L’UOMO DI MANDURIA | Antonio Cosimo Stano e la Comitiva degli Orfanelli

di Giuseppe Maggiore

Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 39 | estate 2019

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Il 30 aprile di quest’anno la Polizia di Stato pubblica sui propri spazi social dei video dal contenuto raccapricciante. I filmati mostrano le scene delle aggressioni subite da Antonio Cosimo Stano, il 66enne morto il 23 aprile scorso a Manduria, in provincia di Taranto.

Antonio è circondato da un branco di ragazzi che si diverte infierendo su di lui con pugni, calci, sputi e sberleffi vari. La vicenda si svolge proprio davanti casa sua, in una via pubblica del centro. È sera e a illuminare la scena c’è la fioca luce dei lampioni accesi; è l’ora in cui i vicini sono in gran parte a casa, per cenare o guardare la tivù. La strada è una di quelle strette e le case sono costruite l’una attaccata all’altra, e attaccata a esse c’è pure una chiesa, con annesso oratorio, dedicata a San Giovanni Bosco. Non c’è cosa che accada qui che non possa essere vista o sentita da qualcuno, ma quella sera tutto è incredibilmente desolato e silenzioso; nessuno si affaccia a guardare cosa sta avvenendo; nessuno che si senta richiamato da quelle urla, da tutto quel trambusto e dalle imploranti richieste d’aiuto lanciate dal povero uomo. Sembra come che quelle case sullo sfondo fossero solo dipinte, scenografia di un palcoscenico a cielo aperto. Su quelle urla e su quelle grottesche risate aleggia un’atmosfera surreale, quasi spettrale. Eppure dentro quelle case c’è vita, ci sono occhi che vedono e orecchie che sentono… ma restano nascosti dietro le quinte come gli attori prima di entrare in scena. Mentre il dramma di Antonio si consuma, intorno a quello spazio scenico pubblico tutto tace.

Quel dramma andava avanti da anni, tanto quanto bastava per far sì che quei ragazzi si sentissero ormai troppo sicuri di sé, liberi di agire e di spettacolarizzare il frutto di tanta compiaciuta violenza nella più assoluta impunità. Quei video resi pubblici dalla Polizia sono stati infatti prelevati dalla chat su Whatsapp in cui questi bravi ragazzi si erano soprannominati “Gli orfanelli”. Loro, in paese, passavano proprio per “bravi ragazzi”; non c’era nulla che potesse farli accostare al classico profilo da disagiati, teppistelli o delinquenti. Questi “orfanelli” sono figli di gente onesta che gode di un relativo benessere; ragazzi che vanno a scuola, qualcuno al liceo, anche se si esprimono quasi esclusivamente in dialetto. E lui, Antonio, la loro vittima prescelta, è solo un povero uomo anziano affetto da disagio psichico, ex dipendente dell’Arsenale militare ora in pensione. Vive in solitudine nella sua modesta casa, non pensato né cercato da nessuno, ma  malgrado ciò potrebbe bastare benissimo a se stesso; avrebbe di che vivere dignitosamente pur con quei quattro spiccioli di pensione, senza essere di peso o recare disturbo ad alcuno. Nonostante la sua corporatura robusta Antonio è un uomo molto fragile e indifeso, lo si direbbe un bambino nel corpo di un adulto, cosa che in un contesto civile di pacifica convivenza, non avrebbe potuto costituire alcun problema. Ma accade che nel cuore della nostra società civile si formino delle zone buie ad alto rischio, dove un branco può irrompere come nel bel mezzo di una giungla e avventarsi inavvertitamente su una preda scelta a caso. Per quel branco di ragazzi la preda era lui, Antonio.

“U pacciu” (il pazzo), lo chiamavano, là dove con ciò si poteva intendere non soltanto un malato psichico, ma anche un sempliciotto o un disabile, comunque uno a cui gli si poteva fare di tutto senza temere alcuna conseguenza. Sicché, quando annoiati non sapevano cosa fare, il loro passatempo preferito era proprio andarlo a trovare: «Che facciamo? Stasera sciamu tutti dallu pacciu» si scrivevano in chat, tra un emoticon sghignazzante e l’altro. Andavano così a fare l’ennesima incursione, muniti di armi improvvisate come tubi flessibili, bastoni o mazze di plastica. Armi che venivano usate contro il povero Antonio proprio dentro le mura di casa sua; armi che, tra urla e risate, venivano agitate come fruste, quasi avessero di fronte una bestia da domare. “Perché vieni sempre da me?” chiede avvilito Antonio a uno dei suoi torturatori. Ormai era talmente terrorizzato da quei frequenti attacchi che spesso evitava di uscire di casa anche solo per fare la spesa. Ma protetto lui non lo era più né fuori né dentro casa. Sfondata la porta, quella porta su cui andavano frequentemente a battere o lanciare cumuli di rifiuti, lo accerchiavano, e via con le spinte, gli sgambetti, gli sputi, gli schiaffi, i calci, i pugni; trattandolo come un fantoccio gli conficcavano a forza nella testa un cappuccio nero, sferzandogli dei colpi in ogni parte del corpo con qualunque cosa gli capitasse tra le mani. In uno dei filmati un ragazzo gli porge la mano come in segno di pace per poi colpirlo violentemente al volto con uno schiaffo; in un altro gli lanciano delle bottiglie dopo avergliele svuotate addosso; talvolta gli rubavano persino i soldi della pensione. Ogni volta l’uomo tenta come può di difendersi, ma è tutto vano. Sopraffatto e atterrito cede, cade a terra, si rannicchia in un angolo, invocando disperatamente, e inutilmente, aiuto.

Il branco di quanti si avvicendano in questi macabri divertimenti è costituito da circa 12-14 ragazzi. Per garantire lo spasso anche a chi, tra loro, fosse stato qualche volta assente, c’erano poi i video ripresi coi telefonini e subito condivisi in chat. «Compare, oggi ha preso un sacco di mazzate»; «Madonna compare quante mazzate ha preso quando siamo entrati in casa»: sono alcune delle conversazioni che “gli orfanelli” si scambiavano in chat a corredo dei video girati durante le ignobili bravate. Antonio era il loro spasso, il loro diversivo, il loro passatempo. La risposta a quella sua domanda “Perché vieni sempre da me?” è semplicemente questa: andavano da lui “per passare il tempo”, come difatti scrivono in uno dei messaggi. Un passatempo come un altro, insomma; un passatempo agito da ragazzi del tutto “normali”. Antonio è infatti vittima di un’annoiata normalità. Non c’è storia che possa descrivere meglio della sua tutta la banalità del male, la stupida spocchioseria del bullo unita alla più gratuita cattiveria.

“Polizia… Carabinieri!” urla forte Antonio per strada; “Polizia… Carabinieri!” invoca, mentre viene preso a calci, schiaffi e sputi dai suoi aguzzini. Ma le sue invocazioni non suscitano nessuna compassione, sono il semplice controcanto a quelle risate di scherno. Ogni volta è un rituale che con qualche variante si ripete sempre uguale a se stesso, in cui c’è chi colpisce e chi ride. Le sue richieste d’aiuto nessuno le ascolta; né la polizia, né i carabinieri, né una sola persona mossa da umana pietà accorre in suo soccorso. Come un povero Cristo, Antonio viene lasciato solo fino al tragico compiersi del suo destino. Quando il 6 aprile scorso gli agenti della polizia vanno finalmente a trovarlo, lo trovano immobilizzato, coperto di percosse e legato a una sedia chissà da quanti giorni. Viene ricoverato in ospedale e sottoposto a due interventi per perforazione gastrica e emorragia intestinale. Ma ormai non c’è più nulla da fare; i supplizi patiti nel corso del lungo e atroce martirio hanno ormai devastato irrimediabilmente il suo misero corpo. Antonio Cosimo Stano muore il 23 aprile 2019, dopo gli ultimi, e finalmente definitivi, diciotto giorni di agonia. Requiescat in pacem.

Alla sua morte segue la catarsi nazionale, alimentata dai media, e sull’onda di questa ha luogo a Manduria una marcia cittadina organizzata dalle scuole e dalle associazioni locali, cui prendono parte tutte le istituzioni civili e religiose, oltre a migliaia di cittadini. È la morte barbara di Antonio o il clamore mediatico che ha suscitato, l’onta cittadina che si vuol cancellare? Se c’è del buono, in tutta questa storia, è quella ragazza che nei video riconosce il suo fidanzato tra i componenti del branco e lo va a denunciare. È lei che fa la differenza. Otto dei quattordici indiziati, sei dei quali minorenni, vengono individuati e fermati dalla polizia. Posti sotto interrogatorio i componenti della baby gang sembrano come agnelli mansueti; riesce quasi difficile associarli a quegli atti di indicibile crudeltà. Sembrano loro per primi sorpresi di ciò che gli sta accadendo. Increduli di dover rispondere di ciò che per loro era solo un semplice divertimento finito male perché il giocattolo si era definitivamente rotto. Stanno apprendendo solo adesso, con la morte della loro vittima, che quei “passatempi” si chiamassero reati, e che potrebbero essere puniti per quanto hanno fatto. Probabilmente sono sinceri anche in questa loro incoscienza, in questa loro beata ignoranza, sebbene il tentativo delle ultime ore di eliminare quei video dal web, dimostri che forse qualche briciolo di consapevolezza in loro ci fosse. Giuseppe Spadaro (presidente del Tribunale dei minori di Bologna) si chiede perché questi giovani nel cyberspazio abbiano scelto di chiamarsi “Gli orfanelli”. Forse perché orfani lo sono veramente. Orfani di se stessi, prima ancora che dei genitori.

Tra accuse e autoassoluzioni emergono testimonianze di gente che sapeva e che impotente ha assistito ai vari episodi di violenza. C’erano state anche delle denunce da parte dei vicini, oltre che dello stesso Antonio, ma niente e nessuno era stato in grado di proteggerlo. Ancora una volta la società si trova a dover fare i conti con l’ennesimo scacco, di fronte a un male contro cui falliscono tutti i suoi dispositivi di protezione. Dietro la cortina della società civile, così ben organizzata nel suo reticolato di istituzioni laiche e religiose; dietro l’apparente normalità di comuni famiglie dedite ai propri onesti interessi c’è sempre qualcosa che prima o poi destabilizza e manda tutto all’aria. La malvagità si cela come un marciume dentro i frutti in apparenza più belli. E non c’è famiglia, né scuola, né chiesa, né alcun’altra istituzione che tenga. Di retorica in proposito ne abbiamo fin troppa. Di fatti analoghi alla storia di Antonio ne sono piene pagine e pagine di cronaca, e ogni volta reagiamo con lo stesso stupore e con altrettanto sconcerto, increduli e ancora colti di sorpresa; e ogni volta ci tocca assistere alle arringhe di difesa in favore degli assassini da parte dei genitori: non sanno che l’unico modo per salvare i loro figli è condannarli. Quando i media avranno smesso di occuparsene per passare ad altro, anche Antonio passerà all’oblio della memoria. È proprio questo reiterarsi di una lezione mancata che ci costringe a doverla ripetere. Ci sono e ci saranno, purtroppo, altre Manduria.

Giuseppe Maggiore


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