di Elena De Santis
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 39 | estate 2019
Jonathan nasce nel 1985 a Rozzano, un anonimo agglomerato urbano di blocchi condominiali edificato perlopiù tra anni Sessanta e Settanta all’estrema periferia sud di Milano. Negli appartamenti alveare realizzati dall’ALER (l’Azienda Lombarda Edilizia Residenziale) sono alloggiate anche parecchie famiglie meridionali, emigrate in massa al Nord dagli anni del dopoguerra. Il miscuglio di dialetti fa di Rozzano «una specie di Sud senza il calore del Sud», un meridione «sradicato e reimpiantato in fretta (…) in mezzo al freddo e alla nebbia della Pianura Padana.» Pur se vicina a Milano, Rozzano costituisce un mondo a sé, regolato da una subcultura che solo a chi ci vive è dato di comprenderne i codici. A rompere la grigia monotonia dei palazzoni ci sono solo il centro commerciale e la torre svettante della Telecom. È qui che nasce Jonathan, figlio di genitori giovanissimi che si separano presto affidandone la crescita perlopiù ai nonni. «Io sono il precipitato imprevisto di una storia durata niente.»
Precarietà affettiva, culturale ed economica scandiscono l’infanzia di un bambino fragile, indifeso e desideroso di attenzioni. Madre indaffarata, padre assente e inaffidabile, Jonathan è allevato da una parentela molto assortita ma protettiva. Soffre di balbuzie, ama i libri, i giochi femminili e la compagnia delle amichette di scuola: tutti requisiti che lo bollano come diverso, non allineato al diktat «motorino-calcio-figa» ossequiato dalla comunità maschile rozzanese. Fatto spesso oggetto di derisione, Jonathan impara presto a ritagliarsi delle oasi rassicuranti, prima fra tutte la piccola biblioteca di quartiere. «In biblioteca non succedono le cose che succedono a scuola.» A Rozzano – microcosmo dove «il vicino ti dà il cattivo esempio» e dove «si fa a gara a chi sta peggio» – Jonathan sperimenta «tutto il disagio possibile». Lo sfottò, «la cantilena degli insulti», lo perseguita per tutte le elementari e le medie. Precocemente consapevole della sua omosessualità, non rinuncia a manifestarla attraverso l’abbigliamento eccentrico. «Attiro l’attenzione dei ragazzi dei cortili di Rozzano. (…) Se mi notano e iniziano a insultarmi, io guardo dritto, aumento il passo, spero che si accontentino delle parolacce.» Il passaggio al liceo è tutt’altro che indolore. Jonathan ama studiare ma, inibito dalla balbuzie, non regge all’impatto pubblico delle interrogazioni. Cambierà diversi indirizzi, finanche un professionale per parrucchieri (approderà poi a una laurea in Filosofia).
I primi innamoramenti idilliaci, non corrisposti, trovano presto un contraltare nelle relazioni occasionali strette con uomini conosciuti in chat. Da un lato c’è l’irraggiungibile Ernesto, corteggiato a vuoto per anni, e dall’altro gli incontri via internet (liberatori sì, ma al tempo stesso abbruttenti). Un disordine emotivo e relazionale che ricalca l’archetipo del modello genitoriale, anch’esso scandito da reiterati nuovi esperimenti di coppia e di famiglia. Infine la pacificazione: l’incontro con Marius. Una relazione stabile. Una vita di coppia. Tutta la contaminazione del passato (sopita, mai guarita del tutto) inaspettatamente però riaffiora manifestandosi attraverso una misteriosa febbriciattola persistente.
Gennaio 2016. Jonathan ha trentun anni, è un aspirante scrittore, lavora come giornalista e insegnante di yoga. La febbre lo coglie all’improvviso, così, dall’oggi al domani. Debolezza e spossatezza gli impediscono tutt’a un tratto di svolgere la vita di tutti i giorni. Le prova tutte: tachipirina, integratori, rimedi naturali. La febbre non passa. Jonathan digita i suoi sintomi su Google ricavandone solo dati confusi. Si decide infine a consultare il medico e, dopo una lunga serie di esami, ottiene finalmente il responso: «L’indagine sierologica ha evidenziato la presenza di anticorpi specifici anti HIV secondo i criteri indicati dal Center for Diseases Control di Atlanta.» Jonathan apprende di aver contratto il virus dell’immunodeficienza umana. La sua reazione è al contempo disperata e composta. Da un lato è sollevato, perché finalmente sa di quale malattia soffre. Dall’altro c’è la consapevolezza d’essere stato attaccato da un nemico temibile, quello che una volta tutti chiamavano “il nemico giurato dei gay”. «Scopro in me un vuoto che mi ipnotizza, una dimensione dove il pensiero non può più niente. Il mio io ora, di colpo, completamente incarnato: il mio io è un corpo che si sa ammalare, e non più un’astrazione onnipotente, teorica. (…) Sono carne vulnerabile, infestata: sono un contenitore di sangue impuro, alterato per sempre.» Il suo non è un contagio recente, gli dice l’infettivologo. Jonathan sa che oggi la sieropositività è una malattia come tante, che non è più come negli anni Ottanta. Sa che si può tenere a bada coi farmaci e godere comunque di una buona aspettativa di vita. Sa che la ricerca ha fatto enormi passi e tanti altri ne sta facendo. Quello che sa lo consola ma al tempo stesso lo spaventa.
La consapevolezza di essere sieropositivo lo costringe a una riflessione profonda tanto sul suo presente quanto sul suo passato. Tutto sfocia prima nel coraggioso articolo: “Ho l’HIV e per proteggermi vi racconterò tutto” (diffuso nel dicembre 2016) e poi nel romanzo Febbre (Fandango, 2019), memoir che segna il suo esordio letterario. In Febbre è raccontata l’intrusione di una malattia che «recinta, scinde, confina chi ne è portatore in una sfera a parte», una contaminazione che è parte integrante di un vissuto condiviso che ci riguarda tutti, sani e non sani. Bazzi demolisce tutti i luoghi comuni sulla malattia del secolo, condannando chi commisera e chi si nasconde. Da tre anni segue una terapia che consiste nell’ingerire quotidianamente un confetto rosa pallido. «Sono figlio di mia madre ma ora anche della medicina, che m’ha regalato, già subito insieme alla diagnosi, i confetti rosa pallido che fanno nascondere il microscopico conquistatore nel quale a un certo punto sono incappato.» Il virus dell’HIV non è altro che «una bestiola un po’ scema che ha paura del rosa, tipo i ragazzi a Rozzano.» La sua febbre è passata.
Elena De Santis
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 39 | estate 2019
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