NDE EXPERIENCE – esperienze di premorte
NOLI ME TANGERE
testimonianza di Angela T. Heinle
raccolta da Marie Lange
traduzione dal tedesco di Andrea Pardo
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 37 | dicembre 2018
Angela T. Heinle, 64 anni, libera professionista, oggi residente in un piccolo comune alle porte di Dusseldorf, racconta la sua esperienza di premorte.
«Una piccola distrazione può esserci fatale. Specie quando siamo sovrappensiero, ignari di quelle insidiose incognite che pazientemente attendono solo di manifestarsi per sorprenderci. Accade tutto nel giro breve di un istante. Nello spazio stretto che separa due respiri. E non c’è nulla, davvero nulla che tu possa fare per rimediare all’inevitabile. Nel mio caso si è trattato di un banalissimo incidente stradale. Un tamponamento. Il veicolo davanti a me ha inchiodato nel bel mezzo di un rettilineo e quando ho frenato era evidentemente ormai troppo tardi. Ricordo solo lo schianto. Il parabrezza in frantumi. Lo stillicidio dei vetri sul viso. Il rumore delle lamiere accartocciate. Da quel momento: il buio. Solo quattro giorni dopo, quando mi sono risvegliata tra mille dolori, ho cominciato lentamente a ricostruire quanto mi era accaduto. I soccorsi, così mi è stato riferito, sono stati immediati. Sono giunta in ospedale priva di conoscenza, piena di tagli ed escoriazioni. Mi fu subito diagnosticato un brutto trauma cranico e fratture multiple in ogni angolo del corpo. Ero messa proprio male. Più di là che di qua, come si suole dire. Vi risparmio gli odiosissimi tecnicismi medici, taglio corto: a farla breve sono rimasta in coma per quattro lunghi giorni, in condizioni cliniche che sono state definite senza mezzi termini di “estrema gravità”. Tuttavia, non è del prima o del dopo che mi preme raccontare, ma del durante, chiamiamolo così, quella fase di standby che mi ha visto allettata, intubata, in bilico tra la vita e la morte. Non c’è esperienza consumata in vita che possa nemmeno lontanamente avvicinarsi a questo durante, assolutamente scorporato dallo spazio e dal tempo.
Mentre il mio corpo giaceva, accerchiato dal personale medico e dai macchinari, io ero altrove. Mi vedevo stesa lì, ma contemporaneamente ero altrove, in una dimensione parallela. A dispetto dell’immobilità che condannava il mio involucro debilitato, io, quell’altra io, ero la quintessenza della leggerezza, in barba alla legge di gravità. Non ero spirito, avevo comunque un corpo, il mio corpo di sempre, ma agito da una sorta di leggiadria intrinseca. Con questo corpo privo di zavorre potevo muovermi liberamente in tutte le direzioni. Salivo, scendevo, avanzavo, arretravo, giravo intorno, senza compiere alcuno sforzo. Provavo pena nel vedermi costretta in quel letto di sofferenza ma al contempo un indicibile sollievo, una pacificazione. Sorvolavo la scena mantenendomi al di là dell’inquadratura, sebbene di quella scena fossi parte integrante, la protagonista assoluta. Quella distanza, quel distacco, mi erano del tutto naturali. Per una sorta di amplificazione della conoscenza tutto mi era chiaro e non avevo bisogno di comprendere alcunché. Sapevo già. Ero andata oltre. Ero passata. Quello che restava giù non era più, come dire, di mia pertinenza. Poi, in un frangente successivo, questa condizione di placida leggerezza è andata via via sfumando in ascesa e levitazione. Se c’è un aspetto che accomuna tutte le NDE è indubbiamente quello relativo alla luce. Anch’io ne ho saggiati il virginale chiarore e la calda avvolgenza, anch’io ne sono stata trafitta. Una luce totale, totalizzante. Permeava tutto, mi penetrava e mi riempiva. Colmava ogni vuoto. Mi attraeva nel suo cuore denso, soffice, profumato. Forse chiamarla luce è riduttivo, ma non saprei quale altra parola usare. Era ovunque. Filtrava da ogni direzione. E pulsava. Si gonfiava. Si rigenerava in un brillio crescente. Irradiava una pace definitiva. Nessuno sarebbe in grado di resistere al suo richiamo. Non vedevo più la mia camera d’ospedale, non vedevo più il mio corpo dolente, nessuna immagine del vecchio mondo. Procedevo su un sentiero di luce, attirata, calamitata, innamorata. In fondo al sentiero potevo distinguere un puntino ancora più luminoso, quasi bianco, ma d’un bianco aureo, d’incandescente splendore. Lì convergeva e originava tutta la luce diffusa. Ed era lì che ero diretta. Mi sentivo sospinta, accompagnata, sì, ma non costretta. In ogni istante mi sarei potuta fermare, voltarmi e tornare indietro. Ero libera, assolutamente libera di scegliere se proseguire oppure no. Il bagliore mi illuminava ma non mi accecava. Ero vigile, consapevole, tutt’altro che preda di uno stordimento. A prevalere su ogni sensazione o ragionamento era una gioia immensa, un appagamento profondo, una saggia sazietà. Non provavo nostalgia né malinconia. Quello che avrei trovato valeva di più, molto di più, di quello che stavo lasciando. A suggerirmelo era quella che ho già definito la mia conoscenza amplificata, un sentire superiore che mi guidava infondendomi serenità e determinazione. Una mia prerogativa, un tratto specifico del mio carattere, chi mi conosce lo sa bene, è sempre stata la titubanza, la tendenza a esitare, una certa irresolutezza. Proseguendo incontro alla luce questa mia debolezza si era come neutralizzata: non dubitavo affatto che quella non fosse la direzione giusta per me.
Il livello più alto di luminosità e di calore si è verificato quando, estasiata e al colmo della beatitudine, ho proteso in avanti le braccia per toccare la luce. In quel momento è accaduto qualcosa. La luce si è come divincolata, respingendomi, rifiutando il mio contatto. Proprio nel momento in cui desideravo di più appartenergli e che mi appartenesse. Proprio allora ha preso le distanze da me, ricacciandomi indietro, ricatapultandomi nella statica orizzontalità del mio letto d’ospedale. Mi sono svegliata di soprassalto, come se mi avessero dato la scossa. E subito ho ripreso familiarità con le mie spoglie mortali, con le mie ossa ammaccate, la gola raschiata e un sapore terribilmente amaro nella bocca. Dalla grazia alla sgradevolezza: una curva impietosa. Tutti gioivano intorno a me, io invece ero seccata, delusa, un fascio di nervi. Cercavo come potevo di aggrapparmi ancora a un riverbero di quella luce ormai perduta, quella luce che mi aveva prima invitata e poi respinta. La rincorrevo col pensiero, tentavo di ridelinearla ma già non ne intravedevo più che un’opaca proiezione. Ho potuto elaborare il tutto solo a distanza di molti giorni, a mente fredda, passata la convalescenza. Quando ho realizzato d’aver vissuto un’esperienza NDE mi sono dapprima chiusa in me stessa. Perché proprio io? Avrei dovuto considerarlo un privilegio o cosa? Dopo mesi di psicoterapia ho imparato a far pace con quell’enigmatica intermittenza. Non ho la pretesa di poter comprendere fino in fondo. Oggi, a distanza di tempo, posso solo ripercorrere con obiettiva onestà quel percorso interrotto e, francamente, preferisco ricordare solo quanto di bello mi ha trasmesso. Innanzitutto quel profondo senso di pace, l’acquietarsi d’ogni inquietudine. Più di qualcuno mi ha detto: non era giunto il tuo momento, sei stata rimandata indietro perché servivi ancora qui nel mondo, perché tutto deve avvenire com’è scritto che deve avvenire. Qualcun altro ha addebitato tutto alla suggestione, alla paura che ho provato a causa dell’incidente, a certi meccanismi emozionali che si innescano dentro di noi in determinate circostanze quando siamo governati dal panico e da moti irrazionali. C’è chi ha tagliato corto dicendomi: hai fatto un bel sogno, tesoro. Beata superficialità. Certo, mi sarei resa la vita più facile e meno problematica se avessi seppellito tutto, rinunciando a pormi delle domande. Ma come si può? Testimoniando con coraggio, in assoluta sincerità – come sto facendo adesso, e come ho fatto già in altre sedi nel corso di questi anni – ho prestato il fianco alle più accese derisioni; c’è chi mi ha dato dell’esaltata, chi della bugiarda, chi della stupida, solo perché ho osato avventurarmi nei territori non battuti dall’indagine scientifica. L’irrazionale è il più grande dei tabù. Non se ne deve parlare. È materia cinematografica. È favolistica. Una volta fui invitata a raccontare la mia esperienza in una trasmissione televisiva. Mi fu detto: si aspetti qualche piccolo intervento da parte del pubblico in studio. Credo che il filmato circoli ancora in rete. Dico solo che per la gratuità degli attacchi di cui sono stata fatta oggetto, tutti giocati sul filo non tanto d’un legittimo scetticismo ma su quello della più offensiva ironia, mi sono vista costretta ad alzarmi e ad andarmene. Brutta esperienza, quella.
Sono trascorsi più di dieci anni dal mio incidente. Quello che so è che ho vissuto un’esperienza di premorte. Quello che so è che ho interagito con una luce portentosa che nessun sogno, paura o suggestione avrebbe mai potuto evocare nella mia banalissima immaginazione. Me la porto dentro, gelosamente, ma con una punta di risentimento. Un po’ ce l’ho con lei perché mi ha piantato in asso proprio sul più bello, prima ch’io potessi scorgere dietro il suo ultimo velo, prima ch’io potessi toccarla, agguantarla, stringerla a me per sempre. Con lo stesso trasporto però gli sono grata per avermi risparmiata, riportata qui. Non è stato un addio, mi dico. Solo un arrivederci. Quando i tempi saranno più maturi. Nel frattempo, in quest’altro durante che mi è stato concesso, continuo ad interrogarmi sulla scia di mistero che questa luce ha tracciato dentro me. Che cosa ci aspetta, dopo? Quale dimensione cela la luce? Non ho credenze religiose di alcun tipo e faccio fatica a ipotizzare un qualsivoglia modello di paradiso. Prego solo di ritrovare, intatta, quella limpida quiete. Quell’equilibrio perfetto tra tutti gli opposti. Quell’armonia. Quella felicità. È stata la sensazione più bella che abbia mai provato. Per questo tornare mi è costato tanto. Esperienze così non ti lasciano più la persona che eri prima. Ti demoliscono e ti ricostruiscono di sana pianta. Ti riformulano in toto, costringendoti a riscrivere la tua scala dei valori, le tue priorità, i tuoi stessi desideri. Sono eredità scomode, alla lunga anche gravose da gestire, ma che ti ripagano, ti remunerano, arricchendoti davvero.»
Angela T. Heinle
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