di Giuseppe Maggiore
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 39 | estate 2019
Se vuoi essere libera, uccidi la donna che è in te. Uccidi quest’ospite abusiva, che si è impiantata in te molto prima che tu nascessi. Uccidi la donna, la principessa, la madre, la sposa e guadagnerai la tua indipendenza. Se vuoi veramente essere libera, ucciditi in quanto donna per rinascere come persona. Tu non sei donna ma lo sei diventata. Donna come idea, concetto, ruolo; donna come predestinazione. Da bambina avevi una cameretta rosa, e rosa erano anche i tuoi vestiti; ti piaceva giocare con le bambole, pettinarle, lavarle, vestirle; avevi una magnifica casetta tutta per loro, con tegami e ferro da stiro che pian piano hai imparato a usare. Eri la loro buona e premurosa mammina, sapevi cambiargli i pannolini e confezionargli dei bei vestitini. Eri già la mamma che ti apprestavi a essere da grande; l’angelo dei propri figli, l’angelo del focolare… Crescendo hai scoperto che non ti bastava essere brava ma dovevi pure essere bella; i trucchi, i bijoux, le acconciature dei capelli, le scollature e quei tacchi così maledettamente scomodi. Dovevi curarti, depilarti, valorizzarti, esaltare la tua femminilità, perché ormai eri diventata una donna. Così agghindata come una bambola, sognavi il tuo principe azzurro (azzurro, non rosa), sognavi il tuo bell’abito da sposa che ti avrebbe fatto sentire come una vera principessa. Il principe alla fine è arrivato, e con esso anche i nuovi bambolotti, stavolta in carne e ossa. È il coronamento d’un sogno, la tua piena realizzazione come donna: hai finalmente la tua casa, i tuoi figli e un marito che provvede a tutto il resto. Cos’altro potevi desiderare di più? Niente che non fosse già nella lista di cose da fare nella vita.
Guardi quelle tue amiche che invece hanno scelto di far carriera, chi l’imprenditrice, chi l’attrice, chi la giornalista o la conduttrice televisiva e chi semplicemente l’hostess. Le guardi e qualunque sia il lavoro che fanno le vedi sempre ben curate pure loro. Ma tu cerchi di metterle in guardia sul tempo che impietoso passa per tutte, su un orologio biologico che non lascia ampio margine alle cose concrete da fare nella vita, come trovarsi un uomo e far figli. Eppure al tempo stesso vorresti somigliare un po’ a quelle donne che vedi al cinema o in tivù; vorresti avere un po’ di quella grazia, di quel fascino, di quel sex appeal, senza tutte quelle impellenze quotidiane che ti portano via tempo e spazio da poter dedicare a te stessa. Osservale bene, come si diversificano dai loro colleghi uomini: sempre ben truccate e pettinate, sempre scollate (sia d’estate che d’inverno), sempre giovani e sorridenti. L’uomo va sempre bene in giacca e cravatta, con un pizzico di trasandatezza e un po’ in là con gli anni. Ne hai mai visto uno presentare un varietà o condurre un Tg in maglietta? Le passerelle, i cambi di vestiti e i bouquet di fiori lui li lascia volentieri alla sua valletta, alla bambola che gli fa da spalla (la cara vecchia costola di Adamo); lui non ne ha bisogno. C’è la pubblicità: non cambiare canale, guardala. Guardati in quanto donna, mentre prepari la colazione, mentre fai il bucato, mentre stiri, mentre pulisci la casa, mentre vai a fare la spesa, cambi i pannolini e dai la medicina a quell’altro bambolotto di tuo marito. Ti riconosci in tutto questo? Bene. Sei proprio una donna. Una vera donna. La pubblicità ti rende giustizia; fa capire anche a quelle tue amiche, a quelle donne in carriera, che il loro vero mestiere rimane pur sempre quello della donna: essere l’angelo del focolare, la madre, la moglie, la crocerossina.
Sei contenta di questo? Bene, fine della trasmissione. Non sei contenta? Allora continua a leggere.
Ti chiedi se è possibile dare una svolta alla tua vita? La risposta è sì. Ma per farlo occorre che tu sia disposta a rimettere in discussione tutto, a cominciare da quella nozione di donna così ben radicata nella tua testa. Non c’è niente di naturale in questa donna che ti prefiguri. È, appunto, solo un’idea, un prodotto della cultura. Una cultura patriarcale – o matriarcale, se preferisci – comunque una cultura eterosessuale. Il tuo riscatto come persona, come individuo e come dignità autonoma, parte dalla distruzione di questa donna, da un rifiuto radicale e complessivo di tutto ciò che rimanda alla cultura che l’ha forgiata. Ci avevi mai pensato? Ti sembra eccessivo? Hai mai pensato all’eterosessualità? No, non credo. Niente e nessuno mai ti ha indotto a farlo. L’eterosessualità infatti non si pensa, ma si dà per scontata. “Certo – dirai tu – perché l’eterosessualità è nell’ordine naturale delle cose. È natura!” Stai pensando all’accoppiamento maschio-femmina che presiede all’atto riproduttivo e che garantisce la conservazione di tutte le specie animali, compresa quella umana. Sì, hai ragione. Ma l’eterosessualità a cui faccio riferimento non è una semplice funzione biologica. È un sistema di pensiero, un’idea, una cultura pervasiva apparentemente naturale e ineludibile; una cultura che ti ha subdolamente plasmata e contraffatta fin dalla più tenera età.
Tu, in quanto donna, sei il frutto di questa contraffazione, figlia di questa cultura che ti vorrebbe per sempre asservita ai ruoli di mamma e di moglie, che ti oggettivizza in orpello, in trofeo da esibire, in oggetto del desiderio, comunque in un qualcosa che si pensa e agisce in funzione dell’uomo. Sei il “gentil sesso”, perciò devi essere buona e bella; sei il “sesso debole” perciò hai bisogno di chi ti faccia da tutore, di chi costituisca la forza che non hai, di chi si prenda cura di te, infondendoti protezione e coraggio: prima era tuo padre, ora è tuo marito. Per farti dire che senza un uomo non sei nessuno. E pazienza se poi quell’uomo ti manca di rispetto, ti tradisce, ti maltratta, ti usa violenza, ti uccide… Resisti per i tuoi figli; già, perché in quel caso i figli sono solo tuoi e tu sola sei chiamata a sacrificarti per loro (il padre, anche se un mostro, ci vuole sempre). Il mostro ha i suoi emissari nella tua famiglia, in tua madre che ti dice di sopportare, nelle istituzioni, che non intervengono adeguatamente quando denunci e chiedi aiuto. La cultura eterosessuale produce il mostro e lo protegge. Il femminicidio è frutto della cultura eterosessuale. C’è chi, come Monique Wittig (1935-2003), con estrema lungimiranza lo ha capito e si è ribellata a tutto questo; ha lottato, ha sfidato l’intero sistema sociale, politico, economico che sottende a questa cultura di contraffazione e di sopraffazione della donna.
Ne Il pensiero eterosessuale (Ombre corte, 2019), ci viene proposta una raccolta di saggi in cui la Wittig espone efficacemente le ragioni di questo rifiuto, che deve necessariamente essere radicale e refrattario a qualunque compromesso, perché: «O viviamo in libertà ed eguaglianza, oppure nessun patto sociale è possibile.» Monique Wittig mette a nudo i meccanismi attraverso i quali la cultura eterosessuale agisce, partendo dalla marcatura di genere «che rafforza, nel linguaggio, una divisione degli esseri umani in maschi e femmine» e che va combattuta esattamente quanto la stessa categorizzazione “uomo-donna” che fa delle persone: «L’avvento di soggetti individuali richiede innanzitutto la distruzione delle categorie di sesso. (…) La categoria di sesso è il prodotto di una società eterosessuale nell’ambito della quale gli uomini si appropriano per se stessi sia del lavoro riproduttivo e produttivo delle donne, sia dei loro corpi. Questo accade attraverso quel contratto chiamato “matrimonio”.» La sua invettiva contro l’intoccabile e sacrosanto statuto del matrimonio trova conferma nei tanti casi di femminicidio annunciato. Prosegue infatti: «Che la donna costituisca una dipendenza diretta del marito è implicito ad esempio nelle politiche di non ingerenza da parte della polizia, nei casi in cui il marito picchi o stupri la moglie. (…) una donna che ha sottoscritto un contratto di matrimonio cessa di essere un cittadino normale (protetto dalla legge). E la polizia esprime di solito un’aperta reticenza al coinvolgimento negli affari di famiglia (…) dal momento che in essi l’unica autorità vigente è quella del capofamiglia.»
Wittig si scaglia anche contro quella volontà di differenziazione che a tante donne, femministe comprese, piace: «le donne dovrebbero farla finita con la differenza, dovrebbero rinunciare al privilegio di essere differenti, peraltro senza mai interrogarsi a proposito dell’imposizione di dover essere differenti (…) e di scambiarlo per il “diritto di essere differenti” o addirittura per l’”orgoglio di essere differenti”. (…) La (nuova) femminilità, la scrittura femminile, l’esaltazione della differenza, non sono che il colpo di coda di un’intera tendenza politica, alquanto preoccupata dalla messa in discussione delle categorie del sesso (…) La “scrittura femminile” non è che il surrogato del fare le pulizie, o da mangiare.» Cos’altro è la differenziazione dei sessi se non una forma di ghettizzazione, il procedere per categorie che includono in sé restrizioni e sperequazioni? Si veda ad esempio il diverso trattamento economico tra lavoratrici e lavoratori. E potremmo includere in questo discorso anche le “quote rosa”, i congedi genitoriali che prevedono tempi diversi per la madre e per il padre, l’assegnazione automatica dei figli e della casa alla donna divorziata: sembrano garanzie, tutele, attenzioni particolari, ma è proprio in questa loro particolarità declinata al femminile che si cela l’inganno. In quanto “quota rosa” la donna in politica è chiamata a distinguersi, a fare di più e meglio dell’uomo; non può concedersi di essere mediocre e inefficiente tanto quanto la sua controparte maschile. Non fosse che l’essere “quota rosa” non la rende in automatico una persona migliore.
«Nel caso delle donne – scrive ancora Monique Wittig – l’ideologia è pervasiva al punto che i nostri corpi e le nostre menti sono il prodotto della sua manipolazione. Siamo costrette a corrispondere, fin nelle nostre carni e nei nostri pensieri, e di funzione in funzione, all’idea di natura che è stata stabilita per noi.» Non c’è niente di naturale nella società, niente di naturale nell’idea che abbiamo dell’uomo e della donna, della famiglia e dei ruoli che ciascuno al suo interno debba avere, ma è tutto frutto della storia, della cultura entro la quale siamo stati plasmati. Capire questo significa assumere piena consapevolezza di sé; capire questo significa avviarsi a diventare dignità autonome, individui liberi di pensare, di agire e di compiere scelte coraggiose seguendo il proprio cuore.
Giuseppe Maggiore
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 39 | estate 2019
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