di Giuseppe Maggiore
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 39 | estate 2019
La tragica storia di Antonio Cosimo Stano, il cui triste epilogo si è consumato lo scorso aprile in Puglia, ci deve indurre a delle considerazioni meno sbrigative e ad una riflessione più ampia. Non basta indignarsi o fare cortei. Quando i riflettori si saranno spenti e questa storia verrà archiviata, resterà comunque l’eco di una disperata richiesta d’aiuto che nessuno ha raccolto; resterà l’onta di una sconfitta, per la società e per l’umanità intera; e nulla, né il giustizialismo né il tempo, potrà mai cancellare il sangue di questa ennesima vittima dell’arrogante “normalità”.
Chi è l’uomo di Manduria? Nel nostro intimo dovremmo saperlo già. Dentro quella nostra scatola nera, dove possiamo smettere di fare i buonisti o di girarci dall’altra parte, l’uomo di Manduria forse c’è sempre stato, fin dalle nostre prime consapevolezze sul mondo che ci circonda. Lo abbiamo individuato, accerchiato, deriso, oppure evitato. La noia, la volontà di potenza, la frustrazione, il senso di superiorità o di inadeguatezza hanno fatto il resto. E il resto sono lunghe, tristissime pagine di cronaca, costellate di nomi, sporche di sangue, cariche d’indicibile violenza. Non serve tentare di prendere le distanze da tutto ciò. L’uomo di Manduria è affar nostro, esattamente come lo sono i suoi “orfanelli” assassini. Non c’è nessuna disumanità in tutta questa faccenda; descrivere certe azioni semplicemente come “disumane” equivarrebbe a tagliarcene fuori, considerandole altro da noi. Il mostro non lo si combatte relegandolo in qualche zona grigia, il più possibile lontana dai nostri occhi e dal nostro piccolo e rassicurante recinto; il mostro bisogna guardarlo dritto negli occhi e riconoscerlo come parte di noi stessi, perché ciascuno di noi può, potenzialmente, essere un mostro per qualcun altro.
Da qualche parte, ogni giorno, la cattiveria riesce ad avere il sopravvento e a celebrare il proprio trionfo; ogni sua manifestazione, ci piaccia o meno ammetterlo, è così banalmente umana, troppo umana. Comincia con una battuta, una risata, un piccolo scherzetto e finisce con gli sputi, i calci, i pugni, le bastonate, fino al totale annientamento della vittima. Proprio come scrive Leone M. Anselmi a proposito del libro di Piergiorgio Paterlini Bambinate (Einaudi, 2017), in cui si «racconta quel confine labile che separa il gioco dalla realtà, quel territorio primitivo dove vige solo l’aggressività del più forte sulla rassegnazione del più debole.» E dunque chi è l’uomo di Manduria? È quell’uomo additato e dileggiato, emarginato e discriminato, offeso e perseguitato dalla prepotente “normalità”. È la diversità in ogni sua declinazione, guardata con sospetto, temuta come pericolosa, disprezzata ed esorcizzata in svariate forme. A Manduria quest’uomo, questa incarnazione della diversità, si chiamava Antonio, ma si sarebbe potuto chiamare Giuseppe o Teresa. Antonio era un anziano con qualche problema psichico, ma sarebbe potuto essere un senzatetto, un disabile, un omosessuale, un obeso, uno che presentasse qualche deformità fisica o qualunque altra cosa non rientrasse nei canoni di una presunta normalità o idealità. Antonio era stato lasciato solo al suo destino; il suo essere “un diverso” lo aveva distinto dalla norma, e la comunità di cui faceva parte lo aveva isolato confinandolo nel non-luogo dell’indifferenza. Probabilmente, nel suo caso, si è trattato solo di una sottovalutazione, perché, in fondo, lui era solo fatto oggetto di un gioco da ragazzi. Proprio come il Denis protagonista di Bambinate (citiamo ancora in proposito Leone M. Anselmi): «Orfano, povero e gracile Denis è da sempre bersaglio di sfottò e maltrattamenti. Tutti vedono – la maestra, il bidello, il parroco, l’intero paese – ma fingono di non vedere. In natura, non rientra forse nell’ordine delle cose che il più debole deve perire? E poi, sono solo bambinate. I dispettucci dei più piccoli non sono altro che innocenti e trascurabili bambinate. Sarà proprio quest’indifferenza complice a condurre Denis sulla croce.» Quel che in tutto questo è peggio è l’incapacità delle istituzioni nel riuscire a colmare quel vuoto di attenzione e di solidarietà che ogni volta si viene a creare intorno alla vittima, cosicché ogni episodio di violenza e di sopraffazione, verso chiunque si indirizzi, resta nei fatti un dramma personale patito in totale solitudine.
«Non ho paura della cattiveria dei malvagi ma del silenzio degli onesti» scriveva Martin Luther King. Solo e dimenticato da tutti Antonio è diventato facile preda di quella cattiveria che lo ha ghermito e ne ha fatto ciò che voleva. Di quella sua solitudine e di quel generale disinteresse potremmo perire tutti. Ciascuno di noi potrebbe, per una qualche ragione, trovarsi prima o poi a vestire i panni dell’uomo di Manduria. Per questo non si può provare pena per lui più di quanta non se ne debba provare per qualunque altra persona venga fatta vittima di discriminazione, abusi, aggressioni fisiche e verbali o ogni altra forma di sopraffazione.
Fino a quando, stando dalla parte del più forte, non riusciamo a dare il giusto valore a certe azioni e a scorgere le conseguenze che esse possono avere sulla vita di una persona più fragile; fino a quando continueremo a soppesare le vittime sulla base dell’età o del sesso, del genere o dell’orientamento sessuale, della provenienza geografica o dello status sociale, della condizione psicofisica o di qualunque altro criterio di selezione tendiamo a stabilire, sino allora, continueremo a non avere alcun vero riguardo per la persona umana in sé. Ed è questa la vera disumanità, la vera sconfitta per l’umanità.
La morte violenta di un bambino non dovrebbe suscitare maggiore pena di quella d’un anziano; sono entrambe vite ingiustamente soppresse. L’uccisione di una donna non dovrebbe destare maggiore compassione sol perché è una “mamma di famiglia”; la sua vita ha valore in sé come persona, non in quanto donna con figli. L’aggressione a una coppia che si bacia o si tiene per mano, non dovrebbe far distinzioni a seconda che si tratti di un uomo e una donna, di due uomini o di due donne; resta un’aggressione fatta all’amore. Un barcone che affonda in mare aperto con tutto il suo carico di gente, non è soltanto un barcone di immigrati senza nomi e senza cittadinanza di cui nessuno reclama i corpi; è un pezzo di umanità esule e disperata che tenta di sopravvivere, esattamente come avremmo fatto noi al suo posto. Eppure il nostro grado di coinvolgimento è di volta in volta diverso, cosa che chi presiede al preconfezionamento della notizia ben sa. Si ridimensiona o enfatizza il valore della vittima proprio esaltando quegli elementi in grado di suscitare una risposta emotiva ben precisa. È così che funziona il nostro cuore ed è così che funziona anche l’informazione.
La vera retorica buonista è quella che imita il linguaggio della bontà, salvo poi contraddirsi puntualmente nei fatti. Una società che classifica, assegna un grado di valore alle vite umane, stabilendo da quale morte sentirsi maggiormente coinvolta o ciò per cui valga la pena indignarsi di più, è una società che contraddice ogni suo presunto grado di civiltà, ogni suo decantato valore o principio morale. È, in definitiva, una società agita da un relativismo miope verso il valore intrinseco della vita. Ed è proprio questo relativismo che ogni volta sottende alle nostre analisi di fronte all’ennesimo fatto di cronaca. Si cerca di trovare una spiegazione al male che irrompe, specie quando ciò avviene con sconcertante gratuità, senza alcuna evidente ragione. Non abbiamo ancora compreso che la malvagità non necessiti di chissà quali ragioni, che delle volte può essere semplicemente frutto della noia e addirittura arrivare a considerarsi solo un banale passatempo.
La bambina che per gioco si diverte a tormentare il cane o il gatto fino ad ucciderli, divenuta adulta cercherà probabilmente di rimuovere dalla sua mente il ricordo di questi suoi crimini infantili e diventerà magari un’attivista animalista; oppure, in cerca di una maggiore ebbrezza, passerà ad altro, indirizzandosi verso una persona che, al pari di quel gatto o di quel cane, le si palesi debole e indifesa. È esattamente ciò che è accaduto a Manduria; per quei bravi ragazzi che si appellavano “gli orfanelli” Antonio era il gioco, il passatempo, ed erano la fragilità e la solitudine a renderlo la vittima ideale. La banalità del male sta tutta qui, in queste spicciole analogie, in questi esempi di violenza che mietono più vittime di quanto si immagini. E il male non ha età. «Si è crudeli da adulti e si è crudeli da bambini. L’età dell’innocenza in molti (troppi) casi è anche quella della ferocia. La gratuità del male sa farsi anzi ancora più tagliente quando a sferrarla sono le mani di un minore. Il giglio nero sboccia nell’aiuola dell’infanzia e proietta la sua ombra sul fiore più fragile. Privato del sole a questo fiore non resta che appassire. Lentamente. Non c’è età che possa scrollarsi di dosso la responsabilità delle proprie azioni. Soprattutto quando queste azioni si concretizzano in un male deliberato e compiaciuto, quasi erotico.» scrive ancora Leone M. Anselmi a proposito del già citato libro. La malvagità è dunque un potenziale che tutti ci portiamo dentro e che in taluni casi può solo renderci peggiori degli altri.
Non c’è animo umano in cui il suo germe non sia presente, insieme ad altri vizi e a qualche ammortizzante virtù. La cattiveria non ha un suo peculiare terreno di coltura, ma può attecchire ovunque; non si rivolge mai verso chi è più potente, ma si fa grande sul più debole, perché dietro la sua arroganza c’è solo lo spettro di un’irrisolta debolezza. Ci piace avere di noi un’immagine rassicurante; ci piace considerare la cattiveria un’eccezione; ci piace ancora distinguere tra ambienti sani e ambienti malsani, tra famiglie perbene e famiglie disagiate, illudendoci così di poter associare a queste contrapposizioni quelle prerogative positive o negative che sembrano più appropriate. Ma la cattiveria affiora ovunque, perfettamente a proprio agio tanto nella ricchezza quanto nella miseria, ed è qualcosa da cui né l’istruzione né il benessere possono riscattarci. Il bullismo giovanile e le baby gang stanno a dimostrarlo, perché nelle file del branco ci può stare tanto il figlio del carcerato quanto quello del docente. Se anche nella più crassa ignoranza la cattiveria si dimostra intelligente e astuta, nelle menti istruite o in certa gente facoltosa può arrivare a fare persino di peggio. Partire da questa scomoda consapevolezza è già un primo passo avanti nello sviluppo di una vera empatia verso chi, per una qualche ragione, possa trovarsi nei panni della vittima.
Giuseppe Maggiore
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 39 | estate 2019
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