di Sandro Bianchi
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 40 | autunno 2019
Cosa si è disposti a fare pur di lavorare? Fin dove ci si può spingere pur di vedere la propria firma in calce su un contratto? Fino a che stadio di degradazione il denaro può rendere servo l’uomo? È un vero e proprio patto col diavolo quello che il protagonista de Il miracolo di respirare si ritrova a stringere coi suoi misteriosi datori di lavoro. Guadagnerà somme ingenti, ma pagherà a caro prezzo ogni spicciolo accumulato. In questo romanzo, kafkiano all’ennesima potenza, lo scrittore greco Dimitris Sotakis fotografa con impietosa lucidità lo smarrimento dell’uomo contemporaneo fagocitato dalla crisi economica.
Uscito in Grecia nel 2009, ma tradotto solo ora in italiano (da Maurizio De Rosa per le edizioni Del Vecchio), allude al più recente collasso finanziario greco e, in un respiro più generale, si offre come una riflessione (amara, disincantata) sull’impoverimento economico e morale di un’intera Europa. Ogni riferimento è dunque al tempo stesso circostanziato e atemporale. Il binomio lavoro-denaro delinea i contorni di uno specchio dove il disoccupato – l’aspirante lavoratore – vede riflettersi tutte le sue aspettative: una bella casa, una bella famiglia, un tenore di vita soddisfacente. Lo stato di necessità, in tempi dove di lavoro non ce n’è, lo rende vulnerabile, quindi soggiogabile. È proprio quello che accade al protagonista. Sotakis non gli assegna né un nome né un cognome, preannunciando già a priori quel processo di spersonalizzazione e annullamento di sé che farà da leitmotiv all’intera vicenda. Il protagonista è semplicemente un disoccupato che risponde a un’inserzione di lavoro. Si reca nella sede indicata nell’annuncio e, come da prassi, affronta un colloquio. Si tratta di un lavoro semplice e molto ben remunerato. Il responsabile dell’Istituto taglia corto: lui non dovrà fare altro che ricevere in consegna dei mobili a casa sua. Punto. A ogni consegna riceverà del denaro. Tanto denaro. La proposta è bizzarra, ma l’Istituto si presenta come un’azienda seria e affidabile. Il protagonista tentenna ma alla fine, ben consapevole di non avere altre opportunità, accetta.
Prima consegna: un armadio. «I soldi le sono stati versati sul conto»: i facchini ripeteranno questa frase al termine di ogni consegna. Il protagonista corre in banca a verificare e scopre che è vero, il denaro c’è, e tanto. Seconda consegna: un tavolo. «I soldi le sono stati versati sul conto» …e via così, mobili su mobili, fino a quando il piccolo appartamento comincia ad assomigliare a un magazzino. Lo spazio vitale del protagonista si restringe progressivamente. Manifesta il suo disagio ma i responsabili dell’Istituto lo rincuorano: «…La nostra è una vera e propria missione (…) Sono anni che lavoriamo in nome dell’obiettivo supremo (…) Quello di mantenere vivi i vostri sogni (…) Noi siamo il suo rifugio… Noi le vogliamo bene…» Così, decide di sopportare a oltranza. In fondo, era «pur sempre un lavoro». Con i soldi accumulati sposerà la sua compagna e potrà permettersi una casa signorile. «…Prima che fossi assunto, la mia vita era un completo fallimento, un coacervo di frustrazioni e desideri irrealizzati, un disastro completo. L’Istituto assieme al lavoro mi aveva offerto anche il diritto alla speranza, mi aveva aiutato a sottrarmi alla povertà e alla miseria di un’esistenza ridotta allo stato larvale.»
Consegna dopo consegna il protagonista si ritrova imprigionato nella sua stessa casa. Un anno, doveva resistere solo un anno, poi finalmente sarebbe stato libero. «Ero circondato da una massa di mobili, di oggetti e di suppellettili che ormai mi era persino impossibile distinguere. Intorno a me si ergeva una muraglia fatta di un materiale indefinibile, una massa minacciosa di mostri silenziosi, simili a sentinelle che mi tenevano continuamente d’occhio. Sentivo la minaccia sospesa sul mio corpo disgraziato, non mi restava altro che attendere la scadenza di quell’accordo perverso che io stesso avevo firmato, stringevo i denti e portavo pazienza.» Una clausola del contratto l’obbligava ora a restare immobile. Doveva tener duro perché ormai l’anno stava volgendo al termine. Confinato in un angolo della sua camera da letto il protagonista comincia a percepirsi come parte della catasta. «Ero ostaggio di un’infermità conclamata che mi si era subdolamente annidata nei precordi. Il veleno mi si era già diffuso in tutto il corpo e non c’era antidoto al mondo capace di neutralizzarlo.» Mobili e oggetti riempiono lo spazio, lo negano. Dalle finestre non filtra più la luce. Il caldo è soffocante. Il protagonista protesta, ma i responsabili gli ricordano sempre che ha firmato un contratto. Ogni sua reazione, ogni suo movimento, ogni sua parola vengono annotati scrupolosamente dai suoi aguzzini.
«Lo sgabello fu il colpo di grazia.» Ora non riesce più a muoversi, cristallizzato in uno «stato di immobilità coatta» e in uno «stato di inebetimento», schiacciato dalla «sovranità del nulla». Un comodino sulla pancia e una scatola sulla testa lo mimetizzano definitivamente. «Il mio essere obbediva in modo totale a quella indesiderata narcosi fisica, il mio corpo si andava trasformando a poco a poco in qualcosa di estraneo, di inerte, in un pezzo di legno.» Un pappagallo per urinare e un piccolo foro sulla scatola per nutrirsi. Poi arriva l’ovatta a imbottire la scatola. L’isolamento lo rende intellettualmente consapevole di esser ormai divenuto «un osservatore terrorizzato della mia stessa decomposizione.» Finito il martirio avrebbe realizzato tutti i suoi sogni. Questione di poco, «…avevo il dovere di mostrarmi all’altezza delle mie responsabilità». Prova alla fine un’insopprimibile senso di gratitudine verso l’Istituto perché, tutto sommato, gli consente ancora di respirare.
Sotakis riesce a veicolare una riflessione sull’alienazione contemporanea (tanto cruda quanto complessa) attraverso un linguaggio dialogale, semplificato, a tratti fumettistico.
Sandro Bianchi
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 40 | autunno 2019
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