di Paolo Schmidlin
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 39 | estate 2019
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Il cimitero di Highgate, progettato dall’architetto Stephen Geary, si trova nell’omonimo quartiere al nord di Londra e risale al 1839. A quell’epoca fu edificato fuori dal centro abitato perché gli spazi usati fino ad allora, collocati attorno alle chiese, non erano più in grado di far fronte alle richieste di sepoltura e cominciarono a venir considerati luoghi insalubri e pericolosi per la salute pubblica. La visione vittoriana della morte, con la sua particolarissima estetica funebre, trovò la sua massima espressione proprio in questo nuovo cimitero con la creazione di maestosi mausolei in puro stile gotico e di tombe ridondanti di sculture e decori. Highgate divenne il luogo di sepoltura più ambito dalle famiglie aristocratiche dell’epoca. Se oggi ci addentriamo al suo interno e ci spingiamo verso la parte ovest, ci ritroviamo in uno scenario molto evocativo: le vecchie sontuose tombe ottocentesche appaiono in uno stato di estrema decadenza e la natura sembra aver preso il sopravvento sui monumenti creati dall’umana illusione di preservare la memoria dei defunti. Un muschio spesso, di un verde intenso, è attecchito sui marmi preziosi, i rampicanti si avvinghiano alle sculture, i rovi insediano gli angeli dolenti, le lapidi appaiono semidivelte e corrose dalle intemperie. Questa è la zona più interessante di Highgate, intrisa di misteri e di leggende; proprio qui si sono verificati nel tempo fatti inquietanti e misteriose apparizioni. Tra i monumenti funebri smangiati dall’umidità, ci imbattiamo in una semplice lapide sormontata da un fregio: è quella della famiglia di Dante Gabriele Rossetti dove, in un freddo giorno di febbraio del 1862, venne deposto il corpo della giovane Elizabeth Siddal, moglie e musa del pittore.

Elizabeth Siddall (il cognome fu in seguito trasformato in Siddal) era nata a Londra nel 1829 in una famiglia borghese impoverita a seguito di varie vicissitudini. Il padre Charles portava avanti un’attività di “coltellinaio” e in seguito aprì una bottega di ferramenta. Elizabeth – detta Lizzie – per dare una mano alla famiglia inizia a lavorare, intorno al 1940, nel noto negozio di cappelli di Mrs. Tozer: come le altre giovani impiegate, le sue mansioni spaziano dal confezionamento dei cappelli, al lavoro di commessa, all’indossare i copricapo per mostrarli alle clienti. È in questo periodo che, tramite una collega, conosce il poeta irlandese William Allingham che la presenta all’amico pittore Water Howell Deverell che sta cercando una modella per un dipinto ispirato a La dodicesima notte di Shakespeare. Il giovane Deverell rimane subito affascinato da questa ragazza così poco allineata con i canoni di bellezza dell’epoca vittoriana: è alta, snella, con poco seno e grandi occhi di chiara giada. Soprattutto sfoggia con disinvoltura una lunga e magnifica chioma color rame, incurante delle credenze dell’epoca – diffuse nelle classi meno abbienti – che associavano i capelli rossi a qualcosa di “stregonesco”, al malaugurio, alla magia nera. La misteriosa Lizzie ha un’aura malinconica e un’eleganza innata: incarna alla perfezione l’ideale estetico caratteristico della Confraternita dei Preraffaelliti – che era quasi una società segreta – fondata da Dante Gabriel Rossetti. La Confraternita è composta di un gruppo di sette giovani uomini, artisti e amici, che prendono le distanze dalle correnti pittoriche contemporanee per ispirarsi al medioevo e al primo Rinascimento; i soggetti dei loro dipinti sono quasi sempre figure femminili tratte dalle opere di Dante o di Shakespeare, avvolte da un alone onirico e al contempo sensuale. Tuttavia all’epoca, per una donna posare per un pittore – se non per un proprio ritratto mondano in abito da sera – era considerato oltremodo disdicevole; era praticamente sinonimo di prostituzione. Perciò Deverell (considerato il più bello dei Preraffaelliti e che morirà a soli ventisei anni per una malattia renale) è costretto a far intercedere la propria distinta madre affinché convinca Lizzie e i genitori di lei a farla posare.
Da quel momento, introdotta agli altri artisti, la giovane Siddal diviene il volto più amato dalla confraternita. Per lei si apre un mondo nuovo, fatto di creatività, di stimoli intellettuali, di inaspettati guadagni. È venerata da questi sette idealisti, tutti di età compresa tra i diciannove e i ventitré anni, che fanno a gara per ritrarla. La trattano come una cosa “sacra”, come la detentrice di una bellezza sovrannaturale. Questo che le sembrava un preludio denso di aspettative, resterà invece l’unico periodo davvero felice della sua vita. Dopo Deverell e William Holman Hunt, Elizabeth nel 1852 fa da modella per John Everett Millais che la ritrae nelle vesti di Ofelia. Millais è un artista assai meticoloso: per impostare il dipinto dello stagno, scenario del dramma, ha studiato minuziosamente la vegetazione della campagna inglese. Per raffigurare con sufficiente realismo l’agonia di Ofelia, che affonda piano nelle acque scure trattenuta a galla ancora per pochi istanti dal vaporoso abito nuziale, Lizzie viene costretta a posare a lungo immersa in una vasca piena d’acqua, riscaldata in modo ingegnoso da numerose candele. La ragazza, per non distrarre il pittore, continua stoicamente a posare anche quando, un pomeriggio d’inverno, le fiamme si spengono sotto la vasca: l’acqua si raffredda e lei sviene, venendo salvata per un soffio. Contrarrà una bronchite cronica che la indebolirà per sempre. Il padre, ritenendo Millais colpevole, lo trascinerà in tribunale ottenendo un indennizzo di 50 sterline. Il dipinto ultimato risulterà un capolavoro e diverrà il dipinto più noto e amato dei Preraffaelliti e il più celebre e somigliante ritratto della Siddal. Ofelia è adagiata sulle acque come fosse su un letto di morte, lo sguardo estatico, la posa delle mani affioranti è quasi un gesto sacrificale; attorno a lei galleggiano fiori di diverse specie e piante palustri la lambiscono. Il quadro è ricco di messaggi simbolici: il pettirosso simbolo del sacrificio, le margherite che simboleggiano l’innocenza, le viole l’amore non corrisposto, il salice l’abbandono amoroso, l’ortica il dolore…
Ofelia fu esposto nel 1852 alla Royal Academy of Arts riscuotendo unanimi apprezzamenti; paradossalmente sarà proprio dalla creazione di quest’opera che inizierà la parabola discendente di Lizzie, che non ritroverà mai più la serenità di quei giorni.
Anche l’incontro con Dante Gabriel Rossetti farà parte di questa svolta perché sarà una storia d’amore totalizzante ma anche intrisa di strazio e sofferenza. Dante è il più famoso degli artisti preraffaelliti, non bellissimo ma carismatico, di famiglia colta e facoltosa. Si incontrano nel 1852 in casa di amici ed Elizabeth se ne innamora perdutamente. Rossetti, dal canto suo, è stregato da questa fragile bellezza dai capelli fiammanti e nel giro di poco lei diventa la sua amante, nonché musa ispiratrice. Lui è passionale, possessivo al punto da chiedere ai suoi amici di rinunciare a farla posare per loro. La ritrae incessantemente, in modo febbrile: Ecce ancilla domini, Rachele e Lia, Regina cordium, Il sogno di Dante alla morte di Beatrice sono le opere più note in cui lei è raffigurata, oltre a innumerevoli schizzi e disegni. Tuttavia non riesce a esserle fedele e la tradisce costantemente con altre donne – a volte grossolane e scafate – come la modella Anne Miller. Però torna sempre da lei.
Lizzie intanto, anche se tormentata da feroci emicranie e da altri malesseri, si dedica con costanza e tenacia al miglioramento di se stessa anche come artista; non si rassegna ad essere solo una musa o una figura di contorno in mezzo a uomini talentuosi ma aspira a diventare un’artista lei stessa. Scrive poesie mostrando discrete capacità e dipinge in maniera molto personale, tanto da attirare l’attenzione anche del grande critico vittoriano John Ruskin che diventerà per lei una sorta di mecenate e la finanzia per consentirle di lavorare in tranquillità. Tuttavia Elizabeth è tormentata, spesso infelice, ferita dai tradimenti di Rossetti, osteggiata dalla famiglia di lui che non la considera all’altezza del loro primogenito, che lei ama intensamente. Lei detesta quel ruolo di “amante” che la umilia, ponendola alla stregua di una servetta qualsiasi, e la mette in difficoltà anche con i propri genitori, molto religiosi e devoti. Neppure la sorella di Dante, Christina, che lui aveva auspicato potesse prenderla in simpatia, la accetterà mai: Christine é gelosa dell’attrazione esercitata sull’adorato fratello da questa donna “comune”, per la quale lei stessa subisce tuttavia una certa fascinazione, tanto da spingerla a comporre una poesia “Ascolto” proprio sui due amanti: “(…) Lei ascoltava come una colomba che ha un unico amore. Non bella come gli uomini reputerebbero, o di nobile di discendenza, solamente graziosa come un ramo, o il viticcio di una vigna (…)”.
La salute di Lizzie, prostrata da questa situazione, ne risente; diviene sempre più cagionevole e a nulla servono i soggiorni in località climatiche e i viaggi all’estero, specie in Francia, che spesso compie sola perché Rossetti è impegnato col lavoro (e anche con altre relazioni di cui lei è tristemente consapevole). Quando lei è assente, Dante frequenta Anne Miller ma anche altre donne disinvolte, tra cui una bellissima giovane attrice teatrale, Ruth Herbert. Liz che si vede invecchiata e avverte il proprio corpo sempre più fragile, è intristita dalla vitalità e dalla prestanza di queste rivali. Soffre di frequenti crisi depressive, forse è anoressica (ma probabilmente solo “nevrotica”), spesso è tormentata da mal di denti e da mal di stomaco, oppure è preda di un’incomprensibile spossatezza…
Emaciata e malata la Siddal finisce per rappresentare alla perfezione il cliché della donna romantica e tiene legato a sé Rossetti anche attraverso il sottile ricatto della sofferenza. Che i suoi disturbi fossero in gran parte psicologici più che fisici è intuibile dal fatto che si aggravava nei periodi in cui l’amato la trascurava o le era infedele. Tuttavia il dolore – di qualsiasi origine fosse – la spinge ad abusare di un “medicamento” molto diffuso nell’Inghilterra vittoriana: il laudano o “tintura di oppio”. Il laudano era considerato un antidolorifico generico e in Gran Bretagna era venduto un po’ ovunque senza prescrizione alcuna: dal fruttivendolo, dal ferramenta, fino ai banchi del mercato. Veniva utilizzato addirittura dalle madri, nel biberon, per sedare i bambini. In realtà non era affatto un prodotto “innocuo” essendo un preparato a base di alcol e di oppio (l’oppio – che era importato direttamente dalla Cina – fino al 1868 era classificato come sostanza non venefica). Era considerato una sorta di panacea, utile ad alleviare i più disparati disturbi: dalla bronchite ai geloni, alla depressione, alla diarrea, all’isteria, all’emicrania, ai reumatismi, fino al colera. Sotto forma di lozione si riteneva che il laudano risanasse contusioni, ulcere, emorroidi, distorsioni. Insomma per Lizzie – tormentata da sofferenze fisiche ma soprattutto immaginarie, generate dalla sua mente assetata di amore e attenzioni – fu un attimo precipitare nella dipendenza. Rimane invischiata in un crudele circolo vizioso: assume il laudano per alleviare la sua depressione che però viene placata solo momentaneamente per poi ripresentarsi più aggressiva di prima. Sempre più fuggevoli sono per lei i periodi di serenità. Rossetti, che la vede indebolirsi sempre più, decide alfine di sposarla, anche contro il volere della famiglia. Elizabeth, raggiunto tale anelato traguardo sembra rifiorire, è più allegra, rimane addirittura incinta. Ma è solo una tregua momentanea; nel 1861 sta nuovamente male e si aggrava talmente da far dubitare allo stesso Dante che sia in grado di portare a termine la gravidanza. Infatti, il 2 maggio, partorisce una bambina morta. Per Lizzie è uno strazio intollerabile; la tristezza s’impossessa di lei rendendola quasi catatonica. Passa le ore seduta a fissare il fuoco del camino o il vuoto. Alcuni amici che andarono a farle visita la trovarono in camera sua intenta a dondolare una culla vuota. Quando li vede, lei si raccomanda: “Non fate rumore, la piccola si può svegliare…”. Allibiti, la lasciano sola.
A luglio Lizzie viene convinta a passare un periodo nella lussuosa dimora dei Morris, la Red House, che era un vero e proprio monumento al movimento dei Preraffaelliti: la villa ha magnifiche vetrate colorate create da Morris, Burn Jones e Rossetti ed è immersa in un giardino che profuma di tigli, di gelsomini, di caprifoglio. In quell’atmosfera idilliaca sembra un po’ ristabilirsi. Ama riflettere sull’epigrafe incisa sul camino: ARS LONGA VITA BREVIS (l’arte dura, la vita è breve).
Tornata a casa però ricade nell’apatia: resta a letto di continuo, con brevi intervalli in cui, amorfa, rimane adagiata in poltrona per farsi ritrarre da Dante come la principessa Sabra, figlia di un re egizio (ne Il matrimonio di San Giorgio e la principessa Sabra) e come Beatrice.

Nel 1862 è di nuovo incinta ma è ormai diventata una grave tossicomane paranoica. Nelle rare uscite da casa oscilla tra il sonno e un’eccitazione abnorme, mettendo spesso in imbarazzo il compagno. Una sera di febbraio lui rientra tardi – uscito da solo forse dopo una discussione generata dalla gelosia ossessiva della moglie – e la trova a letto in uno stato d’innaturale torpore. Accanto a lei una boccetta vuota di laudano e appuntata all’abito una lettera d’addio. Malgrado l’intervento dei medici chiamati d’urgenza, Elizabeth muore a soli trentatré anni. La lettera con le sue parole di commiato sarà bruciata perché il suicidio all’epoca è ritenuto, oltre che immorale, un vero e proprio reato; avrebbe infangato tutta la famiglia e le sarebbe stata negata sepoltura in terra consacrata. Il coroner emette un verdetto di morte accidentale per overdose di laudano. Rossetti, distrutto, veglia incessantemente la bara aperta dove Lizzie gli appare ancora bellissima malgrado le deturpazioni dovute al lavoro del medico legale. Prima che la cassa venga definitivamente chiusa, depone tra i suoi morbidi capelli l’unica copia del manoscritto con i versi d’amore che le aveva dedicato. Negli anni a seguire non si dà pace, sostiene che il fantasma inquieto della moglie – inumata proprio nella tomba dei Rossetti che in vita non l’avevano mai accettata – gli fa visita ogni notte. Comincia ad essere ossessionato dagli spiriti e dalle sedute spiritiche e si convince di poter comunicare con lei attraverso il canto di un particolare fringuello. Beve pesantemente, soprattutto cloralio, e spesso delira. Inizia a dipingere – a memoria e basandosi su schizzi accumulati nel tempo – uno dei suoi capolavori: Beata Beatrix. L’amata Lizzie vi è raffigurata nei panni di Beatrice appoggiata a un balcone tra un’infinità di simboli, tra cui una colomba rossa che deposita tra le sue mani giunte un papavero da oppio (fiore che rimanda al laudano). L’estasi dolorosa che le trasfigura il volto, alla luce di questo simbolo non appare più come un rapimento mistico ma come la beatitudine di una tossicodipendente che abbia appena assunto la sua dose.

Nel 1869 Rossetti, ossessionato dall’idea di recuperare le poesie dedicate alla moglie e sepolte con lei, convince il suo agente Charles Augustus Howell a fare riesumare la salma. Non avendo ottenuto il permesso dai propri parenti, titolari della tomba, l’operazione viene eseguita in gran segreto, in una notte d’ottobre senza luna, alla luce di un falò. Il pittore, angosciato e pieno di sensi di colpa, non assiste all’esumazione. Quando i becchini aprono la bara, il corpo di Elizabeth appare intatto e non uno scheletro scarnificato come si sarebbero aspettati: il volto è bellissimo, come allora, e i capelli sembrano cresciuti a dismisura nella bara e fiammeggiano alla luce delle torce.
Questo evento mise a dura prova la psiche di Dante Gabriel Rossetti che si convinse di trovarsi di fronte a un maleficio, a una morta vivente. Il pittore morirà nel 1882, minato dal consumo di alcol e droghe.
Si dice che il vampiro di Elizabeth ancora si aggiri nel cimitero di Highgate.
Paolo Schmidlin
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