazio e nel tempo, potente, prodigioso, eppure così infinitamente fragile. Seduto allo Steinway, incapace di dominare l’emozione, Elio suona per il suo amato un Arioso di Bach, Sopra la lontananza del fratello dilettissimo. Note presaghe.
Fin dal primo bacio a incombere era stata la consapevolezza dell’inevitabile congedo, non foss’altro perché a ogni estate deve pur far seguito un autunno. Oliver sarebbe ritornato negli Stati Uniti, ed Elio sarebbe rimasto lì a fare i conti con la sua assenza. Era questo il prezzo da pagare per quella felicità, lo sapevano bene entrambi. Ecco dunque sopraggiungere la separazione, dolorosa come una mutilazione, innaturale, crudele, contraltare tragico di quella visitazione che li aveva messi l’uno nelle braccia dell’altro. Prima di lasciare il «piccolo angolo di paradiso» della villa sulla Riviera ligure, i due si concedono un breve soggiorno a Roma. Sarà la Città Eterna a suggellare definitivamente il loro amore fino a renderlo indissolubile. Si separeranno alla stazione, gonfi di dolore, con la promessa di ritornare presto ad essere una cosa sola. Un nome solo. Questa volta il «Dopo!…» – quell’espressione sbrigativa atemporale usata spesso da Oliver per dire «A più tardi» – trascina con sé il sentore di un arrivederci troppo indeterminato, quasi di un malcelato addio. Elio è quello che resta, quello che incassa il colpo, quello dei due più vulnerabile forse perché più giovane. O forse è quello che parte a trascinarsi con sé il fardello più gravoso… Con la fine dell’estate la luce incandescente di Monet vira bruscamente nei semitoni di Corot. Elio decide di trattenere con sé un ricordo: la «svolazzina», la camicia azzurra che Oliver indossava il giorno del loro primo incontro nel giardino della villa. Sa che la stringerà a sé, che la annuserà, che ci farà l’amore e che ci asciugherà sopra le sue lacrime. È azzurra come azzurro è il suo amato. Come scrive Pasolini in Teorema: «…È l’azzurro che è il suo ricordo. Ma solo l’azzurro evidentemente non può bastare…»
A dispetto di tanta perfezione a vincere è la vita, il tempo, le distanze. Più di tutto, forse, la paura della felicità. Una felicità troppo ingombrante, ingestibile. Più facile lasciarsi fagocitare da esistenze omologate e socialmente più accettate, sebbene poi il prezzo da pagare porti inevitabilmente alla rovina. «Sono quelli che abbiamo perso (…) a lasciare il segno. Gli altri ne sono solo una misera eco.» Non è raro però che a prevalere sia un’ingiustificata inadeguatezza, o forse dovremmo chiamarla vigliaccheria. «Non sono forse questi i due scenari peggiori? Da un lato ciò che sarebbe potuto accadere ma non è mai accaduto, dall’altro ciò che potrebbe ancora accadere anche se non nutriamo più speranze.» Elio e Oliver trascorreranno separati un tempo incalcolabile, la bellezza di vent’anni, praticamente una vita, senza però dubitare mai dell’indissolubilità del loro legame. Cercami è il mantra, la supplica, la preghiera sempre palpitante nel loro cuore. Si sono illusi di trovarsi in altri corpi, in altre anime, in altri brividi, fallendo miserabilmente. Cercami, cercami… e chiamami, chiamami con il tuo nome. È per esaudire questo desiderio, e tentare di risarcire l’irreparabile danno della separazione, che Aciman è tornato a riannodare i destini degli indimenticabili protagonisti di Chiamami con il tuo nome. Pur ossequiando le dinamiche del sequel – sull’onda del successo del riuscitissimo film omonimo di Luca Guadagnino – Cercami (Guanda, 2019) si offre innanzitutto come un risarcimento, una riparazione: l’happy end cuce lo strappo, ricompone il mosaico, riorienta le superfici dei due specchi. Diviso in quattro “tempi” narrativi (Tempo, Cadenza, Capriccio, Da capo), il romanzo indaga la sincronia intermittente, imperfetta ma perfettibile, tra tempo e vita. In apertura la voce narrante è quella di Samuel, il padre di Elio (uomo più che colto, saggio, accogliente, il miglior padre cui un ragazzo come Elio potesse aspirare). Anche Samuel ha vissuto una separazione, quella da sua moglie. Da anni vive da solo nella grande villa in Liguria, «il piccolo angolo di paradiso». La famiglia, pur restando unita, si è smembrata. Ciascuno ha seguito il corso della propria vita. Elio è ormai un pianista affermato, vive a Roma e viaggia spesso per tenere i suoi concerti. È rimasto l’Elio di sempre, quell’Elio innamorato del suo Oliver, nonostante non lo veda ormai da dieci anni; oggi è un ventisettenne inquieto, malinconico, sempre avido di letteratura e di musica, incapace di stringere relazioni sentimentali durature, cronicamente insoddisfatto ma al contempo inspiegabilmente pacificato. Porta addosso il lutto del suo amore sospeso, ma a sostenerlo c’è una consapevolezza profonda, una fiducia che non lo abbandona mai. Oliver non c’è, ma è come se ci fosse. «Invisibile, ma sempre presente.»
Ritroviamo Samuel in treno. Sta andando a Roma per tenere una conferenza all’università. Ne approfitterà per rivedere Elio e passare del tempo prezioso con lui. È sovrappensiero, attualmente sta lavorando a uno studio sulla caduta di Costantinopoli del 1453. Poteva essere un viaggio come tanti, andata e ritorno, invece il destino disegna un bivio sul suo rettilineo. A Firenze sale sul treno una giovane donna che va a sedersi proprio di fronte a lui. Per ingannare il tempo i due passeggeri cominciano a scambiarsi qualche parola. Ancora non lo sanno… che si innamoreranno e metteranno al mondo un figlio. Un figlio che Samuel – come atto d’amore verso Elio – sceglierà di chiamare Oliver. Tutto torna, un riverbero d’amore riflesso magicamente in una corrispondenza. A Roma Samuel presenta Miranda a Elio. Padre e figlio sono libri aperti, non hanno segreti né tabù. A passeggio per i vicoli della Città Eterna intrecciano un dialogo di struggente intensità, mettendosi a nudo come forse non avevano fatto mai (qui Aciman ci consegna i passaggi più ispirati del romanzo): «…più di ogni altra persona al mondo, sei tu che mi hai fatto diventare quello che sono oggi. Non abbiamo mai avuto segreti, noi due, tu sai tutto di me e viceversa. Per questo mi considero il figlio più fortunato sulla faccia della terra. Mi hai insegnato ad amare – i libri, la musica, le belle idee, le persone, il piacere, addirittura me stesso. Ma soprattutto, mi hai insegnato che abbiamo una vita soltanto e che il tempo si mette sempre contro di noi.» E Samuel, di rimando: «…Quello che forse non sai, però, è che hai insegnato più cose tu a me che non viceversa! (…) Ti ho insegnato a prendere nota di quei momenti in cui il tempo si ferma, ma alla fine non significano nulla se non trovano un’eco in qualcuno che ami. Altrimenti restano dentro di te e si deteriorano nel corso della tua vita, oppure, se sei fortunato, ma accade di rado, li riversi in ciò che chiamiamo arte, nel tuo caso la musica. Soprattutto, però, ho sempre invidiato il tuo coraggio, la fiducia che riponevi nel tuo amore per la musica prima e nel tuo amore per Oliver poi.» Dove tace il vuoto legame di sangue parla l’affinità di due anime. Non c’è imbarazzo, non c’è pregiudizio. Sono entrambi il frutto della cultura alta che li ha nutriti. Sono famiglia nel suo significato più profondo. Ora, a Roma, c’è ancora qualcosa che Elio è desideroso di condividere con suo padre. Un muro. Un vecchio muro in via Santa Maria dell’Anima. Qui, potente, riaffiora un ricordo risalente a dieci anni prima: «…Non te l’ho mai detto, papà, ma una sera ero sbronzo perso, avevo appena vomitato vicino alla statua di Pasquino; più stordito di così non potevo essere, eppure qui, appoggiato a questo muro, ubriaco com’ero, con Oliver che mi sorreggeva, capii che questa era la mia vita, che tutto ciò che avevo sperimentato prima con altri non era nemmeno un abbozzo maldestro né una prima stesura di ciò che mi stava capitando in quel momento. (…) Quando guardo questo muro, sotto questo vecchio lampione, sono di nuovo con lui e non è cambiato niente… (…) ciò che è scritto su questo muro offusca il ricordo di chiunque abbia conosciuto.» Anche quell’angolo di Roma, come il giardino della villa in Liguria, è «un piccolo angolo di paradiso», il microcosmo che ha fatto da sfondo e da cornice al suo prodigioso amore. Elio e Oliver sono ancora lì, eternati, incancellabili, fuori dal tempo, «perché in fondo il tempo è solo una metafora incerta e inaffidabile di come consideriamo la vita. In ultima istanza, infatti, non è il tempo a essere sbagliato per noi, e nemmeno noi per il tempo. Forse è la vita a essere sbagliata.»
Secondo tempo del romanzo: Cadenza. Elio vive a Parigi. La sua carriera concertistica va a gonfie vele. Gli anni trascorsi lontano da Oliver ammontano ormai a quindici. Non ha dimenticato. Tutto è custodito gelosamente dentro un tabernacolo. Sa di vivere in un tempo di mezzo, in una nota sospesa, così vive storie brevi, rapporti occasionali dai quali puntualmente ha imparato a fuggire. Una sera però, durante l’intervallo di un concerto di musica da camera in una chiesa sulla Rive Gauche, conosce Michel. Ha l’età di suo padre, ma non gli importa. È il primo uomo, dopo Oliver, che riesce a muovere qualcosa nel suo cuore. Quando il rapporto si consolida – complice un misterioso antico spartito contenente una lettera d’amore criptata – Elio, per una volta disarmato, arriverà a dirgli: «I giorni che mi hai dato tu giustificano gli anni trascorsi senza di lui.»
Terzo tempo del romanzo: Capriccio. Oliver vive a New York. La sua carriera universitaria va a gonfie vele. Gli anni trascorsi lontano da Elio ammontano ormai a venti. Non ha dimenticato. Nonostante il lungo matrimonio con Micol e i due figli ormai adolescenti, non ha dimenticato. Ha quarantaquattro anni. Elio sette di meno. Cercami… Non ha dimenticato. È vissuto anche lui in un tempo sospeso, in una parentesi vuota, al margine del pentagramma. Finché improvvisamente una sera…
Quello che avviene è circoscritto nello spazio e nel tempo: Oliver e sua moglie Micol stanno dando una festa d’addio nel loro appartamento di New York. Hanno deciso di voltare pagina e di ritornare nel New Hampshire. Gli ospiti sorseggiano prosecco muovendosi tra la sala, già ingombra di scatoloni, e la terrazza affacciata sull’Hudson. L’attenzione di Oliver è catturata da due ospiti in particolare, Paul ed Erica, due persone che conosce appena. Forte del fascino che sa di esercitare, comincia a flirtare amabilmente sia con lui che con lei. Vagheggia di congiungersi ai loro corpi. Sta cercando qualcosa, qualcuno… una parte di lui e una parte di lei, l’accordo sublime tra la virilità e la grazia. Quello che desidera, quello che dolorosamente manca alla sua vita, alla sua felicità, affiorerà presto, proprio quella sera, nella celebrazione di quell’addio. Paul si siede al pianoforte e comincia a suonare. Le note trafiggono il cuore di Oliver. Il Capriccio di Bach sopra la lontananza del fratello dilettissimo. Il tempo si ferma. «Senti che cosa sta suonando? chiesi all’unica persona assente, ma mai assente per me.» In quel momento desiderò solo riappropriarsi del passato, «perché era il passato, o qualcosa di simile al passato, come il ricordo, o forse non proprio il ricordo ma qualcosa più in profondità, sotto molteplici strati, come l’invisibile filigrana della vita che ancora non riuscivo a cogliere.» Per la prima volta Oliver trova il coraggio di analizzare impietosamente la sua vita, «trovando ovunque immensi crateri bui che mi riportavano a quell’amore naufragato, danneggiato…» È la musica – la musica di Bach, la musica di Elio – a ricordargli come sarebbe dovuta essere la sua vita. «La musica non è altro che il suono dei nostri rimpianti tradotto in una cadenza che stimola l’illusione del piacere e della speranza. È la cosa che ci ricorda con maggiore evidenza che siamo qui per un brevissimo lasso di tempo e che abbiamo trascurato o ingannato le nostre vite o, peggio ancora, non le abbiamo vissute. La musica è la vita non vissuta.» Il richiamo di Elio giunge attraverso la musica. Oliver acquisisce finalmente piena consapevolezza: «Per vent’anni hai vissuto la vita di un uomo morto.» È troppo tardi per tornare? No. Cerca di spiegarlo a Micol: «…Perché la mia vita si è fermata lì. Perché non me ne sono mai andato del tutto. Perché il resto di me qui sembra la coda mozzata di una lucertola, che si dimena e si divincola mentre il corpo è rimasto dall’altra parte dell’Atlantico in quella meravigliosa casa sul mare. Sono stato lontano fin troppo a lungo.»
Da capo: il tempo ritrovato. Elio e Oliver riannodano le loro vite, ripartendo dal luogo dove tutto aveva avuto origine: la meravigliosa villa di campagna nel Ponente Ligure. Con loro ci sono Samuel, Miranda e il piccolo Ollie. Sulla felicità – riconquistata, ma di fatto mai perduta – sanguina una ferita aperta da vent’anni. «Tutto quel tempo, tutti quegli anni e tutte quelle vite che avevamo toccato e scartato (…) il prezzo da pagare per una vita non vissuta è sempre il tempo.» Più forte di tutto, più forte del tempo, aveva agito però la consapevolezza che «… se nessuno di noi due cercava l’altro era solo perché in realtà non ci eravamo mai separati…». Cercami è la storia di una riappropriazione. Testimonianza struggente di come l’amore (inteso nella sua accezione più alta) possa eludere le barriere del tempo.
«Tu non parti, da qui non te ne vai più.»
«Non vado da nessuna parte. Levati certi pensieri dalla testa.»
Massimiliano Sardina
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