di Massimiliano Sardina
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 38 | marzo 2019
Chi fu davvero Lord Alfred Douglas, il bellissimo Bosie che Oscar Wilde amò sconsideratamente e oltre ogni ragionevolezza? La storia ce ne ha tramandato un ritratto poco lusinghiero, quello di un angelo perverso e corrotto, aristocratico e capriccioso, in perfetto accordo con l’immagine terminale del dipinto di Dorian Gray. Il giudizio di condanna contro Bosie, ritenuto “il principale responsabile della rovina di Wilde come uomo e come artista”, ha sempre registrato un consenso pressoché unanime. I fatti sono noti: i due si incontrarono a Londra nel giugno 1891 e strinsero pochi mesi dopo (precisamente nel gennaio 1892) una relazione tutt’altro che clandestina e riservata. Bosie aveva ventun anni ma sembrava poco più che un adolescente. Wilde, che nel 1890 aveva pubblicato Il ritratto di Dorian Gray, ne aveva trentasette.
Nella bigotta età vittoriana questa amicizia particolare, ostentata con imprudente e compiaciuta disinvoltura nei salotti, nei club e nei ristoranti più in vista della città, non passò certo inosservata. Il padre di Bosie (John Sholto Douglas, nono marchese di Queensberry), da sempre in pessimi rapporti col figlio, fece di tutto per spezzare questo legame indecoroso e, dopo una serie di litigi e di minacce, insultò Wilde pubblicamente lasciando un biglietto al portiere dell’Avondale Hotel di Londra (dove Wilde aveva preso alloggio), con su scritto: «A Oscar Wilde che si atteggia a sodomita.» Adirato e al culmine della sopportazione Wilde – forse non propriamente istigato, ma di certo non frenato da Bosie, che odiava suo padre con tutto se stesso – decide di passare al contrattacco e di querelare il marchese per diffamazione. Com’è noto il processo si concluse con la condanna di Wilde a due anni di reclusione (dal maggio 1895 al maggio 1897). Negli ultimi mesi di prigionia scrisse il De Profundis, una lunga dolorosa lettera indirizzata al suo amato Bosie. Uscito dal carcere consegnò il manoscritto al fidato Robbie Ross con la preghiera di custodirlo e di realizzarne tre copie: una per sé, una per Bosie e l’altra da mettere sotto chiave. L’onta lo braccò anche fuori dal carcere. Gli ultimi tre anni che gli restarono da vivere furono segnati da un’inguaribile vocazione autodistruttiva interrotta qua e là da qualche labile sprazzo di reattività. Il processo gli aveva portato via tutto, moglie, figli, casa, successo, denaro e tutta la sua preziosa biblioteca privata. Una gogna pubblica senza esclusione di colpi. Gli avvocati difensori del marchese si erano adoperati con ogni mezzo per provare davanti alla corte i comportamenti aberranti del celebre scrittore, portando in aula anche brani letterari compromettenti. Durante il processo, Charles Gill lesse Two Loves, una poesia scritta da Bosie, e chiese a Wilde di chiarire davanti alla corte il significato del verso finale: “…io sono l’amore che non osa pronunciare il suo nome.” La risposta di Wilde, chiara e concisa, non si fece attendere: «L’amore, che non osa dire il suo nome in questo secolo, è il grande affetto di un uomo maturo nei confronti di un giovane, lo stesso che legava Davide e Gionata, e che Platone mise alla base stessa della sua filosofia, lo stesso che si può trovare nei sonetti di Michelangelo e di Shakespeare. Non c’è nulla di innaturale in ciò.»
Wilde, sostanzialmente, visse il processo come un’azione performativa, in sincera coerenza con la sua natura intellettuale e umana. Di fronte alle volgari accuse di pederastia (testimoniate da uno stuolo di albergatori, camerieri e prostituti) Wilde mantenne un atteggiamento provocatorio e al contempo di sufficienza, condendo le sue giustificazioni di un’impronta quasi didattica, dimenticando a più riprese di trovarsi non al cospetto di una platea teatrale adorante ma a quello di una corte giudiziaria. Si sarebbe forse potuto salvare se avesse negato e ritrattato con più convinzione, se si fosse rivolto con toni meno indisponenti, e maestro qual era nell’arte oratoria c’è da credere che ci sarebbe riuscito, evitando così la crudele condanna a due anni di lavori forzati nelle carceri di Holloway, Pentonville, Wandsworth e Reading Gaol. La detenzione segnò Wilde nel corpo e nell’anima. Questa sciagura lo colpì nella fase più fulgida della sua carriera letteraria e teatrale. Dall’oggi al domani il celebrato autore del Dorian Gray e della Salomè passò dagli applausi agli sputi. Fu bersaglio di un odio corale, sotto i cui colpi perirono sia l’artista e sia l’uomo. L’esteta colto e brillante fu ridotto alla grottesca caricatura di se stesso, a un errante che letteralmente si trascina stordito dai fumi dell’assenzio.
Dopo la scarcerazione Wilde si trova a un bivio, in una sorta di terra di mezzo. Agito da forze opponenti, una rigenerante e l’altra autodistruttiva, si ritrova in una condizione di straniante stagnazione. Robbie Ross e Reggie Turner, gli amici che non l’abbandonarono mai, gli procurarono 800 sterline e lo esortarono a tentare una risalita. Doveva riprendere a scrivere, ricucire un rapporto con la moglie e i figli, e soprattutto doveva tenersi alla larga da Bosie, l’origine d’ogni male. Wilde tentò ma, con ogni evidenza, non ci riuscì. Tornato libero si rese presto conto del vuoto che la sua colpa gli aveva ordito intorno. Quelli che lo riconoscevano – il processo lo aveva reso più famoso di quanto non avevano fatto le sue opere – lo additavano insultandolo con volgari epiteti o, nei casi più fortunati, lo evitavano. «Fu cacciato, come una lepre dai cani, da albergo in albergo. Un oste dopo l’altro lo respinse alla porta, rifiutandogli cibo e alloggio…» (sono parole di James Joyce tratte da un suo articolo su Wilde apparso sul Piccolo della Sera di Trieste nel 1909). Sotto le spoglie di “Melmoth” Wilde sopravvive in intermittente invisibilità. La moglie Costance (che dopo il processo ha mutato il suo cognome in Holland) decide di passargli un mantenimento di 4 sterline a settimana, ma minaccia di sospendere l’erogazione se rivedrà Bosie.
Ormai vulnerabile, sordo ai saggi consigli di Robbie Ross, permette al suo demone di riaffacciarsi nella sua vita. «…Perché l’uomo corre verso la rovina? Perché la rovina lo affascina tanto?» Oscar riabbraccia il suo Bosie alla stazione di Rouen e, poco tempo dopo, fugge con lui a Napoli. I due soggiornano per un lungo periodo a Villa del Giudice, a Posillipo, abbandonandosi a orge e sbornie con giovani partenopei. Quando il denaro finisce i due litigano e si separano nuovamente. Tornato a Parigi nel febbraio 1898 si stabilisce all’Hotel de Nice, un piccolo albergo in rue des Beaux-Arts. Risale a questo periodo la pubblicazione, in anonimo, di The Ballad of Reading Gaol. Il libro riscuote un discreto successo, tanto che l’editore Smithers ne pubblica continue ristampe. Soggiogato da una demotivazione profonda, obnubilato dall’alcol, destabilizzato dalla sua esistenza precaria, Wilde non ha più voglia di scrivere. Con il De Profundis e La Ballata del carcere di Reading ha vergato il suo testamento. È come se, sentendosi negata ogni resurrezione, avesse scelto semplicemente di lasciarsi andare alla deriva, in una curva discendente di progressivo abbruttimento fisico e morale. Tra marzo e aprile Wilde subisce un doppio lutto, prima la morte dell’amico Aubrey Beardsley (l’illustratore della sua Salomè) e poi quella della moglie Costance (deceduta dopo un’operazione chirurgica alla schiena). Dopo un soggiorno estivo a Chennevières-sur-Marne è ospite di amici prima a La Napoule, presso Cannes, e poi a Gland in Svizzera. Nell’aprile 1899 soggiorna a Santa Margherita Ligure. Qui Wilde contrae dei debiti, cacciandosi in un guaio mai chiarito (agli inizi di maggio interverrà Robbie Ross a saldarli e a riportare l’amico a Parigi). L’editore Smithers pubblica in volume L’importanza di chiamarsi Ernesto e Un marito ideale, ma le economie di Wilde non sembrano trarne giovamento. Continuamente bisognoso di denaro non si fa scrupolo di elemosinarlo nel giro delle sue residue conoscenze. Assenzio, champagne, cocaina, prostituti… Wilde è assetato di carburante per ritualizzare i suoi momenti purpurei.
Nell’aprile del 1900 parte per l’Italia al fianco dell’amico Harold Mellor. Visita Palermo, Napoli e Roma. A maggio ritorna a Gland, ospite di Mellor. Infine, a giugno, rientra definitivamente a Parigi prendendo alloggio all’Hotel d’Alsace. Consumerà qui, nella camera di quest’alberghetto di decima categoria, i suoi ultimi giorni, vegliato dall’affetto sincero di Robbie e Reggie. Dopo lunghe e dolorose sofferenze la morte sopraggiunge, liberatoria, il 30 novembre. Per volontà di Robbie Ross gli viene somministrata da un prete l’estrema unzione. Bosie, grande assente al capezzale, si presentò solo il giorno del funerale al cimitero di Bagneux (una cerimonia di sesta classe). Oscar Wilde risorge ufficialmente nel 1908 grazie a Robert Ross che, nella veste di esecutore letterario, cura la pubblicazione dei Collected Works of Oscar Wilde. Di qui in avanti – a tardivo risarcimento di un danno irreparabile – prenderà gradualmente forma il mito di Oscar Wilde.
Dunque, da un lato la vittima e dall’altro il carnefice. Ma le cose sono andate esattamente così? Fu davvero Bosie la causa d’ogni male? In Defending Bosie (Telemaco, 2018) il poeta e saggista Sandro De Fazi riapre coraggiosamente l’affaire Wilde-Douglas per esaminarlo da una diversa angolazione, fermamente convinto che non tutte le colpe siano ascrivibili a Douglas, e che Wilde, solo Wilde, fu il principale artefice del suo destino. Schierandosi contro una visione meramente agiografica del celebre scrittore irlandese, De Fazi prova a rileggere l’intera vicenda incrociando dati oggettivi e considerazioni personali con l’obiettivo di scagionare il ragazzo di rosa dal reato di wildicidio.
Alfred Bruce Douglas, terzogenito del nono marchese di Queensberry John Sholto Douglas e di Sibyl Montgomery, nasce a Ham Hill nel Worcestershire il 22 ottobre 1870. Rampollo di una delle famiglie più in vista della Gran Bretagna compie i suoi studi al Winchester College (1884-1888) e, successivamente, senza conseguire la laurea, al Magdalen College di Oxford (1889-1893). Bosie è un vezzeggiativo ricavato da “boy” e “rose”, letteralmente “ragazzo di rosa”. All’età di quattordici anni scrive le prime poesie e fonda la rivista letteraria The Pentagram. Quando incontra per la prima volta Wilde a fine giugno del 1891 – facendogli visita al 16 di Tite Street, accompagnato dal poeta Lionel Pigot Johnson (uno dei primi amanti di Bosie negli anni del Winchester College) – Bosie non è solo un bellissimo ed equivoco lord ma, come scrive De Fazi nella sua accorata memoria difensiva, «…è già un poeta, interessato alle verità dell’Estetica.» La sua bellezza efebica, così aristocraticamente sospesa tra l’angelico e il perverso, è disarmante. Oscar se ne innamora all’istante, abbagliato da un’apparizione destabilizzante e pervasiva. «Lo scrittore – scrive De Fazi – si trova davanti l’incarnazione perfetta del protagonista del suo romanzo: Bosie è Dorian Gray! (…) esattamente identico a Dorian Gray, sia nella bellezza del tratto fisico sia per un qualcosa di perverso e corrotto coglibile a prima vista dietro la facciata di biondezza angelica e il ceruleo degli occhi.» Ricordiamo che Il ritratto di Dorian Gray era uscito nel 1890 sul Lippincott’s Monthly Magazine (la versione in volume, con l’aggiunta di sei capitoli, è del 1891).
Le poche fotografie sgranate che ritraggono il Bosie di quegli anni restituiscono a stento il fulgore floreale della sua avvenenza. «Sa di poter ottenere tutto con un sorriso – scrive Riccardo Reim – (…) è un adolescente flessuoso e apollineo (…) È intelligente, capriccioso, esuberante, insolente: porta uno dei nomi più illustri d’Inghilterra e si comporta come un semidio al quale ogni cosa è dovuta.» Bosie è un bocciolo dalle spine acuminate, un cerbiatto con gli artigli, la perfetta icona dell’angelo traviato, fin troppo consapevole di poter sedurre chiunque. «La bellezza di Bosie annienta, – scrive De Fazi – ha qualcosa di regale. (…) Bosie è il sole che rifulge, i fiori più colorati e seducenti impallidiscono al confronto. (…) Nel suo aspetto fisico c’era un sovrappiù di imponderabile legato alla sfera spirituale. Questo era l’elemento che lo distingueva in modo assoluto. L’armonia scintillante del corpo rimandava infatti a qualcosa di poetico, come se Bosie non fosse di questo mondo. (…) Lui è l’apollineo formale, l’incarnazione del bello ellenico, lo stesso delle pagine neoclassiche di Winckelmann con un tanto in più di sdolcinatezza e aristocratico capriccio, quale si ritrova negli angeli e putti della pittura panteistica rinascimentale.» Per riassumerlo con le parole di Wilde: «…in tutto e per tutto simile a un narciso, così bianco e oro.»
Bosie non è stato il primo ragazzo con cui Wilde strinse una relazione. Primo in ordine di tempo fu il pittore Frank Miles (nel 1876), poi a seguire Norman Forbes-Robertson, James Rennel, Harry Marillier, Robert Ross, fino a John Gray (l’ultimo amante di Oscar prima di Bosie). Robert Ross (Robbie) rivestì sempre suo malgrado il ruolo satellite dell’innamorato respinto, eternamente paziente, mal celando la gelosia nei confronti del nuovo arrivato. Bosie è l’anti-Robbie. «Il più grande errore di Wilde – scrive David Leavitt ne La trapunta di marmo – (…) fu di scegliere come amante Bosie, invece di Robert Ross. Prendendo una simile decisione, Wilde si alleò decisamente con il rischio, l’incostanza e la passione (Bosie) invece che con la prudenza, la circospezione e il riserbo (Robbie).» La relazione tra Oscar e Bosie si suggella in modo stabile nel gennaio 1892. L’eccentrica coppia non fa nulla per nascondersi e, mostrandosi nei luoghi più esclusivi della città (dal Café Royal al Savoy Hotel), diviene presto di dominio pubblico. Wilde è all’apice della popolarità e le rappresentazioni delle sue opere teatrali gli garantiscono ingenti entrate di denaro. La celebrità lo fa sentire invulnerabile e la bellezza di Bosie lo acceca a tal punto dal fargli tralasciare ogni forma di prudenza. Nella bigotta età vittoriana bastava solo che certe eccentricità non fossero chiamate con il loro nome, ed essere un artista in senso lato costituiva l’alibi perfetto. Wilde ci sguazzò con tutto se stesso, totalmente ignaro dei pericoli cui andava sempre più esponendosi. Più forte agì il gusto per la provocazione e l’urgenza di estetizzare quanto più possibile i piaceri decadenti della vita. «La psicologia di Wilde – scrive De Fazi – agiva sotto l’influsso di un’irrefrenabile smania di sfida alla società inglese, tollerante solo se le apparenze fossero salvaguardate.» Questo chiacchierato sodalizio (osteggiato prima dal marchese di Queensberry e poi da tutta la società vittoriana), come abbiamo già ampiamente illustrato, si è alla fine concluso con un triste epilogo giudiziario.
Quando Wilde venne imprigionato Bosie scrisse un bellissimo articolo in sua difesa con l’intenzione di pubblicarlo sul Mercure de France. Per tutelare Bosie da quel che ne sarebbe seguito, Wilde riuscì ad impedirne la pubblicazione. Eccone alcuni estratti: «(…) L’incarcerazione di Oscar Wilde è una disgrazia e un oltraggio per la civiltà. Libertà e giustizia esigono che egli venga rilasciato prima che la barbarie del sistema carcerario uccida il suo corpo e annienti la sua anima. (…) Avviò la causa contro mio padre nel mio interesse e temo di averlo persino incoraggiato a farlo. (…) I testimoni chiave erano tutti dei ricattatori o delle marchette. (…) I nemici del signor Wilde e i sostenitori di Queensberry minacciarono di fare rivelazioni che avrebbero incriminato i membri anziani del partito di maggioranza, nel caso in cui il signor Wilde non fosse stato condannato. So con assoluta certezza che la polizia di Londra è in possesso dei nomi di più di 4000 persone, molte delle quali occupano elevate posizioni in politica, nelle arti e nella società, che sono note come pederasti abituali senza tuttavia essere incriminati. La semplice indignazione non basta a giustificare la ferocia di questa aggressione contro una sola persona: il signor Wilde è stato sacrificato per salvare la reputazione di una categoria. (…) Per quanto mi riguarda, io lo amo per la complessiva dolcezza del suo carattere, per la straordinaria generosità del suo cuore e per la sua eterna ed inesauribile tenerezza nei miei confronti. Lo amo per il suo magnifico intelletto, per il suo genio e la sua verve. Mi ha insegnato tutto ciò che vale la pena di conoscere. (…) Egli ha distolto la mia attenzione da ciò che era volgare e noioso nella vita, per indirizzarla verso ciò che era bello. Mi ha mostrato la forza e il potere dell’intelletto, la sua superiore forza spirituale (…) Non aspiro a guadagnarmi della simpatia attraverso delle menzogne, quindi non affermerò che l’amicizia tra me e il signor Wilde fosse un’amicizia comune, e nemmeno che somigliasse al sentimento di un fratello più grande nei confronti di un fratello più giovane. No, io affermo ora molto sinceramente, e faccio dono di questa ammissione ai miei nemici, che la nostra amicizia era amore, vero amore. Amore, certo, perfettamente puro, ma estremamente appassionato. (…) Se non mi avesse mai conosciuto, il signor Wilde oggi sarebbe un uomo libero, felice, onorato, adulato e circondato da tutti i lussi e le lusinghe della vita che egli amava così appassionatamente.» (dall’articolo In ricordo e in difesa di Oscar Wilde, presentato per la prima volta in versione italiana in appendice a: Lord Alfred Douglas, Io e Oscar Wilde, Edizioni Libreria Croce, 2008, a cura di Paolo Orlandelli).
Per espressa volontà di Wilde quest’articolo, molto compromettente per Bosie, non venne mai pubblicato. Il testo è sincero, molto più vicino alla verità che a una versione rimodellata della verità. Sebbene lasci intendere che il loro amore fosse stato assolutamente platonico (una bugia necessaria, perché in quegli anni, non lo dimentichiamo, l’atto omosessuale era perseguito penalmente) questo defending Wilde suona in molti passaggi come un eroico coming out ante litteram. Nel 1914, come vedremo più avanti, Bosie assumerà una posizione diametralmente opposta.
Diciamo subito che esistono sostanzialmente due Bosie: quello sofferente e solidale che si dispera per l’incarcerazione del suo celebre amico e quello che, una volta letta la versione integrale del De Profundis, dichiara guerra a Wilde e alla sua cerchia di sostenitori (in primis Robert Ross). Pomo della discordia il libro di Arthur Ransome (ispirato da Robert Ross) Oscar Wilde: A Critical Study, pubblicato nel 1912. Attraverso questo testo Bosie viene a conoscenza dei contenuti del De Profundis, parole durissime e inequivocabili che, nero su bianco, sancivano la sua colpa: aver causato la rovina di Wilde. È utile precisare che il De Profundis, la lunga Epistola: in Carcere et Vinculis che Wilde scrisse a Bosie nei primi mesi del 1897, venne pubblicato in versione ridotta nel 1905 e in una leggermente più estesa nel 1908. Nel 1909 Robert Ross deposita il manoscritto integrale al British Museum, col vincolo di non renderlo pubblico fino al 1959. Wilde diede disposizioni a Ross di consegnare l’originale a Bosie (il destinatario) nel 1897, ma questo non avvenne. Come sottolinea De Fazi: «…Ross tenne l’originale per sé e mandò la lettera dattiloscritta a Bosie, che si limitò a leggere le prime righe e a cestinare tutto. Bosie non aveva capito a suo tempo che la lettera lo riguardava, anche perché Ross era intervenuto sul testo.»
Eccone alcuni passaggi salienti (nella bellissima traduzione di Oreste del Buono del 1979): «(…) Devi leggerti questa mia lettera dal principio alla fine, anche se ogni sua parola può diventare per te come il fuoco o il coltello del chirurgo che brucia o fa sanguinare le carni delicate. (…) Ricorda pure che tutto quanto ti rende infelice, a leggerlo, ha reso me infelice, a scriverlo. (…) Rimprovero me stesso per aver lasciato che un’amicizia non intellettuale, un’amicizia il cui scopo principale non era la creazione né la contemplazione di cose belle, dominasse interamente la mia esistenza. (…) Rimprovero me stesso, senza riserve, per la mia infinita debolezza. (…) Rimprovero me stesso per aver lasciato che tu mi guidassi alla completa e disonorante rovina finanziaria. (…) La tua continua bramosia d’una esistenza di sfrenata dissipazione, le tue continue richieste di denaro, la tua pretesa di farti pagare ogni piacere, ogni svago da me, fossi o non fossi al tuo fianco, mi ridussero in breve tempo in serie difficoltà finanziarie (…) Ogni tanto, certo, è una gioia avere la propria tavola imporporata di vino e di rose, ma tu oltrepassasti ogni misura e temperanza. (…) Ah! Non avevi scopi nella tua vita, tu, avevi solo appetiti. (…) Eri stato un fannullone a scuola, e qualcosa peggio d’un fannullone all’università. (…) Ma soprattutto mi rimprovero per la completa depravazione etica a cui ti permisi di trascinarmi. (…) Tu mi consumasti. Fu il trionfo della natura inferiore su quella più grande. (…) Sinché tu fosti al mio fianco, costituisti l’assoluta rovina della mia arte (…) Dopo aver trionfato sul mio genio, la mia forza di volontà, la mia fortuna, esigesti, nella cecità della tua cupidigia insaziabile, che ti sacrificassi la mia vita. (…) Ti cedetti sempre. (…) La tua mira più infima, la tua voglia più bassa, la tua passione più volgare diventarono per te le leggi (…) a cui l’esistenza degli altri, se necessario, doveva venire sacrificata senza scrupolo alcuno. (…) Quella lettera che ricevetti da te la mattina in cui ti permisi di guidarmi al commissariato di polizia, a chiedere grottescamente un mandato di cattura contro tuo padre, fu proprio una delle peggiori da te scrittemi, e per il motivo più vergognoso, poi. Preso tra voi due avevo perso la testa. Ogni capacità di decidere, di giudicare m’aveva abbandonato. (…) Quello che al mondo e a me pareva il mio futuro, lo persi irrimediabilmente quando mi lasciai indurre a intentare causa a tuo padre. (…) Naturalmente, avrei dovuto liberarmi di te. Avrei dovuto scrollarti dalla mia esistenza come ci si scrolla dagli indumenti qualcosa che ci ha infastidito. (…) tu dovrai un giorno riflettere seriamente su quanto hai fatto e cercare, anche se inutilmente, di espiare. Il fatto che non ne sarai mai veramente capace sarà parte del tuo castigo. Non puoi lavarti le mani da ogni responsabilità (…) Se in questa lettera una sola frase ti potrà inumidire gli occhi, ebbene piangi, come noi piangiamo in questa prigione ove il giorno è consacrato, non meno della notte, alle lacrime. È l’unica tua possibilità di salvezza. (…) non scordare in quale tremenda scuola sto svolgendo i miei compiti. E, per quanto incompleto e imperfetto io sia, tuttavia da me hai ancora molto da imparare. Sei venuto a me per conoscere il piacere di vivere e il piacere dell’arte. Forse io sono destinato a insegnarti qualcosa di ben più stupendo: il significato del dolore, la sua bellezza.»
Questo è il ritratto che Oscar fa di Bosie nelle pagine dolenti del De Profundis. Parole pesanti, taglienti, ma mai gratuitamente sprezzanti. L’offensiva, pur trasudante risentimento, gronda di malcelato affetto. Oscar ama ancora il suo ragazzo di rosa, lo rimprovera, come rimprovera se stesso, ma lascia aperto il dialogo. Il De Profundis, infatti, si offre come una lettera che attende una risposta, un controcanto. «Non v’è carcere al mondo in cui l’amore non riesca a penetrare. (…) Qualsiasi cosa tu debba dire su te, dilla senz’esitare. Scrivi solo quel che pensi: questo è tutto. Se qualcosa nella tua lettera sarà falsa o menzognera, la scoprirò immediatamente, al suono. (…) Ricorda che devo ancora conoscerti. Forse dobbiamo ancora conoscerci tutt’e due.»
Nel suo Critical Study, per prudenza, Ransome non fa espressamente il nome del responsabile, ma lo lascia intendere. Bosie, furioso, lo trascina in tribunale. Non ci sta ad apparire agli occhi del mondo nei panni del mostro. Per un abbondante decennio ha dovuto difendersi dai continui attacchi di una società che non si è fatta scrupolo di usarlo come capro espiatorio, additandolo quale unico e solo responsabile della dèbacle wildiana. Ed ecco ora questo libro sferrargli il colpo di grazia. Risale al 18 aprile 1913 il processo per diffamazione “Douglas contro Ransome”. Bosie perde la causa. Veniva sancito così, ufficialmente, che era stato lui la causa della rovina di Wilde.
Messo alla berlina, colmo d’odio e di rancore, il quarantaquattrenne Bosie ordisce la sua vendetta dando alle stampe nel 1914 il pamphlet Io e Oscar Wilde, opera che poi rinnegherà attribuendola alla mano di Thomas W. H. Crosland. Su Wilde, nel corso degli anni, Bosie ha scritto tutto e il contrario di tutto. In questa faziosa replica al De Profundis – «un forsennato attacco contro di me (…) un coacervo di isteriche menzogne» – Bosie demolisce Wilde come uomo e come artista, screditandolo sotto ogni singolo aspetto della sua personalità e del suo operato. Lo riduce letteralmente alla caricatura di un effimero e decadente poseur, un «uomo navigato» che circuisce con «venefiche malìe» l’ingenuità di un «giovane sprovveduto». Prima di affondare il coltello nella piaga Bosie informa i suoi lettori che «Già molto prima di venire a conoscenza del De Profundis inedito, la mia opinione sulla sua persona e la mia stima del suo valore artistico avevano subìto un profondo mutamento.» Definisce i suoi scritti «esageratamente sopravvalutati» e, citandone arbitrariamente alcuni passaggi, li ridicolizza come «ovvie e perverse tautologie» o «semplici chiose di stantii enunciati critici». Bosie parla da poeta. Quando scrive questo pamphlet ha già all’attivo otto pubblicazioni di indubitabile pregio, dai Poems del 1896 ai Sonnets del 1909. Conosce i punti deboli della produzione di Wilde e sa bene come infierire. «Ha scritto dei versi passabili e della buona prosa, ma non ha scritto versi o prosa migliori di tanti altri che hanno vissuto nella sua epoca e i cui scritti sono stati dimenticati. (…) Non è interesse della letteratura che qualunque scrittore, per quanto capace, venga onorato e adulato al di sopra dei suoi meriti. (…) Se Wilde sopravviverà come poeta, lo dovrà a La ballata del Carcere di Reading.»
La demolizione funziona di più se alternata a qualche concessione. Per Bosie l’opera poetica di Wilde si regge solo con «abili e a volte brillanti imitazioni» perlopiù di Milton, Keats, Marlowe, Browning e di Tennyson, nient’altro che «patacche, fredde e iper-colorate, create nello spirito dell’adesso vi faccio vedere di che cosa sono capace». Senza mezzi termini sentenzia che nella poesia wildiana non c’è nulla «di veramente grande, di veramente nobile e di veramente bello» ma solo «sentenziosità, grandiosità ed elaborati classicismi, confezionati con l’aiuto di una retorica che a volte rasenta la ridicolaggine». Eleggendolo a mero e manieristico compilatore di periodi «iper-zuccherati e ultra-indorati», Bosie spoglia “il Principe del Linguaggio” d’ogni dignità autorale. Pagina dopo pagina i toni si fanno sempre più offensivi e canzonatori. «Wilde intendeva costruire un palazzo ingioiellato per la sua dubbia e oscura immaginazione, ma è riuscito solo a mettere in piedi un bazar di vecchi oggetti posticci ed eccessivamente sgargianti.» Quanto alle commedie, queste «non sono né letterarie, né intellettuali, ma le solite cose che facevano divertire Londra a quell’epoca; con un misto di paradossi, ironia, idiozia e ipocrisia, tipici di Wilde.» In sintesi Bosie liquida Wilde come fatuo e depravato, astuto autore di «poesie fiacche», di «commedie stupide», di testi critici «rubacchiati da Whistler» e – riferendosi al Dorian Gray, «un sermone il cui unico interesse giace nelle sue oscenità» – di «romanzi oltraggiosi».
Demolito l’artista, demolito l’uomo. Del geniale esteta non resta che un pagliaccio scurrile, un arrampicatore sociale, uno snob, un bevitore abituale (mai completamente sobrio), uno che «predica sempre (apertamente o velatamente) che il vizio è più interessante della virtù, che il cinismo e l’indifferenza sono più affascinanti della gentilezza e dell’altruismo, e che l’unico scopo della vita è quello di mangiare, dormire ed essere depravati quanto vogliamo purché lo siamo in modo aggraziato.» Bosie rigetta inoltre ogni addebito: «io spesi per Wilde molto più di quanto lui abbia speso per me» e ribadisce che «non forzai Wilde a intentare una causa contro mio padre.» Ne consegue che il succo del pamphlet è il seguente: «la persona che ha rovinato Oscar Wilde, che ha corrotto la sua esistenza e provocato la sua disgrazia, è Oscar Wilde medesimo.»
Ascoltate le due campane – il De Profundis da un lato e Io e Oscar Wilde dall’altro – resta da stabilire dove vada ricercata la verità. Sotto molti aspetti le ragioni argomentate da entrambi sembrano non fare una piega, ma con molta probabilità la verità (se una verità c’è) è da ricercare nel mezzo, in un concorso di colpa che li vide entrambi vittime e carnefici. Su tutto, prima di ogni altra cosa, agì il contesto storico, il marciume puritano della società vittoriana. Va detto però che relativizzare così il quadro complessivo dell’affaire Wilde-Douglas non fa onore allo storico. Se il ragazzo di rosa fu un fleur du mal lo fu in relazione all’autolesionismo di Wilde. Perché mai, si domanda De Fazi, non dovremmo credere alla versione di Bosie? Come abbiamo detto, l’analisi storico-critica improntata in Defending Bosie (certo non ortodossa, qua e là temeraria, ma non priva di considerazioni interessanti) ha il merito di illuminare l’intera vicenda sotto una luce nuova, meno impietosa nei riguardi del bellissimo Lord che certo non fu un angelo, ma neanche un demone.
Lungi dal profilarsi come mera apologia di Lord Alfred Douglas finalizzata alla demistificazione di Oscar Wilde, il libro di De Fazi indaga (dettagliatamente e con attento spirito critico) tutte le componenti che hanno agito all’interno della liaison più chiacchierata dell’età vittoriana. Analizzando le singole personalità (complesse, smodate, contraddittorie) l’autore ne mette a nudo i veri caratteri, smascherando le dinamiche di un rapporto passionale tanto esclusivo quanto distruttivo. De Fazi risolleva Bosie dal fango per presentarlo, in primis, come poeta (un poeta che compone sonetti di ispirazione petrarchista). Nel ripercorrere i momenti più significativi della sua vita – il rapporto conflittuale con l’odiato padre, l’abbandono degli studi universitari, la precoce vocazione poetica e l’altrettanto precoce consapevolezza del proprio orientamento sessuale, l’incontro fatale con Wilde e, di lì, tutto quel che ne è conseguito fino al matrimonio con la poetessa Olive Eleanor Custance (1902), alla conversione al cattolicesimo tradizionalista (1911) e alle malcelate simpatie filonaziste – De Fazi tratteggia la figura inquieta di un uomo che, nel bene e nel male, si è andata continuamente riformulando.
Dal matrimonio, naufragato in tempi brevi, nasce Raymond Wilfred Sholto Douglas, affetto da schizofrenia. Tra il 1907 e il 1910 Bosie dirige la rivista letteraria The Academy e pubblica i suoi Sonnets (1909). La sua bibliografia – tra raccolte di poesie, testi autobiografici, interventi critici e traduzioni – va incrementandosi negli anni, sebbene con scarsi tornaconti economici. Nel 1913, subissato dai debiti e da una procedura di fallimento civile, dichiara bancarotta e sopravvive grazie al denaro della madre. Dopo Oscar Wilde and Myself (1914) – rieditato cinque anni dopo con una nuova prefazione in cui dichiara di essere «venuto al mondo soprattutto per essere, volente o nolente, lo strumento necessario a denunciare e distruggere il culto di Wilde» – e The Collected Poems (1919), traduce in inglese l’opera antisemita I Protocolli dei Savi Anziani di Sion (1919). Tra il ’20 e il ’21 fonda i settimanali Plain English e Plain Speech. Nel ’23, attraverso un libello, accusa Winston Churchill di aver preso parte a un complotto contro il ministro Lord Kitchener; Bosie finisce in carcere per sei mesi a Wormwood Scrubs, e qui compone i sonetti poi raccolti nella pubblicazione In Excelsis. Nel 1929 esce The Autobiography. Ritornerà su Wilde nel 1940 con Oscar Wilde: A Summing Up (una ritrattazione parziale del pamphlet del ’14). Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale lascia Londra e si stabilisce da una coppia di amici nel West Sussex. Muore il 20 marzo 1945 per insufficienza cardiaca. Il Bosie della maturità è lontano anni luce dal Bosie degli anni wildiani, sebbene la damnatio memoriae (l’imperdonabile colpa d’aver cagionato la rovina del Principe del Linguaggio) lo abbia perseguitato fino all’ultimo.
Questa difesa (stilata dopo attenta rilettura degli atti) ridimensiona una per una tutte le sue colpe ed è Wilde ad uscirne, se non infangato, quanto meno principale responsabile. Per De Fazi il passo falso di Wilde non fu Bosie in sé ma la sciocca imprudenza commessa nel querelare il marchese di Queensberry. Sarebbero bastati solo un po’ di buon senso e di lungimiranza per scongiurare la catastrofe, ma come sappiamo le cose andarono diversamente. Wilde pagò, ma pagò anche Bosie, bersaglio di ripetuti attacchi che si susseguirono per decenni minandolo nella vita come nella carriera letteraria. Il suo velenoso pamphlet contro Wilde del 1914 contiene molte falsità ma anche molte verità. De Fazi è concorde con Bosie quando questi definisce La ballata del Carcere di Reading «un’opera che svetta al di sopra di qualunque altra produzione di Wilde».
Il prologo di Defending Bosie si apre con la seguente affermazione: «La produzione letteraria di Oscar Wilde è inferiore alla personalità dell’autore. Wilde non è stato un grande scrittore.» De Fazi ridimensiona Wilde definendolo grande solo su un piano extratestuale, più nel potenziale che nella produzione effettiva. Giudica Il ritratto di Dorian Gray un «romanzo bigotto» e «decorativo», opera di un esteta decadente capace di «farsi dandy solo in tribunale e in carcere, e nei pochi, derelitti e elemosinanti anni di libertà successiva.» Di contro però elogia il Teleny (romanzo smaccatamente omosessuale attribuito per buona parte a Wilde), come una delle sue opere migliori e concretamente trasgressive. Quanto al De Profundis, lo considera più una testimonianza esistenziale che un’opera strettamente letteraria; buone le commedie e gli scritti critici, ma le poesie (anche qui è d’accordo con Bosie) le definisce “di scuola” e manieristiche. «Wilde – sintetizza nell’epilogo – è stato più grande come emblema che non come scrittore. (…) Se non avesse dovuto subire processi e affrontare la sorte avversa, mai, attraverso le opere, avrebbe potuto assurgere alla grandezza tuttora affascinante del personaggio.» De Fazi non dimentica di sottolineare che fu Wilde stesso a dichiarare di aver concentrato tutto il genio nella sua vita e solo il talento nella sua opera. Questo ridimensionamento di Wilde, funzionale alla riabilitazione di Bosie, diciamolo, è troppo semplicistico per riuscire convincente; sostenere che Wilde non sarebbe mai stato Wilde senza la sua fine tragica è un’affermazione che non va al di là dell’opinione soggettiva (lo stesso si potrebbe allora dire di Pasolini).
«Leggendo e rileggendo Wilde – scrive Jorge Louis Borges – (…) noto un fatto di cui i suoi panegiristi non hanno forse avuto nemmeno il sospetto: il fatto elementare e facilmente verificabile che Wilde ha quasi sempre ragione.» La grandezza di Oscar Wilde (indubitabile sotto il profilo letterario) va necessariamente compresa in quel cortocircuito tra arte e vita che scandì la curva discendente della sua produzione. «E nel tracollo, più che nell’apogeo della sua fortuna, – sottolinea Richard Ellmann nell’imponente biografia dedicatagli nel 1984 – «egli rivelò con piena evidenza quale fosse la sua tempra.» Intese l’opera (e di riflesso la vita) come atto performativo, molto in anticipo rispetto alle Avanguardie del primo Novecento. Bosie stesso, in vita come nella posterità, assurge a opera di Oscar Wilde (ed è leggibile in quanto tale). Il ragazzo di rosa, «giglio tra i gigli», «bianco narciso in un campo non mietuto» incarna una perfezione che l’arte può solo pallidamente scimmiottare. In una lettera del 20 maggio 1895 Oscar Wilde scrive: «Tu per me sei la perfezione (…) tu sei il mio ideale di ammirazione e di gioia (…) Quello che la saggezza è per il filosofo, quello che Dio è per il suo santo, tu lo sei per me.» Bosie, archetipo ellenico incarnato, è dunque un’opera in progress di Wilde, un ibrido tra il Dorian Gray, il De Profundis e La ballata del Carcere di Reading, un’opera destinata a vivere di vita propria, sganciata dal suo autore.
Le lettere che Oscar scrisse per Bosie (purtroppo la gran parte sono andate perdute) contengono passaggi di altissima letteratura: «…il mio cuore è una rosa che il tuo amore ha fatto sbocciare, la mia vita è un deserto rinfrescato dalla brezza deliziosa del tuo respiro, e dove i tuoi occhi sono fresche fonti; l’impronta dei tuoi piedini mi scava valli d’ombra, l’odore dei tuoi capelli è come mirra, e dovunque tu vai, esali i profumi dell’albero di cassia.» Nell’immaginario collettivo, a dispetto d’ogni oggettiva ricostruzione storica, Bosie è l’amato indegno, il cattivo della storia, il papavero bianco che obnubilò la lucidità del grande scrittore irlandese.
Nel suo saggio «a tratti scorretto, piacevolmente non ortodosso» – come scrive Paolo Crimaldi nella prefazione – De Fazi ridistribuisce più equamente le singole colpe facendo affiorare, con prepotenza, il lato umano più autentico dei due personaggi. Molti interrogativi restano aperti, com’è giusto che sia, perché in fondo quella tra Oscar e Bosie non fu null’altro che una tormentata storia d’amore consumata in un contesto ostile. Pur poggiando su confutabili licenze critiche, l’accorata disamina di Defending Bosie offre un contributo prezioso e particolarmente interessante perché approccia l’intricato affaire da un’angolazione nuova e poco indagata.
Per approfondire la figura di Lord Alfred Douglas: Rupert Croft-Cooke, Bosie.The Story of Lord Alfred Douglas, his friends and enemies (1963); Harford Montgomery Hyde, Lord Alfred Douglas. A Biography (1984); Douglas Murray, Bosie. A Biography of Lord Alfred Douglas (2000); queste opere non sono ancora disponibili in traduzione italiana. Altri testi di riferimento: Alberto Vittor Ugo Zioni, Il Garofano Blu. Per la prima volta tutto il racconto della vita di Lord Alfred Douglas, l’adorato amico di Oscar Wilde (Simonelli Editore, 1999); Lord Alfred Douglas, Io e Oscar Wilde (a cura di Paolo Orlandelli, Edizioni Libreria Croce, 2008) e il recentissimo: Alfred Bruce Douglas, A Oscar Wilde. Due amori e altre poesie (traduzione di Cristiano Ferrarese), Poesie e amore omosessuale nell’Inghilterra vittoriana, Oligo Editore, 2018.
Massimiliano Sardina
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 38 | marzo 2019
Copyright 2019 © Amedit – Tutti i diritti riservati
RICHIEDI COPIA CARTACEA DELLA RIVISTA