ftm Storie di ordinaria transizione
MAURIZIO
Testimonianza raccolta da Simone Daddario
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 37 | dicembre 2018
Avevo tredici anni quando mi hanno diagnosticato ufficialmente il DIG. Queste tre lettere a molti non diranno nulla. Gli ftm e le mtf sanno però perfettamente di che cosa si tratta. Stanno ad indicare la disforia di genere (prima denominata disturbo dell’identità di genere), ovvero il malessere percepito da un individuo che non si riconosce nel proprio sesso fenotipico o nel genere assegnatogli alla nascita. Il DIG, meglio specificarlo subito perché circola al riguardo molta ignoranza, è indipendente dall’orientamento sessuale. Margherita è il nome che mi è stato assegnato alla nascita. Un bellissimo nome. Il nome di un fiore. Se nasci femmina hai molte probabilità che ti diano un nome delicato e soave come Margherita o, che so, Violetta, ed io ero nato femmina, con tutti gli attributi che contraddistinguono una femmina. Non è il caso che specifichi quali. Ci siamo capiti. Cresci, e ti ritrovi vestito di rosa in una cameretta tutta rosa, con una barbie in mano, pure lei tutta rosa.
Che qualcosa non tornava l’avevo già capito, e manifestato, intorno ai cinque anni. Sono sempre stato un bambino molto sveglio e determinato. Niente gingilli, treccine e stelline glitterate. Ero fatto per il fango, per le biciclette, per le arrampicate, per tutto ciò che richiedesse azione e sprezzo del pericolo. Lo stereotipo del maschiaccio. È così che mi apostrofavano tutti, ma non con un tono di rimprovero. In fondo, apparivo solo come una birba energica e iperattiva che invece di pettinare bambole preferiva scorrazzare e fare capriole. Suscitavo simpatia, persino approvazione. Finché giochi stai solo giocando. I primi sguardi preoccupati e sospettosi li ho avvertiti intorno ai dieci anni. A quell’età incarnavo ormai troppo l’antitesi della femminilità. L’insofferenza e il disagio li ho portati sempre dentro di me, ma sono esplosi con violenza solo il giorno delle mie prime mestruazioni. Lì ho davvero realizzato di avere un grosso problema, un problema più grande di me. Ti guardi e non ti riconosci. Eviti gli specchi perché ti riflettono per come appari, per come sei. Ma tu sei un’altra cosa. Bisogna passarci per capire. Ti chiudi perché capisci che nessuno può aiutarti.
La famiglia, quella che dovrebbe proteggerti e spianarti il cammino, la famiglia, spesso è la prima a chiudere gli occhi. Sperano che si tratti di una fase. Sperano che prima o poi, magari con lo sviluppo, Margherita si metta la gonna e spenda la paghetta in fondotinta. Sperano. Mentre tu invece speri di risvegliarti da quell’incubo che è la tua quotidianità. Non hai tempo e modo di farti altri problemi perché il problema sei tu. Non auguro a nessuno un’adolescenza come la mia. Tutte le armi per combattere la battaglia devi creartele da solo. All’inizio non hai strumenti, non hai punti di riferimento, non hai modelli. Quello che rimprovero ai miei e a mia sorella maggiore è il non avermi mai parlato, mai domandato. Quel silenzio, carico di tensione, ha alimentato in me la vergogna e un profondo senso di inadeguatezza. Sono cresciuto in fretta, intrappolato in un corpo che non sentivo mio, marchiato da un sesso che non sentivo mio. Mi muovevo in modo impacciato, mi sentivo sempre fuori posto, ingombrante, incollocabile, una nota stonata. La non coincidenza tra ciò che mio malgrado ero e ciò che invece sentivo davvero di essere si traduceva in un perenne senso di vertigine. Soffrivo spesso di forti emicranie e di fitte allo stomaco. Di tutta quella sfrontata esuberanza che aveva caratterizzato la mia prima infanzia non rimaneva praticamente più nulla. Mi sono andato lentamente spegnendo, proprio in quella fase dell’età dove invece sarei dovuto fiorire.
A dispetto del petto, che si faceva ahimè più pronunciato, il mio aspetto sprizzava un’involontaria mascolinità. Attiravo occhiate di disapprovazione, ma giuro che non facevo nulla per mortificare quel po’ di femminilità che la natura mi aveva dato in dotazione. Nella mia gestualità, nel mio modo di pormi, ero assolutamente estemporaneo. Non forzavo i toni, non cercavo di apparire più maschio di quello che già ero. Inutile dire quanto a scuola fossi isolato. Non tanto alle elementari, ma alle medie. In assoluto il periodo più difficile della mia vita. Quando il malessere raggiunse il culmine, credo intorno ai dodici anni, feci l’unica cosa che evidentemente fui in grado di fare: smettere di mangiare. Attirai così, finalmente, l’attenzione dei miei genitori. Mi portarono da uno psicologo e, a farla breve, tutto il mio percorso è cominciato da quella prima seduta.
L’iter per il percorso di riattribuzione sessuale prevede tappe ben precise. Psicologi e psichiatri hanno l’arduo compito di constatare, contro ogni ragionevole dubbio, quello che viene definito “il malessere persistente”. Se il dialogo con queste figure preposte si traduce nella compilazione di “documentazione positiva” allora si ottiene il via a procedere. Aprirsi, mettersi a nudo, scoperchiare il proprio disagio, vomitare fuori tutto il veleno. Quando ho realizzato che chi avevo di fronte voleva solo aiutarmi mi è sembrato di toccare il cielo con le dita. Ho avuto la fortuna di incontrare persone straordinarie lungo questo mio percorso, professionisti nel vero senso della parola. Se solo avessi trovato in famiglia un misero dieci per cento di quello che ho trovato in sede di terapia. Il supporto psicologico è stato fondamentale. Negli anni mi ha aiutato a compiere i passi giusti nei tempi giusti. A diciotto anni e un giorno ho cominciato la terapia ormonale sostitutiva. Quando l’endocrinologo mi ha fatto la prima iniezione di testosterone ho detto definitivamente addio a Margherita. Una puntura dolorosissima ogni due mesi e mezzo è il prezzo che si deve pagare. L’assunzione di ormoni dura per tutta la vita: testosterone per gli ftm, estrogeni e antiandrogini per le mtf. Non proprio delle zigulì. Gli effetti sono visibili in breve tempo. Compiuti i vent’anni di Margherita restavano solo le fotografie. Ero finalmente Maurizio. O meglio, sono sempre stato Maurizio, ma mi mancavano, come dire, le credenziali.
Osservare il proprio corpo che si trasforma gradualmente andando ad allinearsi con l’anima che lo muove e lo fa vibrare è stata un’emozione indescrivibile. Un prodigio. Il rapporto con lo specchio si fa stretto. Stai lì a contarti i peli che spuntano ovunque, anche nei punti dove non ti aspetti. La struttura del corpo si modifica perdendo rotondità e acquisendo definizione. Parallelamente anche l’equilibrio mentale ne trae beneficio. Io, riannodato ai fili della mia identità, ho potuto finalmente tirare fuori il mio temperamento, la mia personalità, prima come trattenuta. Ed è arrivato l’amore. La mia prima ragazza. Tutta quella normalità che avevo sempre desiderato per me. Il passo successivo è stata la mastectomia, ovvero l’asportazione dei seni. L’operazione l’ho fatta a Losanna, in Svizzera, in una clinica specializzata in interventi demolitivi. Per effettuare questo tipo di operazioni c’è tutta una prassi che si deve seguire. Dopo aver raccolto la documentazione stilata dai medici (endocrinologo, psicologo e psichiatra) ci si rivolge a un avvocato che richiede l’autorizzazione per effettuare gli interventi demolitivi. Una volta ottenuta la sentenza, solo allora si può procedere.
La rettifica anagrafica e il conseguente adeguamento dei propri documenti d’identità fanno da coronamento a tutto il percorso di transizione. Leggere Maurizio nero su bianco mi ha scaldato il cuore. Ha risarcito tanti anni di anonimato. Oggi ho trentaquattro anni e sono un uomo sereno. Almeno ci provo. L’unico tasto dolente restano i miei genitori e quella gran biologica di mia sorella. Taciturni erano, taciturni restano, preda di un imbarazzo che, con ogni evidenza, non sanno gestire. I rapporti si sono molto relativizzati, con buona pace di tutti. Quella Margherita non l’hanno proprio saputa o voluta cogliere. Non ce l’ho con loro, preferisco guardare oltre. Già cambiare me è stata un’impresa estrema, ma cambiare gli altri… lasciamo perdere.
E Margherita? Margherita si è polverizzata. Adesso tocca a lei vivere nell’ombra. Non l’ho dimenticata, anzi la ricordo con una certa tenerezza. So che è il testosterone a premerla giù, che se smettessi di assumerlo lei riaffiorerebbe, seppure in una forma flebile. Ma, mi dico sdrammatizzando, qualcuno o qualcosa deve pur darmi una mano a mettere ordine in questa vita. Benedette siano la medicina e la chirurgia. Questo lo dico anche perché il prossimo giugno mi sottoporrò all’ultima operazione, la più invasiva e risolutiva di tutte. Mi riferisco alla rimozione dell’utero, delle tube di falloppio e delle ovaie. Il termine tecnico è istero-annessiectomia, fa paura solo a nominarlo. L’intervento ricostruttivo dei genitali, la falloplastica, è lo step finale. Lo farò negli Stati Uniti e prego Dio che vada tutto bene. La decisione comunque è presa. Oggi questo tipo di operazioni danno risultati incredibili, e non solo sul piano estetico. Sono fiducioso, anche se al tempo stesso cerco di contenere quanto più possibile le aspettative. La mia compagna è un sostegno prezioso. Sono un uomo fortunato.
Spero che questa mia testimonianza possa essere d’aiuto a qualcuno, lo spero davvero con tutto il cuore. Il vero problema per le persone come noi non è la società, l’astratta società, ma la famiglia. È lì che spesso, troppo spesso, vengono a mancare la complicità e il sostegno. Sono parole forti, lo so, ma le cronache parlano chiaro. Ragazzi e ragazze messi alla porta, gettati in strada come sacchi della spazzatura. È dentro le mura domestiche che si fanno le grandi rivoluzioni. Io non sono stato cacciato di casa, questo no, ma mi è mancata una cosa fondamentale: il dialogo. Ecco, vorrei concludere così. Parlate con i vostri figli, ascoltateli, non considerateli dei vostri cloni.
Maurizio, Novara
Testimonianza raccolta da Simone Daddario
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