AMABILI RESTI | Judy Garland, la calata agli inferi di una diva bambina

di Paolo Schmidlin

Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 40 | autunno 2019

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La Buona Strega del Nord si avvicinò a Dorothy e la baciò lieve sulla fronte. Poi disse:
«La strada per giungere alla Città di Smeraldo è lastricata di pietre gialle.

Seguila e non ti smarrirai».
Poi girò per tre volte sul tallone sinistro e scomparve.

 

Nel favoloso film per ragazzi Il mago di Oz la piccola Dorothy cerca la felicità percorrendo “la strada di pietre gialle” indicata dalla strega e, vincendo tutti i pericoli disseminati sul suo percorso, riesce alfine a raggiungerla.

Ma le cose non andarono nello stesso modo per colei che interpretò quella ragazzina avventurosa che viaggiava in un mondo fantastico; anzi, la storia di Judy Garland – con Shirley Temple  la bambina prodigio più famosa del cinema – è una delle più strazianti. Catapultata non ancora adolescente nel luccicante carrozzone d’oro e cartone della Hollywood degli anni ’30, deve caricare le sue fragili spalle di un bagaglio di responsabilità e imposizioni dolorosissime per una ragazzina della sua età. Privata del gioco, derubata della spensieratezza dell’infanzia, il dolore comincia prestissimo a erodere la sua complessa e delicata personalità. Ombre funeste sono mimetizzate dai lampi abbaglianti dei flash e rese ingannevoli dallo splendore del recente Technicolor.

Judy – il cui vero nome era Francis Ethel Gumm – nasce il 10 giugno 1922 da genitori attori che si trasferiscono in California quando lei ha solo quattro anni. La madre Ethel Marion era una vera e propria arpia; la figlia stessa la descrisse in seguito, paragonandola proprio a un personaggio del Mago di Oz, come “l’incarnazione della strega malvagia dell’ovest”. Donna dura e ambiziosa, fu lei a creare per le figlie (Mary Jane, Dorothy e Frances) un trio canoro, le Gumm Sisters, nella speranza di lanciarle nel mondo dello spettacolo. La minore delle sorelle, la piccola Frances, comincia a cantare che non ha ancora tre anni. È  la madre stessa, senza alcuna remora, ad iniziare le figlie all’uso di droghe: pillole eccitanti per renderle vivaci e briose durante le audizioni, sonniferi alla sera per farle dormire. Nel ’34 la bambina viene notata dalla MGM – una delle più importanti case di produzione di Hollywood – che la mette sotto contratto col nome d’arte di Judy Garland. La ragazzina ha appena dodici anni ma è assuefatta all’uso di droghe da quando ne ha dieci. All’epoca era pratica diffusa somministrare stimolanti e narcotici agli attori bambini; un oscuro segreto abilmente celato dietro al luccichio del glamour hollywoodiano. Anche Elizabeth Taylor e Mickey Rooney subirono analoghi trattamenti.

Il suo esordio è nel 1936, accanto a Deanna Durbin nel film Every Sunday. Judy è deliziosa ed espressiva, ma soprattutto è dotata di una voce straordinaria; quando lei canta, il pubblico rimane rapito dal suo timbro particolarissimo, da quei toni che sanno spaziare dai più sorprendenti acuti a modulazioni profonde e malinconiche. La sua incantevole vivacità conquista tutti e viene presto affiancata al giovanissimo Rooney con il quale creerà una coppia adolescente tra le più fortunate della storia del cinema. Quando nel ‘38 la MGM non riesce a scritturare Shirley Temple, sotto contratto con la Twentieth Century Fox, per il ruolo di Dorothy ne Il Mago di Oz – una maestosa produzione con un budget di due milioni di dollari e la regia di Victor Fleming – la parte è affidata a Judy. È la sua grande occasione: con questo film coloratissimo, onirico, pieno di guizzi fantasiosi, arrivano la consacrazione definitiva e un successo mondiale. Ma l’altro lato della medaglia cela torbidi retroscena. Ad esempio gli allegri gnomi, i Munchinks, che nel film abitano il mondo di Oz, erano tutti interpretati da attori nani: un centinaio di uomini quarantenni che pensavano di potersi permettere qualsiasi cosa, protetti dal loro aspetto infantile e bonario. I “simpatici” nanetti erano in realtà individui sessualmente sfrenati, frequentatori di prostitute, spesso ubriachi. Durante la lavorazione del film molestarono pesantemente la protagonista adolescente, arrivando a infilarle le mani sotto le gonne. A queste molestie si aggiungono le pressioni cui viene costantemente sottoposta da parte dei dirigenti della MGM e del suo boss, Louis B. Mayer. Per far sì che Judy, ormai sedicenne, mantenga un’immagine virginale ed ingenua e affinché non perda le forme infantili, le viene fasciato il seno che si sta sviluppando e le vengono imposte diete rigidissime a base di brodo di pollo, potenziate dall’assunzione di farmaci come la Benzedrina e da un consumo massiccio di caffè e sigarette. È anche costretta a portare dischetti di gomma infilati nelle narici per dare al suo naso una forma più “a patatina”. Sono vere e proprie torture, imposte dagli Studios, a cui si aggiunge la metodica somministrazione di eccitanti e di anfetamine. Su tutto questo vigilano la madre – prepotente, fredda, spietata – e Luis B. Mayer che sadicamente mina la sua autostima (la chiama “quella bambina grassa” o – poiché Judy soffre di scoliosi – “la mia piccola gobba”).

Forse per cercare di sfuggire a queste pressioni sempre più snervanti e alla crescente tensione emotiva, la giovane attrice compie uno dei suoi rari atti di ribellione: nel 1941 fugge per sposare il compositore David Rose, maggiore di lei di dodici anni. A spingerla a questo colpo di testa è forse l’illusione di poter in qualche modo riappropriarsi della propria vita e di fare una scelta, per una volta, solamente sua. Rimane incinta quasi subito, ma a questo punto interviene perentoria la madre Ethel, spalleggiata dalla MGM che vede nella gravidanza un rischio per la sua carriera. Judy è costretta ad abortire e il matrimonio naufraga quattro anni dopo. Da qui è una disperata discesa nella tossicodipendenza, una strada cupa e senza ritorno. I successi cinematografici e la brillante carriera non riescono a compensare i vuoti interiori, le paure, lo smarrimento. È una donna fragile, tormentata, sfruttata fino all’osso dal sistema cinematografico che la tratta come una sua proprietà. Per placare il dolore, l’unico mezzo sono le pillole: pillole per affrontare la fatica di giornate lavorative estenuanti, pillole per riuscire a dormire la notte… È un meccanismo perverso, una catena impossibile da spezzare. A questo rituale, che si ripete identico ogni giorno, si va ad aggiungere un consumo smodato di alcool. La Garland attrice è una star acclamata che sforna un film dietro l’altro (Presenting Lily Mars, 1943, Meet me in St. Louis, 1944…) e su di lei restano sempre puntate le luci sfavillanti del palcoscenico; ma la donna, dietro alla facciata della diva, è sempre più piegata e “piagata”. Nel 1945 incontra il suo secondo marito, il regista Vincent Minnelli, che la aiuta ad affrancarsi dall’immagine di ragazza della porta accanto e a interpretare ruoli più complessi e maturi. Dalla loro unione, l’anno seguente nasce la figlia Liza, ma ormai nulla sembra riuscire a risollevare l’attrice dalla sua instabilità emotiva. Anzi proprio da Vincent le arriva una stoccata che la porterà al primo dei suoi numerosi tentativi di suicidio. Un giorno rientra a casa in anticipo e scopre il marito che si rotola nel loro letto con un giovane impiegato; lei si chiude in bagno e si recide i polsi con un oggetto tagliente. Minnelli la soccorre, strappandole l’arma dalle mani. Solo un paio di giorni dopo lei si presenta stoicamente sul set, pallida e con i polsi fasciati. L’episodio si ripeterà una seconda volta, quando il recidivo Vincent sarà colto in flagrante tra le braccia del giardiniere di casa. Del suo secondo marito, la Garland dirà in seguito: “È stato più innamorato di Gene Kelly che di me.”

Questi episodi riporteranno a galla il tormentato rapporto con l’amatissimo padre, Francis Gumm, un attore bisessuale e che durante i lunghi periodi di assenza della moglie, ferocemente impegnata nel promuovere la carriera delle figlie, alleviava la sua solitudine relazionandosi con ragazzi adolescenti. La morte del padre per meningite spinale, avvenuta quando lei era appena tredicenne, veniva ricordata da Judy come “la cosa più terribile che le fosse capitata”. Lei era appena stata messa sotto contratto dalla MGM e il padre, moribondo in ospedale, ascoltò da una radio che gli infermieri gli tenevano accanto all’orecchio il debutto radiofonico della figlia. Paradossalmente molte delle sofferenze nella vita di Judy Garland, che era idolatrata dagli omosessuali, furono causate proprio da unioni sbagliate con uomini gay.

Comunque il matrimonio con Minnelli è già agli sgoccioli quando lei conosce quello che sarà il suo terzo marito, Sid Luft. Si sposeranno nel 1951, appena ottenuto il divorzio.  Judy è una donna già molto provata e i suoi demoni oramai non la abbandonano più. Precocemente invecchiata – non ha ancora trent’anni ma appare gonfia e appesantita – e sempre più schiava di alcool e droghe. Nasconde i suoi vizi ovunque: le pillole nei pacchetti di sigarette, le bottiglie di vodka negli armadi tra gli abiti da sera. In preda a un feroce autolesionismo causato dalle droghe, è già passata attraverso vari tentativi di suicidio, dei quali il più cruento risale agli ultimi tempi del matrimonio con Vincent, quando si era tagliata la gola con un coccio di vetro. Nel 1950 viene licenziata dalla MGM che l’ha spremuta e sfruttata per quindici anni. È un periodo durissimo, in cui lei è allo sbando: “Se qualcuno ha cercato di salvare una donna che andava in pezzi, io l’ho fatto”, dichiarerà Luft anni dopo, “So che ho fatto il meglio che potevo, non era abbastanza”. Comunque nel 1954 la carriera della Garland ha un colpo di coda e si prende la sua rivincita con la MGM, che l’ha messa da parte come una bambola vecchia, con un film memorabile della Warner Bros.: È nata una stella, con la regia di George Cukor. Il film è candidato all’Oscar e lei è intensa, struggente, sembra mettere in scena molti dei suoi fantasmi. Dopo questo capolavoro, negli anni ’60 comparirà sullo schermo solo per brevi apparizioni: in Vincitori e vinti, ne Gli esclusi e in Ombre sul palcoscenico. Dal ’63 in poi si dedicherà solo ai concerti, con alterni successi.

Naufragata anche la storia con Luft, intorno alla metà degli anni Sessanta si aprono nuovi spiragli d’amore sia per Judy sia per la figlia Liza; la madre sposa Mark Herron – un attore secondario reduce da una relazione con Talullah Bankhead. Lui stesso presenta alla figliastra il futuro marito, Peter Allen. Ma non c’è pace: Liza, come in un grottesco melodramma familiare, la prima notte di nozze scopre il proprio sposo a letto insieme ad Herron, marito della madre. Anche questo matrimonio di Judy si sgretola e si conclude malamente nel giro di pochi mesi. Lei però insiste, non rinuncia all’idea dell’amore, che forse è l’unica cosa che ancora la tiene in vita: nel 1969 sposa Mickey Deans, anche lui gay, di dodici anni minore di lei. Deans è un personaggio sordido che si esibisce come musicista e cantante ma, più che altro, spaccia droghe. Judy lo ha conosciuto proprio in un frangente di questo tipo, quando lui la incontra per consegnarle un pacchetto di stimolanti.  Lei non ha ancora quarantasette anni ma appare una donna vecchia, addirittura decrepita; sembra che abbia vissuto non una ma dieci vite, tante sono state le sofferenze, la fatica, le delusioni, il dispendio di sentimenti. È una creatura consumata nell’anima e nel fisico: magrissima, i capelli corti e sfibrati, la pelle svuotata, lo sguardo vagamente allucinato, sul volto un antiestetico irsutismo da farmaci, i denti a rastrello a malapena trattenuti dalle gengive ritirate.

La festa di matrimonio, organizzata al costoso Quaglino’s a Londra, appare una triste farsa: “La festa più patetica cui io abbia mai assistito”, scrisse un giornalista. Della lunga lista di invitati si presentano solo in pochissimi e tutti gli amici famosi sembrano disertare l’evento. La vasta sala affittata per il ricevimento mette in risalto la desolante mancanza di ospiti. L’elaborata torta a tre piani, dapprima impossibile da tagliare perché dimenticata nel congelatore, alla fine rimane a squagliarsi su un tavolo tra bicchieri di champagne che nessuno beve. Una piccola band suona svogliatamente e la Garland, seduta in un angolo con un piccolo gruppo di persone, appare fragile e un po’ stordita nel suo mini abito di chiffon celeste bordato di piume di struzzo. Si guarda in giro come una bambina delusa: “Non riesco a capire… avevano detto che sarebbero venuti…”. Neanche la figlia Liza si è presentata. “Verrò la prossima volta, mamma.”, le aveva detto al telefono. Judy Garland non vivrà a lungo dopo questa malinconica serata. Ormai completamente dipendente dal Seconal (un barbiturico largamente abusato negli anni Sessanta), mangia pochissimo e va avanti assumendo micidiali cocktail di droghe che le causano mal di stomaco e tachicardia. È spesso malata e si presenta in grande ritardo agli spettacoli, davanti a un pubblico che, irritato dall’attesa, ha già lanciato qualsiasi cosa sul palcoscenico. Ma quando comincia a cantare è irresistibile, si crea un’immediata empatia: “Ti amiamo, Judy!” le gridano.

La sua ultima apparizione è del 18 giugno 1969, a Londra. Quattro giorni dopo, alle 10,40 del mattino squilla il telefono nella casa, piuttosto modesta, dove vive con Mickey, a Codegan Lane. La chiamata è per Judy.  Deans la cerca e non la trova, ma si accorge che la porta del bagno è chiusa a chiave. Preoccupato, sale sul tetto e guarda attraverso la finestra: la moglie è seduta sul water, con la testa china in avanti e le mani in grembo, come in preghiera. Il volto è  bluastro, solcato da rivoli di sangue ormai secco, sgocciolato dal naso e dalla bocca. È morta da più di otto ore. Sul suo comodino viene ritrovata una boccetta mezza vuota di barbiturici. Il coroner scriverà che il decesso é stato causato da “ingestione accidentale di una dose eccessiva di sonniferi”. Alla sua morte Judy Garland pesa trenta chili; è talmente leggera che, per evitare i fotografi, il suo cadavere viene portato fuori dalla casa ripiegato come un cappotto sul braccio di un assistente, celato da una coperta.

Tre giorni dopo l’autopsia, la salma rientra a New York. I funerali sono grandiosi: partecipano 22.000 persone, di cui si stima che 12.000 siano gay. Judy è esposta in una bara coperta di vetro nella cappella della Campbell Funeral Home, per l’occasione addobbata con margherite gialle e bianche e crisantemi. È vestita con il suo abito da sposa color tortora, una cintura d’oro e perle, scarpe di satin argentato. Nelle mani guantate stringe un messale. Il viso, contratto nella morte, è truccato con rossetto arancio e ciglia finte. Tra le celebrità che le rendono omaggio, ci sono Cary Grant, Katherine Hepburn, Lana Turner, Frank Sinatra, Andy Wharol. Diane Arbus fotografa l’evento.

Neppure nella morte Judy Garland sembra trovare pace. Era piena di debiti (si parla di oltre quattro milioni di dollari) per cui non ci sono fondi per un monumento e una sepoltura adeguata; la salma è collocata in un deposito “temporaneo” nel cimitero di Ferncliff. Cose turpi e terribili si sussurrano sulla notte seguente al funerale: l’ex attore Peter Lawford raccontò di come il cadavere della star, pur nelle miserevoli condizioni in cui era ridotto, fosse stato “affittato” da un guardiano senza scrupoli a un gruppo di fans necrofili che ne abusarono, in una sorta di osceno rituale. Si parla anche dell’amputazione di una mano – quella mano che aveva firmato innumerevoli autografi – sottratta come “souvenir”: il macabro cimelio pare sia tuttora conservato nella dimora nel Surrey di un ricco collezionista, nonché sfegatato ammiratore della star.

Nel 1970 la figlia Liza riesce a trovare i soldi per una sepoltura dignitosa, in una semplice cripta a muro, sempre a Ferncliff. Solo nel 2017 i resti vengono esumati e trasportati dalla famiglia in un mausoleo ribattezzato “Judy Garland Pavillon” all’Hollywood Forever Cemetery di Los Angeles dove oggi, a cinquant’anni esatti dalla morte, quietamente riposa.

Paolo Schmidlin


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