LO SPIRITO DELL’UOMO INNOCENTE | J’Accuse | Roman Polanski fa chiarezza sul celebre caso Dreyfus

di Massimiliano Sardina

Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 41 | inverno 2019-’20

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Il 13 gennaio 1898 sul giornale socialista francese «L’Aurore» apparve il celebre J’Accuse firmato Émile Zola. Con questa lettera aperta, indirizzata al presidente della Repubblica francese Félix Faure, Zola svela pubblicamente il vergognoso retroscena celato dietro il cosiddetto affaire Dreyfus. Ciò che doveva restare nascosto, per salvare la buona reputazione dell’Esercito francese (e per riflesso dell’intero assetto del Governo), diventa improvvisamente di dominio pubblico. Scoppia così, sul finire del secolo, il maggior conflitto politico e sociale della Terza Repubblica francese, evento spartiacque tra la Guerra franco-prussiana e la Prima Guerra Mondiale.

Questi i fatti. Il 22 dicembre 1894 il Capitano dello Stato Maggiore Alfred Dreyfus, figlio di un industriale ebreo, viene accusato di alto tradimento. Ad incastrarlo è in primo luogo un bordereau (contenente segreti militari) vergato con quella che viene ufficialmente riconosciuta come la sua grafia. La perizia, condotta dal grafologo Alphonse Bertillon, sentenzia che Dreyfus è una spia, un informatore dei nemici tedeschi. Segue un processo sommario dove Dreyfus – incredulo, smarrito, impotente – cerca invano di difendersi. Agli inizi di gennaio 1895, nel cortile dell’École Militaire di Parigi, ha luogo la cerimonia della sua degradazione. Tra i presenti c’è Georges Picquart, Ufficiale dell’Esercito francese, che commenta con una battuta antisemita. È con questa scena che Roman Polanski sceglie di aprire il suo grande affresco storico. Dreyfus viene spogliato di tutte le sue decorazioni, umiliato pubblicamente e spedito in esilio nella Guyana francese, sulla sperduta Isola del Diavolo. Caso chiuso, almeno fino a quando Georges Picquart non viene promosso a Capo della Sezione di statistica, la stessa unità di controspionaggio che aveva montato maldestramente le accuse contro Dreyfus. È Picquart, infatti, a capire che qualcosa sulla colpevolezza di Dreyfus non tornava. Decide così di indagare. Le sue ricerche lo portano presto a scoprire che il vero autore del famigerato bordereau è il Maggiore Ferdinand Walsin Esterhazy. Tenta di far riaprire il processo per scagionare Dreyfus ma incontra subito la ferma opposizione dei suoi superiori: ammettere di aver commesso un grossolano errore avrebbe gettato ombre sull’Esercito e su tutto il Governo, quindi meglio sacrificare un ebreo e seppellire la verità. Picquart non ci sta. Pur nutrendo convinzioni antisemite ha a cuore il principio etico della Giustizia, e non vuole riconoscersi in un Esercito senza valori. Pagherà a caro prezzo la sua insubordinazione. Verrà allontanato da Parigi e spedito a svolgere mansioni in paesi lontani, addirittura in Africa. Rientrato in patria però decide di passare all’azione. Con l’aiuto dell’amico avvocato Fernand Labori raduna un comitato per la riabilitazione di Dreyfus e coinvolge diversi intellettuali (tra cui Zola). Per far riaprire il processo occorreva un pubblico scandalo.

Ad accendere la miccia, come si è detto, è la tagliente filippica di Zola, che fa nomi e cognomi dei responsabili intoccabili. Eccone un breve estratto: «… Il mio dovere è di parlare, non voglio essere complice. Le mie notti sarebbero abitate dallo spirito dell’uomo innocente che espia laggiù nella più spaventosa delle torture un crimine che non ha commesso. Ed è a Voi, signor Presidente, che io griderò questa verità, con tutta la forza della mia rivolta di uomo onesto.» Per il suo J’Accuse Zola subì la condanna a un anno di carcere e a tremila franchi di ammenda; sarà lo scrittore e giornalista Octave Mirbeau (acceso sostenitore di Dreyfus, non citato nel film) a pagare la somma e tutte le spese processuali. L’opinione pubblica si infiamma. Dreyfus viene rimpatriato per il secondo processo e tutta la Francia si divide tra innocentisti e colpevolisti. Picquart riesce a dimostrare davanti alla Corte che nel primo processo le prove furono esaminate con sommario pregiudizio. La verità è sotto gli occhi di tutti, ma è una verità scomoda. Nei giorni tesi del processo l’avvocato Labori viene assassinato. Tutto alla fine si risolve in una commutazione della pena in soli dieci anni di reclusione. Più che un verdetto è una farsa grottesca. Nel 1899 arriva la grazia. Picquart cerca di convincere Dreyfus a non accettarla e a continuare a battersi per veder riconosciuta pienamente e con trasparenza la sua innocenza, ma questi, per star vicino alla famiglia, accetta. La piena assoluzione arriverà solo sette anni dopo, con conseguente reintegrazione nell’esercito.

È nell’epilogo che il film di Polanski si fa sottilmente potente. Siamo nel 1907, e Picquart ricopre il ruolo di Ministro della Guerra. Dreyfus gli chiede udienza. Esige quello che gli spetta, ovvero la promozione a tenente colonnello (gli anni di ingiusta reclusione non gli sono stati conteggiati). Picquart non può accontentarlo, dovrebbe cambiare una legge per poterlo fare e sceglie deliberatamente di non intervenire. Dreyfus subisce dunque un’ingiustizia da quello che è stato il suo salvatore. Poggia qui il messaggio sottile e tagliente del film. Al di là dello specifico fatto storico e della profonda riflessione sull’antisemitismo, Polanski ha inteso mostrare quanto il Potere (in tutte le sue accezioni) sia in grado di ordire falsificazioni e distorsioni; molti hanno voluto leggerci un’analogia con le recenti vicende processuali del regista (l’innocenza di Dreyfus come riflesso di quella di Polanski).

Tratto dall’omonimo romanzo di Robert Harris (2013), co-sceneggiatore del film insieme a Polanski, J’Accuse si offre come affresco storico di rara e sobria eleganza. Le musiche di Alexandre Desplat ben si fondono alle atmosfere cupe, disadorne, essenziali chiamate a descrivere il declinare dell’Ottocento. Nel 1895, quando Dreyfus riceveva la sua pubblica condanna nel cortile dell’École Militaire, i fratelli Lumière davano vita al cinema. Un cinema che Polanski celebra omaggiando dichiaratamente Hitchcock comparendo in un piccolo cameo con vistosi baffi asburgici.

Massimiliano Sardina


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