di Giuseppe Maggiore
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 40 | autunno 2019
Non tutte le crisi vengono a nuocere. Alcune rivelano semplicemente quel che si sapeva da tempo. Ci sono guasti a lungo taciuti, colpevolmente ignorati e dissimulati, celati e tenuti a bada con ogni cura, per i quali ben venga la crisi a scoperchiare il vaso di Pandora. Potrebbe, questa, costituire un banco di prova intorno al quale tornare a discutere, confrontarsi e, perché no, anche scontrarsi, se necessario, su quanto fino a quel momento si dava per scontato o stabilito una volta per tutte.
La crisi della famiglia viene da più parti fatta risalire a una più generale crisi dei valori, dando il più delle volte per scontato che quella famiglia e quei valori a cui ci si riferisca siano da sempre e per sempre degli assoluti condivisi e condivisibili da tutti. Se è chiaro che ci si riferisca alla famiglia cosiddetta “tradizionale”, sancita dal matrimonio e costituita da padre-madre-prole, come l’unica degna di essere definita tale, meno chiaro è capire a quali valori si faccia riferimento, giacché qui i discorsi si fanno più aleatori, risolvendosi nell’ovvietà, in un sottinteso che sembra non richiedere ulteriore approfondimento. Questo perché quei “valori” genericamente evocati e mai concretamente enunciati, sarebbero, proprio in misura di questa loro vaghezza, talmente assoluti e universali da ritenerli scontati e esenti da ogni messa in discussione. Invece è proprio sugli aspetti sostanziali e qualitativi di questi valori, che bisognerebbe soffermarsi e aprire un serio dibattito. Il punto non è “quale famiglia” ma “quali valori” meritino, all’interno di uno Stato di diritto, tutela e legittimo riconoscimento. E in questa cornice andrebbero inserite e discusse anche tutte quelle altre formazioni sociali – mono o ambosessi, con o senza prole – molto superficialmente e sprezzantemente liquidate come “altra cosa” rispetto a quell’unica accezione di famiglia che ci si ostina a voler preservare.
Lo psichiatra e sessuologo Mattia Morretta, nel suo recente libro Questo matrimonio non s’ha da fare (Gruppo Editoriale Viator), interviene sul tema delle unioni omosessuali e della correlata questione del diritto alla genitorialità (attraverso adozioni e gestazione per altri), definendoli “epifenomeni di processi sostanziali” alla cui base starebbe: «la crisi delle identità di genere, dei rapporti tra i sessi, della funzione materna e paterna, finanche dei legami interpersonali.» Leggendo il libro è chiara la connotazione negativa che Morretta dà a questa crisi, non intravedendo in essa nessuna potenziale ripercussione positiva che vada verso una ridefinizione di ruoli da troppo tempo ingessati entro i rigidi dettami della cultura sessista. Né tantomeno traspare alcuna presa in considerazione del fatto che l’unione tra due persone – etero o omosessuali – possa prescindere da un mero fine procreativo o da malcelati istinti narcisistici ed egoistici. Se da una parte, alternando un occhio all’oggi e uno al passato, fa una disamina alquanto spietata delle dinamiche sottese al sodalizio eterosessuale, dall’altra il suo giudizio complessivo, al di là di tutte le lucide e puntuali critiche, sembra risolversi più verso una sostanziale preservazione dello status quo. Pur rilevando che la famiglia, in quanto «istituzione storica che più sintetizza il concordato civile tra uomo e donna, in termini di riconoscimento dell’altro sesso e di collaborazione nella generazione e nell’allevamento dei figli, è da tempo abbandonata all’autogestione da parte dei sempre più limitati contraenti.», e identificandone la decadenza in quel «modello di coppia paritaria, espressione del momento presente anche quando procreativa», non sembra infatti proporre o anche solo concepire altre possibili formulazioni familiari che vadano al di là del vecchio simulacro della famiglia tradizionale. Anzi, accusa chi sul fronte LGBT rivendica il riconoscimento egualitario delle unioni tra persone dello stesso sesso, di stare in qualche modo tentando di scimmiottare o simulare lo stesso copione, «indossando la maschera di coniuge o di padre e madre».
In un procedere smantellante, che non risparmia colpi né all’una né all’altra parte dei contendenti, è in primo luogo sui diritti dei minori che Morretta pone l’accento, su quei bambini rivendicati e in un modo o nell’altro strumentalizzati «… portati al guinzaglio nelle manifestazioni di ogni bandiera, dal family day all’arcobaleno gay…»; su quei figli che gemmano dal vuoto relazionale di coppie instabili, esibiti come trofei e fatti oggetto di propaganda da individui immaturi e inadeguati a saper fornire loro un sano e strutturato progetto educativo. Secondo l’opinione di Morretta, qualunque bandiera sventoli, la famiglia – come luogo di coercizione, di manipolazione, di proiezioni narcisistiche e di ogni sorta di abuso – «è in larga misura uno dei peggiori ambienti in cui crescere». In quest’ottica, appunto, non si salva nessuno di tutti coloro che partono dall’errata interpretazione di una genitorialità che dovrebbe riguardare innanzitutto i diritti del minore che non quelli dell’adulto. Ma le cose si complicano nel momento in cui: «Non bastano i disastri famigliari dei “normali”, servono quelli addizionali dei “diversi” per par condicio.» Inaspettatamente Morretta si scaglia quindi anche contro quegli omosessuali “minori” (o minorati, ndr) che vorrebbero «vedersi ammessi al mondo dei grandi mediante la fruizione dell’accoppiamento formale e della riproduzione», ritenendo che dietro la “spudoratezza” di queste rivendicazioni altro non vi sia che un forte sentimento di rivalsa da quell’onta di indesiderabilità e colpa troppo a lungo subita. Questi «aspiranti alla paternità-maternità gaia» stanno sostanzialmente aderendo e uniformandosi allo stesso modello normativo che è proprio della cultura eterosessuale, replicandone tutti i vizi e le storture di fondo: «Nella furia emancipatoria si vogliono fare gli errori dei cattivi esempi di ieri».
Con un implacabile pessimismo che non lascia possibilità di redenzione a nessuno, le critiche che Morretta muove alla famiglia di vecchio conio intendono mettere in guardia dal rischio dei suoi nuovi cloni, da quella finta emancipazione che, sotto la parvenza del nuovo, reitera gli stessi meccanismi di quella cultura che si intende sconfiggere e superare. Preoccupazioni condivisibili, le sue. Punti di vista che non necessariamente debbano procedere per “vie parallele”, ma che potrebbero in qualche modo incontrarsi, dialogare, tentare di rintracciare dei punti in comune sui quali costruire un’idea di società diversa. Potremmo aspirare a culle meno affollate, magari smettendo di usarle come collanti o diplomi di relazioni insussistenti; potremmo avere culle meno invase da giochi tacitanti, assumendo il pieno onere del crescere un figlio; potremmo aspirare a riempire prima il nostro vuoto, anziché addizionarlo a un altro vuoto e generarne un terzo. Tutte queste auspicabili aspirazioni sembrano collimare con le idee di Mattia Morretta, e perciò, per quanto estremo possa sembrare, non possiamo non condividere il suo discorso. I conti però non tornano quando lo stesso Morretta mostra di aderire a quella campagna di disinformazione condotta in malafede da gruppi di fondamentalisti cattolici, contro una presunta “Teoria gender” che sarebbe stata messa in atto da oscure lobby gay. Pur non nominandola espressamente è a essa che fa riferimento quando scrive: «Desta pertanto sconcerto che si reclamino versioni lgbt delle fiabe e dei cartoni animati, prendendo principesse lesbiche e principi gay per rimediare a una “intollerabile discriminazione” (…) Non c’è alcun bisogno di riscrivere le trame delle narrazioni popolari e delle favole, è sintomo di follia irrazionale esigerne la declinazione politicamente corretta (…)»
Per rispondere a queste obiezioni basterebbe far notare come tutto l’immaginario affettivo-relazionale venga oggi pilotato esclusivamente in chiave etero-diretta fin dalla più tenera età, divenendo a tutti gli effetti un meccanismo etero-indotto. È tutto un bicromatismo rosa-azzurro che non ammette altre sfumature il messaggio che promana dai media, dagli spot pubblicitari, dal business attorno ai bebè, nei giocattoli come nell’abbigliamento e finanche nei comportamenti e nelle posture da assumere; tutto saldamente ancorato a una rigida bipartizione sessista, che celebra abbondantemente la coppia eterosessuale come l’unica possibile nell’orizzonte affettivo-relazionale. E questo rigido schematismo maschio-femmina, questa esclusiva induzione all’eterosessualità, vengono non solo propagandati, ma esercitati senza scrupolo alcuno, su esseri ancora di là dal raggiungere una loro maturazione sessuale. Lo dimostrano i fiocchi per lui e per lei che annunciano la nascita, in pendant con tutti i successivi giochi e accessori che li accompagneranno per il resto della loro vita. Questo per rispondere anche quando Morretta afferma che «la psicologia e il livello cognitivo del minore sino alla pubertà non sono sensibili e interessati ad aspetti di erotismo e sentimentalità propri del periodo successivo, è quindi una forzatura imporre la visione adulta della sessualità.»
Riguardo alle riletture in chiave omo-lesbo a cui si oppone Morretta, val la pena ricordare come questa manipolazione sia stata agita in primo luogo proprio dalla cultura eterosessuale nel suo progressivo sostituirsi alla cultura omosociale dell’antichità; un’opera di epurazione che a partire dal XII secolo ha inteso cancellare, sostituire, risemantizzare ogni richiamo al sentimento omofilo, tanto preferito e celebrato nelle società del passato, a favore di un amor cortese prototipo delle moderne coppiette che si atteggiano a principi e principesse. Louis-Georges Tin ne L’invenzione della cultura eterosessuale (:duepunti edizioni, 2010), citando molti esempi letterari e della cultura popolare, mostra efficacemente questo mutamento di paradigma. Lo storico John Boswell ricorda come la coppia uomo-donna e il culto dell’amore eterosessuale, tanto celebrati oggigiorno, non siano affatto degli universali nell’ambito dell’antropologia culturale, mostrando quanto irrilevanti fossero in molte civiltà e società del passato. Al di là della sua fondamentale funzione procreativa, l’eterosessualità, come fatto culturale, è storia piuttosto recente che nasce sulla falsariga di quella cultura omosociale, un tempo tanto incoraggiata e benvoluta sia dal potere civile sia da quello religioso. Come scrive Elena De Santis a proposito dei “Gender Studies”: «Questi studi, tanto ingiustamente vilipesi, non si sognano minimamente di smentire l’oggettiva distinzione biologica tra maschio e femmina ma, partendo dalla sacrosanta parità e dignità dei sessi, cercano scientemente di dimostrare come i ruoli che le società hanno nel tempo concepito attorno ai due sessi siano in realtà soltanto una complessa costruzione di natura prettamente culturale, e che in quanto tale, questa definizione di ruoli è destinata a trasformarsi e ad evolversi di pari passo all’evoluzione civile e culturale della società.» (in Il gender che non c’è, Amedit n° 24, 9.2015). Si tratta, in definitiva, di compiere quella rivoluzione epistemologica di cui parla Tin nel già citato libro, ovvero di «sottrarre l’eterosessualità all’”ordine della Natura” e farla entrare nell’”ordine del Tempo”, cioè nella Storia.» Se questi processi culturali e antropologici danno luogo a delle “crisi” o a delle “riscritture”, non è detto che queste debbano necessariamente avere un impatto distruttivo sul fronte dei valori, o più manipolatorio rispetto a quanto abbia già fatto il modello eterosessuale dominante.
Le contrapposizioni tra il partito “della famiglia” e quello “delle famiglie” sembrano avere un carattere di novità, come fossero segno dei tempi nuovi. Un semplice sguardo al passato mostrerebbe invece quanto vecchie siano queste questioni, e che a margine di quell’unico modello di famiglia istituzionalmente sancito e socialmente imposto, ci sia sempre stata, ovunque nelle diverse culture, la volontà da parte di uomini e donne di riformulare vincoli e relazioni in base alle proprie attitudini, aspirazioni, necessità, e non ultimo in armonia coi propri sentimenti. La storia ci mostra che ad essere posta sotto attacco, da parte dei poteri civili e religiosi di ieri e di oggi, è sempre e comunque l’autodeterminazione della persona, la facoltà che ciascun individuo dovrebbe possedere di poter decidere cosa fare della propria vita, e soprattutto di poter compiere scelte confacenti alla propria natura. Quali che siano le posizioni che si vogliano assumere in merito, e al di là d’ogni strumentalizzazione ideologica dell’una e dell’altra parte, non c’è nulla di moderno nelle cosiddette unioni civili tra persone dello stesso sesso; di nuovo semmai c’è soltanto una più consapevole e insistente spinta propulsiva a voler uscire allo scoperto, dopo millenni di clandestinità e di demonizzazione. Il percorso che ha sancito la legittimità e l’ufficialità di quell’unico modello familiare, svalorizzando e condannando all’invisibilità tutte le altre formazioni, è stato piuttosto lungo, accidentato e dagli esiti tutt’altro che scontati. La stessa Chiesa che oggi si erge a difesa della famiglia ne è stata nei secoli passati la maggiore denigratrice, in virtù di quella sua forte componente sessuofobica che le faceva prediligere e incoraggiare più il celibato e la castità. La codificazione e l’istituzionalizzazione del matrimonio, l’esclusiva finalità procreativa da cui viene fatto discendere il suo carattere di utilità sociale, si deve in gran parte a un’ingerenza ecclesiastica che molto abilmente ha saputo intromettersi tra i due amanti, riducendoli in semplici riproduttori della specie, sottraendo in loro il desiderio e il piacere dei sensi, fissandoli in una rigidità di ruoli che crea discrimine e inimicizia tra i due sessi, costringendoli infine, per mezzo di un contratto legato a doppio filo da leggi civili e divine, a un coito doveroso quanto meccanicistico e a una coabitazione forzata che ammettono ogni privato abuso e simulata complicità pubblica.
La letteratura è colma di queste unioni forzate e dei conseguenti disastri, mettendone a nudo tutta la sottesa ipocrisia: «Una famiglia è un’accolita di persone di età e di sesso diversi tese ad occultare rigorosamente imbarazzanti segreti comuni.» scrive Christa Wolf; «Gli affetti familiari si indossano solo in particolari occasioni.» scrive Karl Kraus; «Famiglie! Vi odio! Focolari chiusi; porte serrate; geloso possesso della felicità.» è lo sfogo lapidario di Andrè Gide. Un quadro insomma molto meno idilliaco di quello sublimato nel Cantico dei Cantici, nella raffigurazione presepiale della Sacra Famiglia, nei romanzetti rosa o negli spot di merendine che nessuna allegra famiglia inzupperà all’unisono seduta attorno alla stessa tavola. Quando il detto popolare afferma che il matrimonio sia la tomba dell’amore, sta dicendo quella che nella maggior parte dei casi è la nuda verità. Quella pietra tombale è lo scotto da pagare alla benedizione papale; la rivincita di chi, non potendosi permettere una sessualità pacificata e trasparente, né una famiglia tutta sua, pretende di dover gestire e legiferare sul letto e sulla famiglia altrui. Una tentazione, questa, che traspare anche in molti omosessuali più o meno velati, più o meno datati. A questo desolante scenario sembra oggi contrapporsi il quadretto “Lui&Lui”, “Lei&Lei”; coppie apparentemente più vincenti, perché combinazione di due esseri uguali sia nel sesso sia nella struttura dei sentimenti; uguaglianze o similitudini che li pongono al riparo da tutte quelle incomprensioni e conflittualità che invece riguardano il ben più complesso abbinamento Lui&Lei. Le coppie omosessuali sembrano insomma rispondere a quella perplessità espressa da Massimo Troisi nel film Pensavo fosse amore… invece era un calesse, quando dice: “Non è che sono contrario al matrimonio; però mi pare che un uomo ed una donna siano le persone meno adatte a sposarsi.”
Nel suo non risparmiare colpi a nessuna delle possibili formulazioni di coppia, Morretta finisce però col legittimarne soltanto una, ossia quella eterosessuale. Agli omosessuali, anziché argomentare di coppia, suggerisce una più preferibile condizione di “singletudine spirituale” che si avvicina all’ideale dell’amore platonico; «“sposalizi” dell’immaginario», «comunione di anime», «amicalità omofile» che si rifanno a quell’amicizia virile dei simposi greci, che ancora aveva caratterizzato l’omosocialità feudale degli amori cavallereschi, ossia un’amicizia in cui la componente omosessuale dell’essere umano «è meglio rappresentata nelle schiere fraterne e sororali», ancor meglio se «agevolando il transito verso la produzione artistica, tanto frequente in correlazione con la tendenza omofila». In breve, quella di Morretta è una visione idealizzante e generalizzante dell’omosessualità, in virtù della quale indica ai gay la via del celibato, una sorta di monachesimo al servizio del prossimo, in cui figurano “zii e zie” che si prendono cura della prole degli etero o, molto più banalmente, dell’acconciatura della sposa e dell’addobbo in chiesa per nozze che loro non potranno mai celebrare. In fin dei conti questo è esattamente ciò che la Chiesa dice e invita a fare.
Giuseppe Maggiore
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