di Massimiliano Sardina
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 39 | estate 2019

Il dramma si consuma nel tiepido focolare di una dimora miserabile, dove un tozzo raffermo di pane nero e una mela acerba sono tutto quello che offre la tavola. Dopo una vita di duro lavoro père François a malapena riesce a reggersi in piedi. Quasi ottantenne, vecchio comme le pont de la Bernache, le reni nodose come un tronco secolare, supplica la sua giovane moglie di dargli qualcosa da mettere sotto i denti. «…ebbe freddo al cuore», il vecchio e affamato père François, nel constatare che la sua scodella non era stata apparecchiata secondo il solito. La risposta della moglie – donna austera e rigida ma «assai vivace, con due occhietti brillanti di avara» – non si fece attendere: «Che cosa vuoi farci, vecchio mio? (…) Tutto ha un termine su questa Terra. (…) Bisogna che ti rassegni… riposati…» Il vecchio la implora con voce dimessa e tremante mendicando almeno qualche briciola, ma la donna, ferma nella sua decisione, lo spedisce a letto senza cena. L’indomani, debilitato dalla prima notte di inedia, le rinnova umilmente la sua preghiera, ottenendo questa volta un diniego più circostanziato: «Hai fame… hai fame… È un guaio, povero vecchio mio (…) Quando non si lavora non si ha il diritto di mangiare… (…) Un uomo che non lavora non è un uomo… è più nulla di nulla… è peggio d’un ciottolo in un orto… è peggio d’un albero secco contro un muro…»
Père François non ci sta a passare per un fannullone scansafatiche che si crogiola nell’ozio, lui la voglia di lavorare ce l’ha ancora ma sono le sue gambe e le sua braccia che si rifiutano. «…E che forse ti rimprovero qualche cosa io?» si giustifica la moglie, come se quella decisione di privarlo del cibo non dipendesse affatto da lei. «…Bisogna esser giusti in tutto… Ed io son giusta. Tu hai lavorato e hai mangiato… Ora non lavori più e non mangerai più… Ecco qua!» Il ragionamento della donna non fa una piega. «Come due e due fan quattro.» Non c’è cattiveria come non c’è pietas nelle sue parole. E aggiunge, tirando a sostegno oltre alla logica matematica anche il buon senso: «Tu lo terresti nella stalla, con la rastrelliera colma e l’avena nella mangiatoia, una vecchia carcassa di cavallo che non si tenesse più sulle gambe? Lo terresti tu?» Schiacciato dall’implacabile giustezza del ragionamento père François risponde candidamente di no. Dunque le cose stavano così. Non doveva far altro che rassegnarsi. Con tono cinico e beffardo, infastidita da una conversazione inutile e durata più del dovuto, la donna gli sferra un colpo di coda: «Se hai fame, mangiati un pugno e l’altro serbatelo per domani.» Con poca convinzione père François prova a far accenno alla piccola rendita che avevano messo da parte nel corso degli anni. Al solo sentir nominare la rendita la donna va su tutte le furie: «…Se se ne toccasse un soldo di quella, dimmi, dove si andrebbe a finire?» Non se ne parlava proprio, quella somma era destinata all’avvenire del loro unico figlio. «…No, no… Lavora e avrai del pane… Se non lavori non avrai nulla…»
Persa ogni speranza père François cade preda di «una immensa e pesante angoscia», consapevole che nessuna sua preghiera avrebbe mai potuto «flettere quell’anima più dura del ferro». Eppure non la biasima, né la fa oggetto del suo odio o del suo risentimento. Sapeva in cuor suo che quella «terribile legge» del “se non lavori non mangi” lei l’avrebbe applicata anche su sé stessa, pagandone in prima persona le fatali conseguenze. No, père François non odiava sua moglie perché la considerava una donna «semplice e leale come l’omicidio». Chiarita la faccenda, chiusa la conversazione, ora non può far altro che raccogliere le sue povere ossa doloranti e andarsi a coricare. Definitivamente. La porta spalancata della camera da letto «gli si apriva davanti nera e profonda come una tomba.»
Disteso supino sul suo giaciglio coniugale l’inabile al lavoro percepisce sé stesso già come cadavere. L’immobilità lo affranca dalla sofferenza di doversi muovere. Père François avverte ora con pacificata rassegnazione che il suo ciclo naturale si è concluso, così com’era toccato anni addietro a suo padre e a sua madre, anche loro divenuti con la vecchiaia «braccia impotenti e bocche inutili». Nel dormiveglia, prefigurazione dell’eterno sonno liberatore, père François ripensa proprio ai suoi genitori e ricorda di aver loro negato, con fredda e spietata determinazione, «il pane degli ultimi giorni vissuti senza lavorare.» Con l’andare dei giorni il moribondo diventa sempre più un tutt’uno col suo letto. Il fetore nauseabondo «come di letamaio» preannuncia l’imminente putrefazione della vecchia sua carcassa.
Deperito dalla fame père François passa dal dormiveglia al delirio onirico. Lui, che in vita sua non aveva mai sognato, sogna ora la sua ultima capra: «Era una vecchia e dolcissima capra, tutta bianca (…) Dopo aver dato per tanto tempo dei graziosi caprettini e del buon latte, il suo ventre era diventato sterile e le sue mammelle si erano inaridite. Tuttavia, il suo mantenimento e la sua lettiera non costavano nulla, e la povera bestia non disturbava nessuno. Legata al piuolo per tutta la giornata, a qualche metro dalla casa, essa brucava le cime dei giunchi della landa comunale, e andava su e giù, quanto glielo permetteva la lunghezza della corda, belando lietamente alle persone che passavano lontano, sulla viottola. Egli avrebbe potuto lasciarla morire così, ma una mattina l’aveva sgozzata perché bisogna che tutto quello che non produce più nulla, né latte, né semenze, né lavoro, sparisca e muoia.» C’era forse una qualche differenza fra lui e quella capra? No, nessuna, andava convincendosi père François, sprofondato ormai «in una specie di gran flutto biancastro, sconfinato, attraversato da piccoli bagliori rossi e formicolante di minuscoli insetti di fuoco.» Sospeso tra la vita e la morte come il vetusto e pericolante pont de la Bernache, père François mormora delirante: «È giusto… Un uomo è un uomo, come una capra è una capra… Non ho niente da dire… È giusto!» Tutto ciò che non produce, sia esso un uomo o una bestia, non ha motivo di esistere. «E rivedeva l’occhio della capra, teneramente attonito, il suo rimprovero, quando, mantenendola abbattuta fra le sue ginocchia strette, egli ne frugava col coltello la gola sanguinante.»
Ogni mattina, prima di andare al lavoro, sua moglie lo chiudeva a chiave nella sua stanza-bara. Rincasando la sera non lo degnava né di una parola né di uno sguardo. Sbrigava le sue faccende domestiche e si coricava, «addormentandosi d’un sonno pesante non interrotto da nessun sogno e da nessun risveglio.» Così per giorni e giorni. L’unico segnale che indicava père François come persona ancora viva era l’emissione di un flebile rantolo, simile al «gorgoglìo d’una bottiglia che si vuoti.» Un mattino finalmente père François fu cadavere a tutti gli effetti. La moglie, con tenerezza e con un tono di profondo rispetto, non poté che constatare: «È morto!» Ne avrebbe conservato per sempre il ricordo di «un uomo ordinato, economo, coraggioso… Si è ben condotto in tutta la sua vita… ha lavorato molto… Gli metterò una camicia nuova e il suo abito di sposo… un bel lenzuolo bianco… E, poi, se il figliolo vorrà… si potrà comperare una concessione per dieci anni… al cimitero… come per un ricco…»
Questo racconto crudele, tanto più crudele perché si consuma nello spazio ristretto delle mura domestiche, descrive una società dove chi non è più in grado di lavorare deve considerarsi già morto. Sono bocche inutili quelle che sottraggono nutrimento a chi il pane è in grado di guadagnarselo da solo (i vecchi, i malati, ma più in generale tutte le categorie sociali più ai margini). Vi troviamo anche uno dei temi ricorrenti in Mirbeau, quello della donna padrona che domina e tortura l’uomo. Le bocche inutili rimanda a un altro racconto mirbelliano: L’ottuagenaria. Qui la protagonista, la vecchia Mamma Rosa Pelletrini, emigra dalla campagna romana a Parigi per cercar soccorso dal suo unico figlio. Questi, avvertendola come un peso, le dice senza mezzi termini: «Non ho pane per te, non ho nulla», salvo poi permetterle di restare a patto che si renda utile: «Ebbene, ti tengo qui a una condizione (…) Ed è che lavorerai, che guadagnerai il tuo pane…»
Mirbeau dedica il racconto allo scrittore e critico letterario Ferdinand Brunetière (1849-1905), dal 1893 membro della Academie Francaise e direttore della Revue Des Deux Mondes. Inflessibile classicista e conservatore, convertito al cattolicesimo in tarda età, nel 1895 Brunetière estese la teoria dell’evoluzione darwiniana allo studio dei generi letterari, coniando un nuovo approccio metodologico. Inizialmente Mirbeau non nutriva particolari simpatie per Brunetière, famoso per la sua rigidità classificatoria e per il suo ferreo dogmatismo; lo rivaluta però a partire dal 1894, come testimonia un articolo apparso quello stesso anno sul Journal: «…Adoro il suo coraggio morale, la violenza delle sue convinzioni letterarie, la sua imperturbabile sincerità in opinioni che non sono sempre le mie, tuttavia, e che disapprovo spesso (…) Anch’io ero ostile a Brunetière, fino a quando non mi son deciso a leggere i suoi libri. Forse avrei dovuto iniziare da lì. (…) vi ho trovato alcune cose a volte ripugnanti, ma anche tante pagine ammirevoli che giudico tra le più potenti di questo tempo.»
Nei Contes cruels (Racconti crudeli) – apparsi in vari quotidiani dell’epoca e successivamente pubblicati in volume con i titoli Lettere dalla mia capanna (1885) e Racconti dalla capanna (1894) – Octave Mirbeau enfatizza il lato oscuro della natura umana creando nel lettore quello che Pierre Michel definisce uno «shock pedagogico». Ogni singolo racconto si offre come tassello di una sofferenza universale, una condizione esistenziale patita e inferta da una collettività connivente destinata a progressiva frantumazione. Leit motiv della disamina mirbelliana è la ferocia sempre sottesa alla natura umana, la barbarie che sonnecchia nell’etica. Il racconto Le bocche inutili è contenuto nella raccolta La pipe de cidre (Ed. Flammarion, 1919); al momento la sola traduzione italiana è quella di Decio Cinti: Le bocche inutili, in La botte di sidro (Sonzogno, 1920). Per ogni approfondimento sulle opere di Octave Mirbeau si rinvia al nutrito archivio storico-critico curato da Pierre Michel. È possibile inoltre consultare su internet il portale “Studi Mirbelliani Italia” e l’esaustivo “Dictionnaire Octave Mirbeau”.
Massimiliano Sardina
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