mtf Storie di ordinaria transizione | SERENA

mtf Storie di ordinaria transizione

SERENA

Testimonianza raccolta da Simone Daddario

Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 37 | dicembre 2018

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Ho scelto di chiamarmi Serena perché serena non lo sono mai stata e, probabilmente, non lo sarò mai. Suona più come un buon auspicio per il futuro, anche se l’orizzonte lo distinguo appena. Il mio nome di battesimo non lo pronuncio da almeno vent’anni, e non ho intenzione di farlo ora. Sono piccole strategie di difesa, piccoli accorgimenti. Devi lavorare di fantasia per darti una qualche stabilità. Il passato non lo cancelli. Dimenticare è un’arte, la forma d’arte più difficile. Quando hai subito tutto ciò che da bambini si può subire non puoi permetterti il lusso di dimenticare. Le dà fastidio se fumo? (…) Non ho nessuna voglia di raccontare la mia storia. E sa perché? Perché è una storia maledettamente triste e, mi permetta di aggiungere, banale. Sì, banale. Cosa vuole che le racconti una persona che ha cambiato sesso, in Italia, nel 1993? Rose e tulipani? Una famiglia amorevole e complice? Tutto il paesino che ti si stringe intorno per confortarti e supportarti? Certe storie sono tutte uguali: stesso incipit, stessa trama, stesso finale prevedibile. Guardi, la chiuderei già qui questa specie di intervista. Fossi in lei spegnerei il registratore e mi troverei qualcos’altro da fare per questo pomeriggio, questo bel pomeriggio di sole. (…)

Compiuti i diciotto anni sono stata sbattuta fuori di casa senza tanti complimenti. Da quel giorno a oggi sono trascorsi esattamente trent’anni. I contatti si sono interrotti lì, definitivamente. Padre, madre, due fratelli maggiori, una sorella piccola, nonni, zii, cugini e tutta la corte dei miracoli. Nessuno mi ha cercata. L’ultima immagine che ho di casa mia è quella del crocifisso appeso sopra la porta d’ingresso. Ho detto tutto. (…) La mia imperdonabile colpa? Il mio debole per i cosmetici. Ebbene sì, una spolverata di cipria può essere fatale. Sorrida pure, così alleggeriamo i toni. (…) Nella cultura diffusa di quegli anni macchiarsi di femminilità era il peggior reato per uno che all’anagrafe era registrato come maschio. Questo la dice lunga sullo sprezzo atavico per la donna. Il frocio è la peggior vergogna e va eliminato. Con me hanno fatto così. (…) D’altra parte anche per me è stata una liberazione.

Vivevo nell’insulto quotidiano, tra le botte e gli sputi. Quando mi andava bene mi ignoravano. Eppure, non è che facessi chissà che. Anzi non facevo proprio nulla. Andavo a scuola, studiavo, condividevo la passione per Michael Jackson con un paio di amiche, prestavo volontariato ogni domenica in un ricovero di cani abbandonati…, cose così. Non davo fastidio a nessuno. Non mi conciavo in modo appariscente, non mi travestivo, ma quel po’ di stranezza che mi concedevo era sufficiente a condannarmi. Un foulard di troppo. Una spilletta. Un braccialetto. Un tocco di mascara. Crimini immondi! A tradirmi era più che altro la mia gestualità gaia, assolutamente involontaria, la gentilezza della mia voce, l’eccessiva educazione. Mi percepivo io stesso come “omosessuale” perché questa era l’etichetta che mi appiccicavano addosso dentro casa e fuori casa; credevo che il mio sentirmi donna in un corpo di uomo facesse di me un “omosessuale”, quando invece ero tutt’altro.

Si avevano le idee confuse in quegli anni. Chi mi avrebbe dovuta istruire? La scuola? La parrocchia? Lo Stato o qualche ente supremo? Che con i gay io non centravo nulla, ma proprio nulla, lo avrei realizzato solo molti anni dopo, e con mio sommo stupore. Ma questi, per gli altri, per quelli normali, erano solo futili dettagli. Io rappresentavo l’errore. Un errore che non si può correggere. Ogni occasione era buona per ribadirmelo, con le parole o con i silenzi, quei silenzi carichi di tensione che sanno essere molto più eloquenti di mille parole. E mai un regalo, mai una torta di compleanno, mai un sorriso. Da nessuno. Proprio un bel presepe la mia famiglia. E, ripeto, non c’era nulla in me di chiassoso o di irriverente, nessun comportamento disdicevole, nessuna frequentazione equivoca, nulla all’infuori di quella che manifestavo, timidamente, come la mia innocua natura femminile. (…) Ero, insomma, intrinsecamente sbagliato. Continuo motivo di imbarazzo. Sbarazzandosi di me hanno assolto a un dovere sociale. Non mi lasciarono nemmeno del denaro. Era sottinteso che me lo sarei guadagnato sulla strada. (…)

Presi un treno per Milano, poi un altro per Genova e andai incontro al mio destino. Qui apro una lunga parentesi e la lascio vuota. Per diversi anni, cinque o sei, non ricordo con esattezza, ho condotto quella che si dice un’esistenza ai margini. Mi sono adoperata in ogni modo, sottolineo in ogni modo, per poter avere un tetto sulla testa. Un tetto qualsiasi. Quando non hai appoggi, né agganci, ti aggrappi a quello che trovi. Ma, come ho detto, di questa fase preferisco non parlare. (…) Veniamo a Serena. Sì perché nella primavera del ’93 ero ormai Serena a tutti gli effetti di legge. Beh, non proprio tutti, ma giù di lì. La mia transizione non è stata una passeggiata. Sarebbe più esatto definirla una scalata. Oggi si hanno a disposizione figure professionali incredibili, fai un click su internet e hai l’imbarazzo della scelta, mentre all’epoca dovevi muoverti con la lente d’ingrandimento. E qui tocchiamo un altro tasto dolente, un altro passaggio che preferirei sorvolare. (…) Parallelamente alla terapia ormonale mi sono sottoposta a sei interventi di chirurgia plastica, tutti dolorosissimi e costosissimi. Con grande sacrificio, perché non sono mai stata una cima, sono riuscita anche a laurearmi in Scienze della Comunicazione. Con i connotati in regola, i documenti in regola e un “pezzo di carta” mi sono data da fare per trovarmi un lavoro onesto e una casa tutta per me, con un regolare contratto d’affitto. Avevo un grande desiderio di riscattarmi, di dire addio, definitivamente addio, a tutta quella lurida umanità cui per decenni ho dovuto elargire le mie prestazioni. Vero è che, se non ci fossero stati loro, sarei morta di fame. Da una parte li ringrazio, dall’altra li maledico, perché non sono che il rovescio della medaglia di come gira la società. Te li raccomando uno per uno questi impeccabili cittadini col colletto inamidato. (…) Nessuno offre lavoro a quelle come noi. Se è difficile per una donna biologica figurati per una che non lo è. È il nostro aspetto che pregiudica l’esito di qualsivoglia colloquio. Per quanto puoi apparire naturale, alla fine si vede. Ti tradisce l’altezza o la larghezza delle spalle, ti tradiscono le mani, la voce, il pomo d’Adamo o l’eccesso stesso di femminilità. Di sicuro gli ftm (ovvero coloro che transitano dal femminile al maschile) godono di una maggiore invisibilità. Io stessa, che ho l’occhio allenato, prendo talvolta certe cantonate. In linea generale, l’assoluto effetto naturale terminata la transizione è estremamente raro. (…) Quando ti dicono “Le faremo sapere” è come se ti dicessero “Ritornatene sul marciapiede”.

Io, come puoi giudicare tu stesso, non ho le labbra a canotto e né gli zigomi e i seni fuori misura. Ci sono andata piano con la plastic surgery. Sono intervenuta solo laddove c’era da intervenire. Non ho mai voluto essere una super-figa da sballo, un’algida femme fatale, una Jessica Rabbit e quelle robe lì. Modelli peraltro rispettabilissimi. Vedi, sono una donna sobria, abbigliata in modo sportivo e senza tanti fronzoli. Quasi anonima direi. Pensi che abbia fatto però qualche differenza? Porte in faccia una dopo l’altra, alcune chiuse con garbo, altre letteralmente sbattute. Sorrisetti. Sguardi di sufficienza. Neanche come badante part-time andavo bene. Aggiungici poi l’altra discriminante d’aver superato i cinquanta. Il miracolo si è verificato solo due anni fa, ma solo perché la mia datrice di lavoro è una persona transessuale. Vedi, un piccolo seppur tardivo lieto fine la mia storia ce l’ha. Non entro nello specifico, ma oggi posso urlare a gran voce di avere finalmente un posticino dignitoso in questa fottutissima società. Lavoro con grande dedizione e con tutto l’impegno possibile, anche se in un campo diverso dagli studi che ho fatto. Non mi risparmio. È stata la più bella occasione che mi sia mai capitata, e sarò eternamente grata a chi mi ha dato questa opportunità, proprio quando ero ormai vicina a gettare tutto alle ortiche. L’amore non è arrivato, quello figurati se si scomoda. Ma non si può avere tutto, vero? La mia vita non è mai stata facile. Gli unici ricordi belli appartengono a giorni recentissimi. Sto assaporando ora quel po’ di serenità che… Stop. Mi lasci riprendere un po’ fiato. (…)

Il segreto è mettersi al riparo, segnare i confini netti di un territorio all’interno del quale puoi muoverti in tutta sicurezza. Noi – dico noi perché siamo una categoria sociale e umana ben precisa – dobbiamo cautelarci quotidianamente, senza dar mai nulla per scontato. Dopo averne sentite tante sono diventata impermeabile al giudizio degli altri, persino quando è positivo. Lascio che tutto mi scivoli addosso. Quando qualcuno di quegli sguardi mi trafigge, in coda all’ufficio postale o alle casse del supermercato, in autobus, al parco o dal dentista… semplicemente tiro dritta per la mia strada. Non voglio grane. Fortuna, mi dico, che in giro ci sono anche tante persone intelligenti. Ecco, mi consolo formulando questo tipo di considerazioni. (…) Non credo di avere molto altro da aggiungere. O meglio, di aneddoti da raccontare ne avrei, ma certi cassetti preferisco lasciarli chiusi. Dopo tanta tempesta desidero solo quiete, e passare più inosservata possibile. Inseguire l’approvazione degli altri stanca. Tanta fatica per essere cosa poi? Semplicemente una donna. L’avessi impiegata per vincere un Nobel o, che so, il primo premio alla lotteria.

Serena, Genova

Testimonianza raccolta da Simone Daddario

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