SCUOLA ALL’ITALIANA | L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola | di Ernesto Galli della Loggia

di Maria Dente Attanasio

Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 40 | autunno 2019

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L’istituzione che più d’ogni altra ha contribuito a far sì che l’Italia post-unitaria si emancipasse dalla sua diffusa ignoranza, portandola a essere una delle più avanzate economie mondiali, è oggi lo specchio del declino del paese. Abbandonata dalla politica, soffocata dalla burocrazia, fatta oggetto di continue e inconcludenti riforme volte a un’ossessiva rincorsa della novità, la scuola italiana sembra aver perso di vista il suo reale scopo e imboccato la via di un’inarrestabile deriva. Proprio in virtù del ruolo cardine che è chiamata a rivestire in seno alla società, avrebbe dovuto essere il fiore all’occhiello delle istituzioni nazionali, invece la vediamo seguire il tutt’altro che lusinghiero andazzo generale di un paese in cui poco o nulla funziona come dovrebbe. Non solo in Italia, a dire il vero, ma in tutto l’Occidente; tanto che varrebbe la pena chiedersi se quel che colpisce la scuola altro non sia che il riflesso e l’inevitabile contraccolpo di una più generale crisi che investe ogni ambito delle moderne democrazie.

Sembra andare in questa direzione la riflessione che ne fa lo storico Ernesto Galli della Loggia ne L’aula vuota – Come l’Italia ha distrutto la sua scuola (Marsilio, 2019); un libro le cui note dal sapore polemico e reazionario ben si inseriscono in quella nuova dialettica che sta interrogandosi sulla nozione stessa di democrazia. Alla domanda «Perché l’istruzione del nostro paese è andata incontro a un drammatico svuotamento di senso e a una clamorosa perdita di ruolo sociale?» l’autore risponde muovendo le sue critiche innanzitutto a quel processo di democratizzazione che ha interessato la scuola, con l’estensione a tutti del diritto all’istruzione, e via via consolidatosi di pari passo all’affermarsi della società di massa. In questo processo l’espressione “scuola democratica” ha voluto significare, non tanto il riconoscimento a tutti di poter godere della scuola alle stesse condizioni, bensì una sua radicale spoliazione, non solo sul piano dell’autorevolezza, ma anche su quello dei contenuti e delle finalità verso cui dovrebbe tendere. Questa mal concepita idea di democratizzazione, unita alla smania di modernizzazione, da un lato ha riconfermato quel «rifiuto così diffuso dell’autorità nelle società democratiche», cui la mentalità italiana dal canto suo appare ben predisposta, dall’altro ha rappresentato uno snaturamento del concetto stesso di “istruzione” inteso non più come “sapere” ma come “fare”. Quella che si è voluta perseguire è l’idea di una scuola del “saper fare”, delle “competenze”, delle “abilità”; il tutto funzionale a renderla compatibile con lo spirito dei tempi nuovi, con le esigenze del mercato del lavoro, riducendola in definitiva a una funzione meramente utilitaristica. Va da sé che in quest’ottica tutto ciò che un tempo costituiva il perno del piano di studi, ovvero il sapere umanistico, venga ora considerato come qualcosa di tedioso, superfluo, di nessuna concreta utilità.

Quel sapere umanistico che per molto tempo ha contribuito a strutturare «il mondo morale e sentimentale degli individui, a sviluppare la consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni rispetto agli altri e, insieme, la consapevolezza del posto che ognuno occupa nello spazio e nel tempo» ha perciò perso gran parte della sua centralità e del suo grado di importanza. “A che serve?” «è la domanda che l’incolto rivolge al colto: a cosa serve il tuo sapere?» L’idea di fondo è infatti quella secondo cui con la cultura non si mangia e non si va da nessuna parte. Ed è proprio a questa logica della massa che la scuola sembra volersi uniformare.  Da qui l’interesse a dare maggiore rilevanza alle conoscenze tecnico-scientifiche e all’apprendimento delle lingue straniere, poiché sono questi gli strumenti immediatamente spendibili nella realtà sociale. Allo scopo di garantire a tutti il diritto al successo formativo, la moderna didattica deve oltretutto essere necessariamente meno esigente rispetto al passato, sollevando l’alunno da ogni possibile sforzo applicativo: via i vecchi strumenti di una volta, come il libro e la lettura, largo al digitale, a una didattica “attiva”, “dinamica”, “creativa” che miri il più possibile al coinvolgimento, e che vede il ruolo dell’insegnante ridotto a quello di animatore-intrattenitore.

Ernesto Galli della Loggia non esita ad attaccare anche i riferimenti pedagogici che hanno ispirato e determinato nel lungo tempo la visione della scuola, fino a farla diventare quell’istituzione ormai priva di prestigio e di autorevolezza che oggi è. In un percorso che ci riporta indietro nel tempo, il primo a far sedere al banco degli imputati è Jean-Jacques Rousseau, il cui libro Emilio o dell’educazione (1762), getta le basi per due svolte fondamentali: la prima, che consiste nel mettere al centro del processo di apprendimento il fanciullo, facendo passare in secondo piano la figura del pedagogo; la seconda, che avrà un impatto ancora più determinante dal Novecento in poi, nello spostare l’obiettivo di tale processo dall’istruzione all’educazione. Val la pena soffermarsi innanzitutto proprio su quest’ultimo punto. Ovvero chiedersi se la scuola debba fornire un’educazione o piuttosto un’istruzione. La figura dell’educatore e quella dell’insegnante nell’odierna percezione comune sembrano ormai essere diventate sovrapponibili, cosa che in realtà non è. Compito della scuola è lavorare sulle altezze, non sulle basi. Istruirsi implica di per sé «l’acquisizione di certi valori naturalmente orientati al sentimento di comune humanitas, all’amore per la conoscenza e la libertà, all’obbedienza alle leggi, al rispetto di sé e degli altri» ma questa trasmissione di saperi il cui compito spetta al docente, ha bisogno di incardinarsi in un terreno di coltura che sia almeno in parte già preparato a tale scopo. Questo lavoro di educazione, di predisposizione all’ascolto, finanche di accettazione del rapporto necessariamente gerarchico che deve intercorre tra il docente e l’allievo, è un compito cui devono precipuamente assolvere i genitori.

Ma l’influenza esercitata dal pensiero di Rousseau va ben oltre l’ambito scolastico:  è lui che ”inventa” «il bambino moderno» e l’idea stessa della «moderna soggettività (vocazionalmente libera, insofferente per principio a limiti, ruoli e vincoli, sempre sul ciglio di una patologica autoreferenzialità)»; è lui che “inventa” l’idea di un’infanzia che rappresenta «la purezza incontaminata della natura rispetto a un universo adulto corrotto dai mille compromessi imposti dalla società». Questa idealizzazione che Rousseau fa dell’infanzia, come sorta di paradiso perduto, induce a un rovesciamento delle parti: «gli adulti non insegnano ai bambini, ma imparano piuttosto da essi» in un rapporto che si traduce in «vera e propria arrendevolezza», nella conseguente rinuncia a esercitare su di loro una qualunque forma di potere e autorità. È così che «I giovani hanno sempre ragione (…) devono poter essere chiassosi, spintonarsi e fare casino perché è nella loro natura, infine devono essere promossi anche se non lo meritano».

Gli fa eco il tanto citato don Lorenzo Milani, la cui Lettera a una professoressa è ritenuta una delle principali fonti ispiratrici della scuola italiana contemporanea. Qui la figura del maestro, preferibilmente celibe, viene addirittura tratteggiata come una sorta di missionario che in totale spirito di abnegazione debba porsi al servizio dei propri allievi, senza limitazione di orari. Ma ciò di cui più si lagna il buon priore è la mancanza nella scuola di una cultura che «serva alla vita», perché ancora troppo nozionistica e improntata sui libri «scritti da gente che ha letto solo libri», auspicando invece una cultura della pratica, che magari prediliga lo studio dei contratti di lavoro e che prepari in definitiva a quella che nel gergo contemporaneo chiameremmo “Università della vita”. Galli della Loggia fa notare come nella citata Lettera «che nella scuola dell’obbligo non si debba assolutamente bocciare è ripetuto e argomentato un’infinità di volte» ed è questo l’ormai sottinteso imperativo nei vari consigli d’istituto. “Tutti promossi!” è infatti il diktat che impone dall’alto il Ministero dell’Istruzione. Bocciare significherebbe ammettere il proprio fallimento «la negazione dell’obiettivo fondamentale della scuola “democratica”: l’uguaglianza fra tutti coloro che la frequentano» ovvero la negazione di ciò che il Miur definisce come l’obbligo di dover essere “inclusivi”. La promozione assolve perciò tutti dai propri fallimenti, perpetrando una delle tante bugie che il paese ama raccontarsi. Pazienza se questo va a discapito del principio della meritocrazia e del giusto riconoscimento di cui la scuola per prima dovrebbe farsi garante. Bocciare significherebbe inoltre dover affrontare le ire di genitori sempre più ingerenti, in una scuola che grazie al combinato “autonomia-Pof”, non solo ha dato luogo a una “frantumazione-atomizzazione” dell’istituzione in tante realtà territoriali poste in concorrenza tra loro, ma ha dato altresì il via libera all’invadenza delle famiglie, sempre più autorizzate a influire sui suoi orientamenti.

Col pretesto di una didattica innovativa e multidisciplinare aperta al territorio (e alle sponsorizzazioni private), attraverso il Pof ciascuna scuola stila il proprio catalogo delle offerte, in cui punta ad attirare la potenziale “clientela” con tutta una serie di attività aggiuntive ed extradidattiche che di fatto tolgono spazio e centralità a ciò che invece dovrebbe essere di primaria importanza: lo studio delle materie tradizionali. Tra le più evidenti conseguenze di questa spinta all’autopromozione c’è «l’assoggettamento della scuola al contesto, in particolare ai desiderata e spesso alle pretese del pubblico, cioè delle famiglie.»; una diversificazione che però risulta fortemente condizionata, non soltanto dalla diversità dei contesti, ma anche dalla disponibilità di risorse non sempre uguale dappertutto. Il risultato è quindi una scuola territoriale, non più nazionale; una scuola classista, foriera di nuove disparità sociali. Ciò in palese contraddizione proprio con quello spirito di democraticità che avrebbe dovuto improntarla.

Quello che Ernesto Galli della Loggia dà della scuola italiana è un giudizio forse molto severo, a tratti un po’ troppo sommario e superficiale. Anche quando critica coloro che hanno ispirato in larga parte la moderna pedagogia (tra i quali non risparmia figure come Tullio De Mauro e Maria Montessori), il suo giudizio si sofferma soltanto su alcune delle loro idee, che perdono però senso se estrapolate dal loro contesto originario. Alcune riproposizioni dal sapore nostalgico, come l’idea di reintrodurre la predella sotto la cattedra del docente, o il ritorno a quel rigore selettivo che tanto caratterizzò la scuola gentiliana in pieno periodo fascista, possono forse risultare un po’ eccessive e anacronistiche. Resta comunque la possibilità di legger questo libro come uno sfogo contro il malessere che da troppo tempo affligge la scuola, come un atto d’amore nei suoi confronti, o anche solo come una semplice, per quanto veemente, provocazione. L’unico auspicio è che l’aula torni a essere piena di contenuti veri e di spiriti fertili capaci di farli fruttare.

Maria Dente Attanasio


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