LA MALATTIA DEL SECOLO | Mirbeau e la nevrastenia

di Massimiliano Sardina

Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 37 | dicembre 2018

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Les vingt et un jours d’un neurasthénique (Paris, Eugène Fasquelle Èditeur, 1901) raccoglie cinquantacinque racconti scritti tra il 1887 e il 1901, già precedentemente pubblicati su quotidiani e riviste. Mirbeau, fondendo coraggiosamente molteplici soluzioni linguistiche, ne fa una sorta di romanzo, un’opera composita, ma solida, cucita con robusti fili narrativi. Il protagonista risponde al nome di Georges Vasseur (narratore e alter ego dell’autore), un inguaribile insofferente che, malvolentieri, si ritrova a scontare una cura di tre settimane (les vingt et un jours) in una nota località termale. Sebbene il nome dello stabilimento non sia esplicitato, sappiamo di trovarci a Bagnères-de-Luchon, in Alta Garonna, la più celebre località idrotermale dei Pirenei francesi. Qui, in ossequio agli inviolabili dettami della moda borghese che impone la prassi dei soggiorni-benessere, converge tutto un esercito di incurabili, una moltitudine di nevrastenici, un nutrito bestiario umano con il quale, suo malgrado, Georges Vasseur è costretto a interagire.

La nevrastenia cui allude Mirbeau non è il mero logorio psicoemotivo dovuto a fattori costituzionali o, più genericamente, allo stress della vita urbana moderna, ma una condizione innata nella mediocre società borghese. Nel linguaggio d’uso comune il nevrastenico è un soggetto nervoso, teso, di umore variabile, facile all’ira e agli scatti repentini. Più precisamente la nevrastenia sta ad indicare uno stato patologico di debolezza nervosa che si manifesta perlopiù attraverso irrequietezza, ansia, prostrazione, ipereccitabilità e vari disturbi correlati. Il termine fu coniato dal medico americano George Miller Beard nel 1869 per indicare l’ipereccitabilità patologica del sistema nervoso centrale; successivamente con Sigmund Freud la nevrastenia passò nell’ambito delle nevrosi. Da quella che Mirbeau definisce «la malattia del secolo» si salvano in pochi. Tutti, chi più chi meno, compreso lo stesso narratore (sebbene a differenza degli altri ne abbia piena consapevolezza), ne sono contagiati. La stazione termale – con il chiosco, il casinò, i ristoranti, le fontane e tutta una profusione di platani, faggi, crisantemi e cespugli di rose – è una terra di mezzo, un non-luogo dove confluisce «ogni genere di celebrità parigina». Qui, tra cure e sollazzi, la compiaciuta ricca borghesia celebra sé stessa specchiandosi nelle sorgenti mondane. Vasseur, sano tra gli insani, savio tra i folli, saggio tra i mediocri, sembra trovarsi lì per un incidente di percorso o per uno scherzo del destino. È un testimone, prima che un narratore. Tutti i personaggi che incontra «di tanto in tanto, per caso e senza piacere» sono solo «buffe conoscenze», una collettività di «anime erranti» infarcita di «esseri grotteschi e ripugnanti» e di «perfette canaglie».

La nevrastenia di Vasseur altro non è se non noia e malinconia, un doloroso stato di demotivazione degenerato nel tedio (dal latino taedium, derivato da taedere, sentire noia). Il solo escamotage possibile è interagire, intrattenersi, porsi in ascolto, cercando nella noia l’antidoto alla noia stessa. Quella noia che Leopardi definì «la più sterile delle passioni umane, (…) figlia della nullità e madre del nulla: giacché non solo è sterile per sé, ma rende tale tutto ciò a cui si mesce o avvicina.» Quella noia baudleriana che «sebbene non lanci alte grida né faccia grandi gesti, ridurrebbe la terra ad un misero resto ed in uno sbadiglio inghiottirebbe il mondo! (…)» Da testimone a narratore: la scrittura si fa veicolo di cura (e di guarigione). «…Li guardo con avidità. A ciascuno di quei volti attribuisco una storia; ricordi che almeno per un giorno mi strappano alla noia, alle cupe tenebre della mia noia.» Per lenire il suo malessere Vasseur non può far altro che rimirare «tutte quelle esistenze disparate», cogliendo così l’opportunità di una consolatoria distrazione. «…Da dove vengono? Dove vanno?… Non si sa… e non lo sanno neppure loro… Mentre aspettano di saperlo girano, povere bestie cieche, dentro il maneggio della loro noia…»

È dunque una umanità termale quella che ristagna in ammollo nelle sorgenti miracolose, eternamente illusa di poterne trarre un qualche astratto beneficio. Ed ecco sfilare l’asessuato e incorporeo Clara Fistule, l’alienato dottor Alexis Triceps, l’orrenda famiglia Tarabustin, la corteggiatissima marchesa di Parabole, il delirante ministro Georges Leygues, l’eminente avvocato Padron du Buit, il gagliardo colonnello barone di Présalé, il negriero generale Louis Archinard, il sinistro notaio Claude Barbot, il vecchio infatuato barone Kropp, il miliardario americano Dickson-Barnell, l’assassino seriale Jean-Jules-Joseph Lagoffin, il carcerato innocente Jules Rouffat, l’astuto marchese di Portpierre, l’illustre pittore accademico Guillaume Barnez, fino all’emblematico Roger Fresselou (sorta di contraltare di Vasseur, che fugge da tutto e da tutti, compreso sé stesso). «…ho visto passare e ripassare persone e persone, figure di ogni tipo che conosco o riconosco, ogni genere di celebrità parigina…» Sono figure che Vasseur non frequenta ma che, semplicemente, incontra. Una collettività anonima dove un Robert Hagueman, amico e non-amico, è solo «uno su trentamila». In questo plastico inquietante incastonato tra i Pirenei Mirbeau raccoglie e comprime un nutrito campionario di abiezioni umane. Personaggi e storie danno corpo a un mostruoso brulicante superorganismo, ricettacolo dei crimini più efferati. Quel che emerge è il ritratto di una società meschina, scaltra, opportunista, marcia nelle sue aspirazioni come nelle sue istituzioni. Desinit esse remedio locus, ubi quae fuerant vitia, mores sunt, scriveva Seneca, ossia: Non c’è rimedio quando le cose che un tempo sono state vizio, sono divenute di moda. Ed è un distillato di vizi quello che intride e avvelena le sorgenti miracolose dell’esclusiva località termale, vetrina d’una mondanità venefica e insalubre. Se la missione nobile del narratore è quella di denunciare il male, diversa è la posizione del protagonista che con questo male è costretto, suo malgrado, a convivere. Di qui il disagio di Vasseur che più volte manifesta la volontà di allontanarsi dal «suolo detestato».

Ad opprimerlo sono anche gli orizzonti ristretti che cingono quel non-luogo di «mistificazione commerciale» rendendolo ancora più claustrofobico. Orizzonti chiusi dalla «pesantezza soffocante e tetra delle montagne», un cerchio nero, una massa tenebrosa, una «implacabile muraglia di roccia e di scisto» che impedisce la visione ristoratrice del cielo. «Perché la montagna è dappertutto. (…) Sono sicuro che la causa di questa tristezza è la montagna. La montagna mi opprime, mi schiaccia, mi fa ammalare.» Così Vasseur si ritrova a desiderare «le buone pianure», gli spazi aperti, le città, come se una qualche evasione fosse davvero possibile, come se fuori dalla stazione di X s’agitasse tutt’un’altra società. «La mia sede è la bassa pianura – scriveva André Gide in Paludi (1895) – e non mi curo di arrampicarmi sulle colline da dove so bene che non vedrei nient’altro. Non guardo lontano anche se il cielo torbido ha il suo fascino.» Sul microcosmo dello stabilimento termale, dove tutto è accuratamente allestito per soddisfare i bisogni del moderno turismo della salute, il cielo grava funesto e opprimente. È un cielo asfittico che assorbe e riflette tutta la meschinità e tutta la miseria che ha sotto di sé, un cielo chiuso, livido, pesante. «Qui il cielo è più basso, grava sul mio cranio con un peso tale che ne sento, realmente, fisicamente, il peso eterno e la cosmica inesorabilità…» La permanenza gli è insopportabile, vorrebbe fuggire ma a trattenerlo sono «tutti i tormenti della depressione nervosa e della stanchezza mentale», un annichilimento profondo della personalità che nemmeno le buone letture (Diderot, Rabelais, Montaigne, Tacito, Spinoza, La Bruyère, Pascal…) riescono a confortare. Vasseur trova un po’ di tregua soltanto la sera nella sua camera d’hotel. A quell’ora tutta la miseria umana sembra stemperarsi e persino la montagna appare meno incombente. Il cicaleccio borghese finalmente tace tramutandosi in un brusio più tollerabile. Accostandosi alle pareti e ponendosi all’ascolto, come se auscultasse con un fonendoscopio il battito cardiaco di una bestiola malata, Vasseur intercetta «queste voci, finalmente vibranti», deboli segnali d’umanità residua. Al calar della sera, quando la grande macchina termale ha allentato i suoi ingranaggi, Vasseur ha la sensazione che i muri si animino per filtrare, come in un setaccio, le chiassose e pacchiane esistenze borghesi; mentre tutto il lerciume morale di queste anime erranti resta intrappolato tra i mattoni e la carta da parati, a esalare sono voci nude e pulite, non più contaminate. Sono ore preziose per Vasseur, ore che lo strappano al suo affanno e alla sua solitudine, riconciliandolo temporaneamente alla «immensa e fraterna comica della vita.» Al sorgere del sole però tutto torna a ricomporsi esattamente come prima, anzi la «presuntuosa nullità» appare rinvigorita.

Che le tare e le brutture non siano appannaggio esclusivo del singolo individuo ma che riguardino l’intero assetto dell’istituzione sociale, è palesato dai modelli grotteschi e tragicomici di famiglia che vediamo sfilare nel grande presepio termale mirbelliano. L’emblema di quel «deserto cupo che è l’esistenza borghese» è incarnato in maniera esemplare dalla famiglia Tarabustin: il signor Isidor-Joseph Tarabustin, professore di liceo, la moglie Rose e il figlio Louis-Pilate, triade di rara ordinarietà. Il capofamiglia soffre di catarro, la moglie di artrosi e il figlio di una malformazione della colonna vertebrale. «Oltre a queste malattie, confessate e d’altronde rispettabili, ne hanno altre che li colpiscono alle radici stesse della loro vita.» Il crimine di cui sono macchiati è intrinseco nella loro stessa natura mediocre e superficiale, brutta sotto ogni aspetto. Rappresentano l’archetipo di una genia media, mossa da ideali dozzinali, pericolosa perché innocua. «Sapete benissimo – vorrebbe dir loro Vasseur – che non c’è acqua, per quanto miracolosa sia, che possa mai lavare il marciume secolare dei vostri organi e l’ignobile morale da cui siete nati.» Altra famiglia esecrabile e ripugnante è quella dell’illustre pittore Guillaume Barnez, orgoglio dell’arte accademica. Non si fa scrupolo, l’artista pluridecorato, mosso da quel becero ideale di sublime tanto caro all’Istituto, di mettere in posa il corpo esanime della moglie Mathilde in veste d’una Cleopatra, d’una Agrippina, d’una stucchevole Regina di Saba. Mentre è intento a dipingere il cadavere dell’amata un’altra immagine emerge prepotentemente a stimolare la sua ispirazione, quella del piccolo Georges, il figlioletto deceduto l’anno precedente, e lo immagina nudo, paffuto, coi boccoli biondi, «una rosa nella boccuccia, una faretra sul petto», e tutt’intorno uno «srotolarsi di stendardi fioriti». Barnez, caricatura luttuosa d’uno dei tanti virtuosi Cabanel celebrati dall’Accademia, antitesi della visione impressionista cara a Mirbeau, non è null’altro che un cadavere che dipinge cadaveri. L’ideale artistico che persegue non va al di là del bell’effetto e della bella posa. Più che tra gli assassini, i traditori, i truffatori, i millantatori… (tutto un esercito di piccoli e grandi delinquenti) è in queste due famiglie, i Barnez e i Tarabustin, che emerge il crimine più sottile e sanguinoso perpetrato dalla società borghese: il crimine della medietà; né la vita, né l’arte la cui missione dovrebbe essere elevare la vita, ne sono esenti. Ed è da questi nuclei che l’umanità si rigenera, di generazione in generazione, corroborando «l’enorme stupidità sempre uguale e sempre sgocciolante».

Octave Mirbeau a l’epoque de l’affaireDreyfus 1894-1906.

A Bagnères-de-Luchon le esistenze non transitano ma stagnano, allietate dalle musiche degli zigani e stordite dall’odore di iposolfito. Le vasche termali sono signorili paludi dove sguazza, impantanata, la più inespressiva borghesia. Qui, dalla malattia del secolo, non guarisce nessuno (finanche il mobilio dell’hotel ne sembra infettato). È un mostruoso tableau vivant quello che Vasseur si ritrova ad attraversare, muovendosi di girone in girone; tutti i personaggi (personificazioni di vizi, pecche e magagne) sono spregevoli guitti d’un tetro teatro dove continuamente si replicano dissolutezza e barbarie morale. Figura ponte tra i sani e i malati è quella del dottor Alexis Triceps, anch’egli affetto da una forma di nevrastenia. Triceps dispensa diagnosi e rimedi, ma in un racconto il suo ruolo si ribalta in quello del paziente (un matto rinchiuso in manicomio). Chi si salva? Chi può dirsi davvero in buona salute? Solo «i cari folli», ci avverte Mirbeau, i non allineati, tutti quelli che non sono scesi a patti col sistema, «…gli originali, gli stravaganti, gli imprevedibili, quelli che i fisiologi chiamano i degenerati… Hanno, almeno, la virtù capitale e teologale di non essere come tutti gli altri. (…) Oh! I cari folli, i folli ammirevoli, esseri di consolazione e di lusso, come dovremmo onorarli di un’adorazione intensa, perché soltanto loro, nella nostra società servile, conservano le tradizioni della libertà spirituale, della gioia creativa (…)» Al termine dei vingt et un jours, prima di congedarsi da «…tutti quei poveri esseri ridicoli o miserabili che, per un istante, mi hanno distratto dalla noia» il narratore decide di far visita al vecchio amico Roger Fresselou, che da vent’anni vive in eremitaggio in un paesino sulla montagna dell’Ariège. Intellettuale parigino di solida cultura e di raro talento, per cui certo si sarebbe dischiusa una carriera brillante nel mondo della critica letteraria, Fresselou ha inspiegabilmente gettato la spugna e mollato tutto, rifugiandosi «nel grande silenzio delle cose morte». Su Fresselou ha agito, prepotente, il disincanto, la maturazione d’una mesta consapevolezza, l’amara constatazione che l’arte è una corruzione, che la letteratura è una menzogna e che la filosofia è una mistificazione. Dunque la fuga, l’esilio, la rinuncia, l’affrancamento, la ricerca di una definitiva pacificazione a contatto con un’umanità semplice e primitiva, fiducioso che esista «…da qualche parte, in qualche luogo incontaminato, una materia umana da cui si può far scaturire la bellezza.» Fresselou è l’anti-Mirbeau, il contraltare della sua accesa e indignata militanza. Al suo cospetto il narratore avverte un senso di soffocamento e di oppressione. Quell’inerzia mortifera vanifica ogni forma di dialogo sia sul versante intellettuale che su quello umano. Anche quel luogo sperduto, isolato, sganciato dallo spazio e dal tempo, è fonte di «un’inesprimibile angoscia di prigionia». Alla fine Vasseur decide di partire, di allontanarsi da «quella natura ingrata e senza gioia» per ricongiungersi alla società dei nevrastenici (crogiuolo di mostri, sì, ma anche di uomini capaci di generare idee feconde per l’avvenire).

Mirbeau combatte il male dall’interno, iniettando inchiostro nel sangue guasto della società del suo tempo. È una guerra sul campo, corpo a corpo col nemico di turno, a stretto contatto con le brutture e le ingiustizie. La neurasthénie che Mirbeau diagnostica attorno a sé (e per riflesso in sé) è una patologia estesa che incorpora tutte le declinazioni del male, dai misfatti più truci al piccolo-immenso reato della medietà; la società che smaschera ed esamina, rivelandone le lordure e il vuoto morale, è perfettamente aderente a quella attuale. La malattia del secolo, sembra dirci Mirbeau, non si cura attraverso la compiaciuta misantropia e l’apatica asocialità ma, all’opposto, stringendo sane relazioni con gli altri. Nei cinquantacinque racconti che danno forma aI 21 giorni di un nevrastenico lo scrittore francese intraprende una discesa agli inferi che si conclude con una risalita «verso gli uomini, la vita, la luce…», un viaggio dalla malattia alla guarigione. La prima edizione italiana (Biblioteca del Vascello, Robin Edizioni, 2017) è a cura di Ida Merello, professore ordinario di letteratura francese all’Università di Genova e membro del comitato scientifico della rivista “Studi francesi”. Ottima la traduzione di Albino Crovetto. Les vingt et un jours d’un neurasthénique, pubblicato per la prima volta da Fasquelle nel 1901, è stato rieditato in Francia soltanto nel 2003 dalle éditions du Boucher (Société Octave Mirbeau).

Massimiliano Sardina


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