di Maria Dente Attanasio
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 39 | estate 2019
In Italia Édouard Louis è già noto per Il caso Eddy Belleguele (Bompiani, 2014), un romanzo autobiografico dove il giovane scrittore francese ha ripercorso dolorosamente gli attacchi omofobici subiti, fuori e dentro casa, negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza. In Storia della violenza (Bompiani, 2016), seconda prova narrativa, Louis ha tentato di indagare le ragioni complesse e profonde di una cosiddetta attrazione pericolosa, sospesa in quel confine labile che separa la passione dalla distruzione. Con Qui a tué mon père (Chi ha ucciso mio padre, Bompiani, 2019) Louis ci consegna un coraggioso pamphlet incentrato sul legame difficile padre-figlio, la storia di una distanza incolmabile culminata in un inaspettato riavvicinamento; la vicenda autobiografica, dolorosa e formativa, si apre a una riflessione più ampia che travalica le mura domestiche per abbracciare l’intero assetto politico-sociale.
«Se questo fosse un testo di teatro, – scrive Louis nell’incipit – comincerebbe proprio così: padre e figlio sono a qualche metro l’uno dall’altro in un grande spazio, vasto e vuoto. Questo spazio potrebbe essere un campo di grano, una fabbrica dismessa e deserta, la palestra laminata di una scuola.» La comunicazione è interrotta. Negata. Nessun ponte scavalca il baratro che separa queste due figure. Il figlio ha avuto l’opportunità di nascere omosessuale ma purtroppo, come troppo spesso accade, nella famiglia sbagliata: padre alcolizzato (ossessionato dalla mascolinità), fratello violento, madre sciatta. Una famiglia povera sia di denaro, sia di cultura. A farne le spese, fin dalla più tenera età è, per l’appunto, questo figlio incollocabile, intrinsecamente sbagliato, non allineato agli standard del mesto presepio. Il piccolo Édouard si ritrova a crescere in un clima ostile, bersaglio di costante derisione, tra insulti espliciti e silenzi carichi di disapprovazione. La convivenza col padre, in particolare, gli è insopportabile. «Per tutta l’infanzia ho sperato nella tua assenza.» Un padre muto, anaffettivo, autoritario, incapace di metabolizzare la manifesta diversità del secondogenito. E la madre non era da meno: «Perché sei così? Perché ti comporti sempre come una femmina? Al paese dicono tutti che sei frocio, c’hai svergognato, ti prendono tutti in giro. Non capisco perché fai così.» Sono espressioni di questo tenore ad aver scolpito l’infanzia e l’adolescenza dell’io narrante, oggi un giovane uomo che si sforza di comprendere le ragioni di tanto analfabetismo emotivo.
Nella lettera al padre affiorano ricordi di un bambino di sette anni, colpevole di desiderare come regalo di natale la videocassetta di Titanic invece di un gioco più maschile, colpevole di amare il ballo e certe piccole eccentricità. Nell’assetto sociale dei cosiddetti normali gli insulti omofobici sono atti dovuti, comportamenti ritenuti leciti, posizioni ideologiche da affermare platealmente per ribadire una mascolinità altrimenti silenziosa e dubbia, e anche il padre apostrofando il figlio “femminuccia” risponde alla stessa impietosa didattica.
Raggiunta la maturità il figlio indesiderato lascia la famiglia, il piccolo paese, e trova il suo riscatto trasferendosi a Parigi. Qui, attraverso la scrittura, mette ordine nel suo passato e ricompone la complessa figura del padre. Qui a tué mon père non è solo un atto d’accusa verso un padre indegno, ma la lucida diagnosi di un abbruttimento indotto: quel padre è il frutto dell’educazione che ha a sua volta ricevuto, ed è il frutto (ammaccato, guasto) delle spietate politiche sociali francesi. L’accusa si stempera nel perdono, nella giustificazione. Quando, a distanza di anni, il figlio torna a far visita al padre quello che trova è un «corpo malridotto». Penalizzato da un incidente in fabbrica il padre si era trasformato in un assistito, costretto a sopravvivere con le somme irrisorie passate dallo Stato. «Appartieni alla categoria di uomini a cui la politica riserva una morte precoce.»
Quella descritta da Louis è una società di dominanti e dominati, una società che opera distinzioni e discriminazioni. Al padre che discrimina il figlio fa eco la politica che discrimina determinate categorie sociali. Tutto torna. Louis denuncia (facendo nomi e cognomi e date) le politiche sociali francesi dal marzo 2006 all’agosto 2017, colpevoli di aver sistematicamente penalizzato i lavoratori del ceto medio-basso. François Hollande, Emmanuel Macron, Myriam El Khomri, Nicolas Sarkozy, Martin Hirsch, Jacques Chirac, Xavier Bertrand, Manuel Valls: «La storia della tua sofferenza porta nomi e cognomi.» Condanna, in sintesi, chi ha negato a suo padre la possibilità di diventare altro. Un uomo migliore. Un padre migliore. «Quando bevevi troppo abbassavi gli occhi e mi dicevi lo stesso che mi volevi bene, che non capivi perché il resto del tempo eri così violento. Piangevi mentre mi confessavi che non sapevi come interpretare queste forze che ti attraversavano, che ti facevano dire cose di cui tu ti pentivi subito dopo. Eri vittima sia della violenza che esercitavi sia di quella che subivi.»
Il riavvicinamento tra padre e figlio, seppur tardivo, opera significativi cambiamenti. Se il figlio ne esce in certo modo pacificato, il padre vive invece una vera e propria trasformazione, divenendo l’uomo che sarebbe dovuto essere. È grazie al figlio che il padre prende consapevolezza di sé e di quanto gli è intorno. «…sono i figli che trasformano i genitori, non il contrario (…) Tu, che per tutta la vita hai ripetuto che il problema della Francia erano gli stranieri e gli omosessuali, adesso critichi il razzismo della Francia, mi chiedi di parlarti dell’uomo che amo. Compri i libri che pubblico.» Chi ha ucciso mio padre (Bompiani, 2019, traduzione di Annalisa Romani) è dedicato al regista Xavier Dolan.
Maria Dente Attanasio
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 39 | estate 2019
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