LA COLLEZIONISTA
un racconto di Paolo Schmidlin
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 37 | dicembre 2018
Mi portavo sempre nel letto la bambola;
gli esseri umani hanno bisogno di amare qualcosa e,
in mancanza di un oggetto più degno di tenerezza,
mi studiavo di provare piacere amando e vezzeggiando
un piccolo idolo sbiadito, malridotto come uno spaventapasseri.
(Charlotte Brontë, Jane Eyre)
Molti anni fa soggiornai per qualche giorno a Rouen, in Normandia; avevo prestato alcune sculture al Musée des Beaux Arts per una mostra. Era un marzo ventoso, con rovesci di pioggia che si alternavano a improvvisi squarci d’azzurro. Dopo ogni scroscio la città sembrava abbandonarsi beata a quel tiepido sole nordico che preannunciava giornate più miti.
Un amico che vive lì da anni si prestava a farmi da guida. “Voglio portarti a conoscere una persona. Una collezionista. So che ti può interessare” mi disse un pomeriggio. Era al corrente dell’attrazione che esercitano su di me i giocattoli antichi, specie le bambole ottocentesche.
La casa – una villa di due piani, con la facciata in pietra e il tetto spiovente – era fuori Rouen, un po’ isolata, già in campagna. L’edificio doveva aver visto tempi migliori: le persiane erano screpolate, disseccate dalle intemperie, le tegole macchiate di muschio. Anche lo stretto giardino di fronte aveva un aspetto incolto, con intricati cespugli di caprifoglio e vecchi roseti coriacei, non potati da anni. Tuttavia la casa aveva una sua arcana bellezza; sarà stato per il silenzio, per gli alberi scuri che la incorniciavano sullo sfondo, o per il canale che scorreva lento dall’altra parte della strada. O forse era solo perché vi giungemmo in quell’ora in cui il pomeriggio volgeva al termine e il cielo era basso e denso di nuvole. Una bruma perlacea smorzava i colori. Dalle finestre si scorgeva all’interno la luce già accesa e questo faceva venir voglia di entrare e di ritrovarsi in una dimensione d’intimità e tepore.
La proprietaria era una signora anziana, magra magra, dai capelli grigi come l’abito che indossava. Polsini candidi ingentilivano l’insieme austero. Il viso segnato conservava uno sguardo limpido, attraversato a tratti da lampi d’ironia e di una furbizia quasi infantile.
Gli interni rivelavano esattamente ciò che ti saresti aspettato: una grazia d’altri tempi, un po’ delabrè. Vecchi pavimenti in legno, tappeti d’Aubusson consunti nei punti del quotidiano passaggio, tavolinetti con piccoli oggetti accostati a vecchie poltrone un po’ scomode, sulle quali cuscini fiorati erano posti ad arte per compensare gli avvallamenti nelle imbottiture sfibrate dall’usura. Alle pareti qualche dipinto scuro e ricami incorniciati; sui mobili portaritratti con vecchie foto senza più contrasto, già quasi del tutto svanite. Qua e là lampade dalle luci schermate. La nota di maggiore modernità era rappresentata da una televisione, vetusta e ingombrante, di quelle ancora con tubo catodico, piazzata in un angolo vicino a un cesto di gomitoli; dava l’idea di poter trasmettere solamente in bianco e nero. La sala principale attraversava la casa da parte a parte: in fondo una porta finestra permetteva di accedere al grande giardino sul retro che appariva umido e inospitale, reso cupo da alberi incombenti.
Dopo vari convenevoli e un tè annacquato, la signora ci chiede se ci fa piacere vedere la sua collezione di bambole antiche. Noi manifestiamo entusiasmo (del resto era il motivo della nostra visita) e così ci fa passare, da una porta laterale della sala, in uno studio buio e austero, pervaso da un odore di chiuso, di polvere, di tessuti ammuffiti. Le due grandi finestre che danno verso il giardino sul retro sono serrate, bloccate da rampicanti inselvatichiti che si insinuano qua e là anche attraverso le stecche delle persiane, aggrovigliandosi tra loro. “Era lo studio di papà. Non apro le imposte da anni…” ci dice “…le bambole temono la luce del sole”. Nel locale fa freddo, c’è qualcosa di respingente. Malgrado vi penetri un po’ di luce dalla porta della sala e dalle fessure degli infissi, l’oscurità è stranamente densa ed ha qualcosa di vivo che mette ansia. Quando la nostra ospite accende il lampadario centrale, la luce sembra pulsare e a momenti si affievolisce, come fosse risucchiata da misteriosi abbassamenti di tensione. Ci accorgiamo solo allora che le grandi librerie che occupano per intero le due pareti principali, sono popolate non da libri, ma da innumerevoli bambole in porcellana. Queste creature pallide però hanno ben poco di giocoso e di infantile. Ci osservano dagli scaffali con occhietti di vetro gelidi come lame, le bocche socchiuse sorridono… ma più che sorrisi sembrano ghigni. Alcune mostrano minuscoli denti. Ma ciò che colpisce di più è che la maggior parte di loro ha un’aria terribilmente malconcia, i capelli radi, appiccicati, acconciati con nastri smangiati dalle tarme; gli abiti sono logori, chiazzati di scuro, taluni a brandelli. I tessuti appaiono sfaldati, rosicchiati. Certi vestiti che dovevano essere chiari sono così pesantemente alonati di bruno che sembra siano stati a macerare in acqua putrida. Comunicano qualcosa di malato e d’infausto. Parecchie di loro rivelano sinistre mutilazioni: mancano mani, dita… una esibisce cavità scure al posto degli occhi, un’altra ancora ha la porcellana del viso aperta come una ferita. Io e il mio accompagnatore avvertiamo un brivido lungo la schiena.
“Sapete, queste bambole hanno tutte una storia un po’ particolare…” commenta la signora sorridendo “hanno fatto compagnia a tanti bambini nel loro lungo sonno”.
Noi ci guardiamo, ancora senza capire.
“Papà lavorava come ispettore sanitario, e fino al dopoguerra sovrintendeva alle operazioni di “manutenzione funeraria” dei cimiteri di tutto il nord della Francia. Quando tornava dai suoi viaggi aveva sempre una bella bambola in regalo per me”.
Cominciamo a realizzare; quello che intuiamo ci inquieta ed affascina allo stesso tempo.
“Sapete, capitava molto di frequente che, durante le esumazioni di bambini che erano morti intorno alla fine del secolo, tornassero alla luce le loro bambole. Era uso diffuso seppellirli con accanto il giocattolo più amato. Di quei poveri piccoli, dopo anni, restavano in genere solo qualche ciocca di capelli e qualche ossicino, fragile come cenere; ma le bambole riemergevano dalle tombe quasi sempre intatte. E mio padre le salvava per me…”.
La nostra espressione dev’essere stata quella sconcertata di chi si ritrova improvvisamente catapultato in un romanzo gotico.
“Spero non vi faccia impressione… era una cosa così tenera. Per me ogni volta era una festa. Ero una ragazzina di campagna, tutte queste bambole costose avrei potuto solo sognarle. Al suo ritorno papà apriva davanti a me, che fremevo d’impazienza, una borsa di cuoio – sempre la stessa – e lì sul fondo dormiva una bambola. Lui mi raccontava di come si chiamava la bambina cui era appartenuta, quanti anni aveva… a volte anche com’era morta. A molte di loro ho dato proprio il nome della loro “mammina” defunta. Quella lì con la cuffia di pizzo …” e ce ne indica una dall’aria affranta, con la testa di un bianco spettrale tristemente china in avanti. “…è tra le mie preferite . Forse perché è appartenuta a una ragazzina che è vissuta proprio da queste parti, nel villaggio vicino. Mi fu narrato che una mattina d’inverno di un secolo fa, giocando da sola, era scivolata nel canale… si, proprio quello che scorre anche qui accanto. Fu trascinata lontano dall’acqua gelida ma fu trovata la sua bambola , rimasta abbandonata sulla sponda: questo fece intuire che era successo qualcosa di terribile. La cercarono disperatamente e il corpo fu ritrovato solo molte ore dopo, incastrato in una chiusa per l’irrigazione. Lei si chiamava Sandrine e la bambola, che fu inumata con lei, ora è qui con me e ha il suo stesso nome”. Alla vecchia signora sfugge una risatina squillante che risuona in quell’aria densa e greve come un sudario.
“Non ho mai voluto ripulirle… Ho sempre avuto la sensazione che così restasse loro addosso un po’ della vita di quei bambini che le avevano tenute strette nel buio della bara. Sono state la loro unica compagnia, le amiche che li hanno confortati in quell’immensa, spaventosa solitudine. Le hanno macchiate col disfacimento dei loro corpicini”.
Poi si fa pensosa, sembra che parli tra sé: “Ogni volta che papà arrivava con una nuova pupa la mia povera mamma s’inalberava ed erano urla, scenate. Era una donna bella e diafana – sembrava anche lei modellata nel bisquit – ma era debole di nervi. Non voleva neanche vederle le bambole, le detestava, diceva che ci portavano in casa le malattie. Figuriamoci poi quando papà mi portava una pupa appartenuta a una bambina che si era spenta consumata dalla tisi o colpita da una febbre tifoide… in casa succedeva il finimondo! La verità è che lei poi mamma è morta giovanissima… ed io sono ancora qui, alla mia età. Insieme alle mie piccole”.
Un brontolio di tuono interrompe il nostro sbigottito silenzio. Le bambole nella luce fioca sembrano respirare e la stanza chiusa è attraversata come da uno spiffero gelido. Si percepisce in modo palpabile che qualcosa di quegli sfortunati bambini è davvero rimasto attaccato a quelle creature mute e aleggia attorno a noi: il dolore, lo smarrimento, la nostalgia del vivere. Ma non è qualcosa di poetico, è qualcosa di maligno.
“Oh, caspita… si è fatto proprio tardi! Meglio che andiamo prima che ricominci a piovere…” il mio amico cerca di guadagnare l’uscita di quello studio infestato. Io, lesto, gli vado dietro.
“Non volete fermarvi per cena? Vi preparo qualcosa di leggero… sono sempre qui sola”.
“Come se avessimo accettato signora, ma dobbiamo proprio rientrare. Sarà per la prossima volta.”
L’amabile vecchietta ci accompagna e si ferma sulla soglia a salutarci. Mentre ci allontaniamo, la vediamo un po’ esitante fare ciao ciao con la manina ossuta, mentre cadono le prime pesanti gocce di pioggia.
Dentro le bambole, nell’ombra, la attendono.
Paolo Schmidlin
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 37 | dicembre 2018
Copyright 2018 © Amedit – Tutti i diritti riservati
RICHIEDI COPIA CARTACEA DELLA RIVISTA