di Massimiliano Sardina
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 41 | inverno 2019-’20
La desolazione di una piccola stazione alle dieci di mattina di una giornata come tante, forse una domenica. A dispetto dell’aria fresca e luminosa, un che di sonnacchioso aleggia ancora tra le banchine deserte e i binari silenziosi. L’atmosfera non è quella fumosa e rarefatta della Gare Saint-Lazare dipinta da Monet nel 1877, ma piuttosto quella di un quadretto vagamente metafisico, qua e là rischiarato da vivide folate impressioniste. «Il tempo era sereno, un sole chiaro faceva brillare le erbe sotto un boschetto di olivi che, tra ombre già taglienti, scalava a terrazzi il fianco della montagna…» Il narratore, accompagnato da un piccolo gruppo di amici, attende la partenza della funicolare per salire alla T…, destinazione prescelta per un tranquillo jour de congé. Dopo dieci minuti di attesa alcuni passeggeri cominciano a spazientirsi. Ci si aspetterebbe di veder emergere da un momento all’altro la figura indaffarata di un ferroviere, o quantomeno quella del capotreno. Ma nulla. Non un’anima viva all’infuori dei passeggeri, vieppiù impazienti, seduti nella vettura.
Mirbeau, nello spazio ristretto di quattro righe di testo, mette efficacemente in risalto il contrasto straniante tra la staticità diffusa che preme sulla scena e la dinamicità trattenuta del grande mezzo di locomozione; sospeso nell’immobilità, – «con la sua macchina tozza e bizzarra che sembrava una protesta contro le leggi dell’equilibrio, una macchina come ne appaiono alle volte negli incubi dei febbricitanti» – anche il treno è chiamato a subire il prolungarsi dell’attesa. Trascorrono altri minuti, poi finalmente dal piccolo edificio della stazione fuoriescono due impiegati. Uno dei viaggiatori coglie l’occasione di manifestare il disappunto per l’ingiustificato ritardo: «Si parte o non si parte?… Che cosa si fa qui?» Dai due impiegati però nessuna reazione. Flemmatici, silenziosi, le mani dietro la schiena, non sembrano avere altra preoccupazione che quella di passeggiare oziosamente lungo la via ferrata. Indispettito, l’aspirante viaggiatore incalza «allungando la testa furiosa fuori del finestrino». Con sfacciata noncuranza, obbedendo più a un riflesso passivo che a una doverosa convenzione civile, gli interpellati si limitano a rispondere: «Non siamo di qui, noialtri… Siamo delle Ferrovie dello Stato, noi…» Una distinzione non da poco, evidentemente. Sottintende, a scanso d’equivoci, che c’è convoglio e convoglio: quello tradizionale (che ha il buonsenso di muoversi in orizzontale) e quell’impronunciabile diavoleria della modernità – «Una furinculare!… Una furuncolare!…» – che ha l’ardire nientemeno di arrampicarsi «sull’erta brusca e ripida della montagna.» Viene da domandarsi cosa ci facciano allora lì i due impiegati.
Nessun mistero, ci informa subito Mirbeau. Nulla. Non fanno assolutamente nulla (attitudine riconducibile a molti esemplari mirbelliani, un esercito di figurine senz’arte né parte, infinitamente sovrapponibili). Si trovano lì, ma potrebbero trovarsi in qualsiasi altro luogo. Non interagiscono con ciò che è intorno e, se si relazionano, non vanno al di là di un semplice scambio di battute circostanziali. Un autentico dialogo – con un sé o con un altro da sé – è eluso a priori. L’ozio è cronico, riflette un disinteresse generalizzato verso l’esperienza profonda della vita. Accidiosi per automatismo, i due impiegati incarnano quella moltitudine trascurabile che fa numero per addizione senza nulla aggiungere: la pericolosa invisibile stirpe della medietà che Mirbeau rifiuta e condanna in ogni rigo della sua produzione letteraria. Nello specifico i due impiegati dichiarano di essere “in vacanza”, – come se questo bastasse in sé a giustificarne l’atteggiamento di imperturbabile sufficienza – in vacanza, ovvero liberi, almeno per quel giorno, da incombenze strettamente lavorative. «Ma! guardiamo, toh!… Siamo in vacanza… Ci veniamo a istruire un poco, non è vero?» Il breve scambio verbale con i passeggeri della funicolare produce in loro solo una flebile interferenza. «I due impiegati ripresero la loro passeggiata che il colloquio aveva interrotta. Osservarono i binari… gli scompartimenti di ferro dove andavano a mordere i denti della catena e la via stretta che fuori della stazione s’arrampica sull’erta brusca e ripida della montagna. Non dicevano nulla, non si comunicavano nessuna delle loro riflessioni che pertanto, a giudicare dalle fisionomie severe e dal solco sulle fronti, dovevano essere molto laboriose… Di tanto in tanto, per meglio esprimere il loro stupore o per dare a credere che potessero stupirsi di qualche cosa, si lasciavano sfuggire» ora un «Ma guarda!…» ora un «Toh!…», null’altro all’infuori di vuote esclamazioni di tiepido stupore misto a diffidenza. È il nuovo mezzo – l’avveniristica funicolare – a generare nei due impiegati quella malcelata circospezione. Guardano la macchina con sospetto, mantenendosi a debita distanza, quasi costituisse una reale minaccia. «…Una furincolare? Guarda un po’! (…) Dove mai saranno andati a pescarla? (…) In ogni modo non è come le altre ferrovie (…) A me non mi riesce di capire come questa possa arrampicarsi così… (…) Eppure si arrampica… Vedrai quando parte…» Si scambiano le loro vuote impressioni, perfettamente speculari, come se a parlare fosse solo uno dei due. «Sono contento di vedere…» e l’altro «Abbiamo fatto bene a venir qui.» A stimolarli non è una sana curiosità o un legittimo senso di meraviglia, ma unicamente un’intrinseca diffidenza, qualcosa che oscilla tra l’irritazione e l’apprensione. Sotto sotto a muoverli è solo l’indifferenza, l’incapacità cronica di elaborare alcunché. «E tu hai detto che questa si chiama… una furinculare?»
Tutto ciò che devia dalla loro routine appartiene all’impronunciabile: il pensiero orizzontale procede su un piatto rettilineo e non tollera inclinazioni o verticalità. Quello non è il loro treno. Non ne ha il rassicurante eterno andirivieni. È un treno che sale, che si snoda, che si inerpica. Un treno che punta dritto nel cuore luminoso della temibile montagna. «In ogni modo, non è come le altre ferrovie…» D’altra parte, come dargli torto. La funicolare, com’è noto, è una modalità di trasporto terrestre “a guida vincolata” che, come suggerisce la parola stessa, utilizza una fune come organo di trazione. Si muove su uno o più tracciati costituiti da speciali guide o da classici binari. La maggior parte degli impianti vennero installati allo scopo di superare sensibili dislivelli, specie in territori montuosi. Conobbe una graduale diffusione lungo tutto il XIX secolo, perfezionandosi via via sul versante tecnico, ma le sue origini sono molto più antiche e risalgono addirittura al tardo Medioevo.
Anche nella Francia di Mirbeau le funicolari segnarono precocemente una significativa svolta sia per il trasporto merci che per quello passeggeri. Risale al 1833 l’apertura dei “piani inclinati” della funicolare di Biesse, Neulise e Buis nel dipartimento francese della Loira (primo impianto nell’Europa continentale utilizzato per il trasporto pubblico di passeggeri); del 1862 è l’apertura della funicolare urbana di Rue Terme alla Croix-Rousse a Lione (prima funicolare con freni a frizione che agiscono direttamente sulla pista di corsa). Sempre a Lione vennero poi inaugurate le celebri linee Saint-Jean – Saint-Just (1878), Croix-Paquet – Croix-Rousse (1891), Saint-Paul – Fourvière (1900) e Saint-Jean – Fourvière (1900). A cavallo tra ‘800 e ‘900, per quanto abbastanza diffuse, le funicolari erano ancora percepite come mezzo di trasporto nuovo, appannaggio di una modernità in fieri.
«Dopo essersi grattati la nuca, ripresero a camminare col passo pesante e dinoccolato, senza rivolgersi più la parola. Camminavano l’uno accanto all’altro, con le braccia ciondoloni, la testa china… E non guardavano più le rotaie… né la catena, la china ripida, il cielo turchino sopra di loro… né la montagna davanti, tutta fiorita d’euforbie e di maggiorana… né il boschetto di olivi del quale una lieve brezza faceva dolcemente fremere e arricciare, in un grazioso movimento aereo, il fogliame argentato… Essi non dicevano nulla… né guardavano, né vedevano nulla…» Alla perplessità manifestata al cospetto della «macchina tozza e bizzarra» si accompagna la pressoché totale indifferenza verso la bellezza del paesaggio. I due impiegati non hanno occhi né per guardare, né per rimirare quel grande affresco impressionista che, dall’alto, si spalanca sul grigio plastico della piccola stazione. «Continuarono a camminare con lo stesso passo lento e pesante, senza pensare a nulla, tranne certamente che era giorno di festa… che si divertivano… e che si sarebbero divertiti così… per tutta la lunga giornata di riposo e di gioia…» A muoverli non è una reale spensieratezza, ma l’assenza stessa di pensieri. Consapevoli solo d’esser legalmente affrancati per quel giorno dalla mansione impiegatizia, i due si godono a modo loro quel tranquillo jour de congé.
Due forze distinte governano la scena: da un lato l’urgenza di salire (di elevarsi, di sganciarsi dal suolo, di andare a scoprire cosa c’è oltre), dall’altro la compiaciuta incapacità di deviare dalle traiettorie ordinarie; lo slancio ascendente dei passeggeri (ovvero del narratore e dei suoi accompagnatori) fa da contraltare all’oziosità statica dei due impiegati. Quando la funicolare finalmente parte – fischiando, sbuffando e «lamentandosi con una tosse roca di malato di petto» – tutto si scinde definitivamente. Nel volgere di pochi istanti il pesante corpo metallico del convoglio si congeda dall’orizzontalità e prende a inerpicarsi sulla sua traiettoria obliqua. «I due impiegati lo seguirono con occhio spento.» Anche qui nessuna reazione, nessun pensiero. Niente di niente. A manifestarsi ora è il narratore, che dall’alto contempla il quadretto miserabile con le due figurine ferme sulla banchina. «Dopo qualche minuto mi affacciai allo sportello e guardai indietro verso la stazione che avevamo appena lasciato. I due impiegati erano laggiù immobili, allo stesso posto e guardavano salire la macchina.»
È la distanza a rivelarli, impietosamente, per quel che sono: due macchiette nere nel grande paesaggio irrorato di luce. Al rientro, in serata, li ritrova ancora lì, esattamente dove li aveva lasciati, «al loro posto, le braccia più ciondolanti, le reni più curve, la fisionomia più inespressiva…», ma decisi a consumare fino in fondo quel meritato jour de congé. Vaghi, demotivati, agiti solo da transitori smarrimenti, prendono ora a domandarsi: «Che facciamo? (…) Dove andiamo ora?» Se la stazione della funicolare non stesse per chiudere sarebbero pure rimasti lì. «Certo, cercarono a lungo, nella mente, dei luoghi meravigliosi… dei giardini lussureggianti… dei piaceri… e non trovarono nulla.» Di rincasare poi, non se ne parlava proprio. Sprecare così un jour de congé? «…Ci vuole un sito dove divertirsi! (…) Se si andasse a fare un giretto alla stazione… alla nostra stazione (…) Quella è una ferrovia… una ferrovia vera…» Fagocitati dall’ingranaggio impiegatizio, i due trovano requie e reale evasione solo rimanendone all’interno.
Nella sua attività militante di scrittore-disincantato e giornalista-fustigatore Mirbeau ha indagato e denunciato instancabilmente il cancro sociale di questo piattume (emotivo, morale, civile, identitario); per quel che concerne lo specifico dei Contes cruels si vedano solo i personaggi di Monsieur Isidore Buche in La prima emozione, o Fleury e Gaudon in Due amici s’amavano. Eccoli dunque ritornare da dove sono venuti. Due esistenze mancate. Pura catatonia. «E si allontanarono con un passo ritornato più lesto, più franco… come se andassero… finalmente… verso la felicità…»
Nel paesaggio impressionista che fa da sfondo al dispiegarsi della vicenda, Mirbeau (scrittore-pittore) traccia e contrappone linee orizzontali e verticali, vere e proprie funi che ora legano e ora trainano: c’è chi resta e chi parte; chi sprofonda e chi ascende.
Massimiliano Sardina
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 41 | inverno 2019-’20
Copyright 2019 © Amedit – Tutti i diritti riservati
RICHIEDI COPIA CARTACEA DELLA RIVISTA
LEGGI ALTRO SU:
STUDI MIRBELLIANI ITALIA