Credevo fosse amore | La testimonianza di una ex suora domenicana claustrale

Credevo fosse amore

La testimonianza di una ex suora domenicana claustrale 

testimonianza di Adele R. (Mongiuffi Melia, Messina)

raccolta da Elena De Santis

Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 37 | dicembre 2018

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Ho sciolto i voti nel 1988. Esattamente trent’anni fa. Dopo venticinque anni d’onorato servizio prima in un monastero domenicano di Bergamo, poi in uno salesiano della provincia di Catania. Non rinnego nulla. È stato bello, finché è durata. Non si dice forse che l’amore è bello finché dura? E io, che fosse amore, quello vero, ci ho creduto con tutta me stessa. Ci ho investito cinque lustri della mia vita. Oggi, come vede, sono un’arzilla ottantenne e nulla nel mio aspetto, almeno spero, testimonia quello che è stato per lungo tempo il mio passato. È stata una fase che si è aperta e si è chiusa. Tornassi indietro la ripercorrerei tale e quale, rosario dopo rosario. E sa perché, bella signora col registratore in mano? Perché la serenità che ho oggi non è altro che la diretta conseguenza di tutte quelle inquietudini che mi hanno attraversata ieri.

La mia, glielo dico in tutta onestà, fu una vocazione sincera. E precoce. Tanto precoce. A dodici anni provavo più soddisfazione a genuflettermi che a saltare la corda con le compagnucce. Mi isolavo per pregare. Occhi chiusi, mani giunte. Niente santi, martiri, madonne e spiriti santi, perché per me esisteva solo Lui. Gesù. Cristo in croce. Sposo di tutte le spose. Gli parlavo, mi confidavo, mendicavo ogni istante la sua benedizione. Anche quando non pregavo i miei pensieri erano tutti per Lui. Praticamente una stalker. Ho reso l’idea? In famiglia tutto liscio. I miei non mi hanno mai sollevato problemi. E, d’altra parte, una che prega che fastidio dà? Senza contare che avevano già da combattere con le mie sorelle maggiori, due scalmanate che ne combinavano una dietro l’altra, più un fratello, il primogenito, tutt’altro che uno stinco di santo. «Adele si farà suora.» diceva tranquillamente mia madre quando chiacchierava con le vicine. «Si capisce.» rispondevano queste, a ragion veduta. Bastava guardarmi per capire che mi sarei fatta suora. Ne avevo i connotati, il portamento, forse persino l’odore. Così quando cominciai l’iter del noviziato non fu una doccia fredda per nessuno. Dall’oggi al domani mi ritrovai a condurre la vita monastica tra le consorelle domenicane, un passaggio assolutamente naturale, indolore. Di quei primi anni conservo ricordi assai nitidi. Se chiudo gli occhi mi sembra di non essermene mai andata da lì. Riesco ancora a sentire il suono prodotto dalle scarpe sui marmi dei corridoi, il fruscio delle vesti e quello delle pagine dei libri, il tintinnio delle posate, lo sfrigolio dei grani dei rosari. Nel silenzio ogni rumore subiva un’amplificazione, e così anche quelle poche parole che ci rivolgevamo con un filo di voce. Eravamo dedite principalmente alla preghiera contemplativa e allo studio. Così ci imponeva la regola. Io ero ligia al dovere. Zelante e scrupolosa. Perfettamente a mio agio, senza avvertire il peso della rinuncia. La preghiera mi riempiva e mi saziava, e più pregavo più sentivo montare la fame. Così per giorni, mesi, anni. Avvertivo un profondo senso di completezza e di libertà. Finalmente potevo starmene da sola con Lui, in santa pace, senza distrazioni quotidiane. Il mondo, al di là di quelle mura, non esercitava alcun fascino su di me. Ero sorda a ogni suo richiamo. Lui rendeva tutto il resto superfluo. Lui, il mio adorato sposo, calamitava tutto. Cosa abbia originato in me questo amore non lo saprei dire. L’ho amato fin dal primo momento, fin dal primo crocifisso che vidi affisso su una parete. Ne ricordo uno, in particolare. Era a casa di mia zia, la sorella di mio padre. Se ne stava tutto solo nella penombra dell’ingresso, un po’ sbilenco e ingrigito dalla polvere. La prima volta che lo toccai mi salì la febbre. Feci di tutto per farmelo regalare e quando finalmente fu mio mi sentii la bambina più felice del mondo. Divenne il mio giocattolo, la mia bambola, il mio orsacchiotto, il mio amico immaginario, il mio principe azzurro, il mio diario segreto, il mio portafortuna. Non ricordo esattamente quanti anni avessi, ma ero piccolissima. Rimanevo ore ad osservarlo. Lo trovavo bello, infinitamente bello, nonostante il corpo segaligno e le ginocchia sporgenti. Più di ogni altra cosa mi commuovevano i suoi occhi chiusi. Il mio sposo non dormiva, ma sognava. Nella mia immaginazione di bambina un bel giorno li avrebbe dischiusi per dichiararmi tutto il suo amore. Esercitavo questa dedizione per lo più nel chiuso della mia stanza, al riparo dagli sguardi dei miei familiari. In pubblico avevo imparato a misurarmi, a fingere di interessarmi ad altre cose. Nessuno mi rimproverava esplicitamente, tuttavia da certe espressioni velate capivo che mi consideravano un po’ fissata, diciamo così. Per cautela quindi cercavo di non dare nell’occhio. In verità ero anche molto gelosa.

Negli anni dell’adolescenza maturò in me un sentimento di possessiva esclusività. Lui ed io. Io e Lui. Ero disposta a condividerlo solo nel rito collettivo della messa domenicale, durante le lezioni di catechismo e nei ritiri parrocchiali. Altre intromissioni non le tolleravo. I rapporti di coppia richiedono intimità, tempi e spazi da dividere in due. Ecco, spero di essere riuscita a rendere l’idea. Da monaca tutte queste dinamiche si semplificarono. Potevo considerarmi fidanzata ufficialmente, anzi sposa a tutti gli effetti. Quando lasciai casa non versai una lacrima, anzi provai un grande sollievo. Andavo a vivere con Lui. Spesse mura e robuste grate avrebbero reso la nostra convivenza inviolabile. In tanti anni mai un ripensamento, mai una nostalgia. Ero l’invidia di tutte le mie rivali in amore. Le mie rivali, sì, ha capito bene. In cuor mio desideravo segretamente d’essere l’unica, la sola. Che lo adorassi e lo venerassi più di ogni altra, superiori comprese, me lo si leggeva negli occhi. Ogni santo giorno celebrai questo idillio con divorante passione. Ogni santo giorno non fui che un cero acceso ai suoi piedi. Ogni santo giorno mi consacrai anima e corpo al mio Diletto. Questo appagamento spirituale fu talmente forte da inibire in me ogni pulsione sessuale terrena. Lui ed io. Io e Lui. Ho tirato avanti così per due abbondanti decenni.

Ad un certo punto però, non saprei spiegare bene come e perché, in questa mia solida felicità si è aperta una piccola crepa. Tutto è cominciato quando mi hanno trasferito dalle salesiane. Dalla provincia di Bergamo a quella di Catania, da un capo all’altro dell’Italia, così, dall’oggi al domani. Il viaggio in treno fu estenuante, interminabile. Mi vidi costretta ad attraversare un mondo che non mi apparteneva più e che non riconoscevo più. Facce di perfetti sconosciuti che parlavano una lingua sconosciuta. Dopo vent’anni chiusa in un monastero diventi insofferente anche al più piccolo rumore. Non saprei come spiegarlo, ma in quello scompartimento Lui non viaggiò con me. Lui non mi sedeva a fianco. Era rimasto indietro. Quel viaggio non fu che la prima fase della nostra separazione. Dalle salesiane trascorsi gli ultimi quattro anni e mezzo del mio onorato servizio. Poi, come ho già detto, sciolsi i voti e me ne andai per la mia strada. Non so se contribuì anche l’atmosfera completamente diversa, nient’affatto contemplativa, che trovai nel nuovo istituto. Ci arrivai sola. Senza di Lui. E senza di Lui sono rimasta finché ho resistito. L’amore ti riempie e l’amore ti svuota. Forse l’avevo amato talmente tanto da non provare più niente. Forse è Lui che mi ha lasciata. Non mi sono mai psicanalizzata e certo non lo farò in questa sede. Non c’è un perché. L’amore finisce, come finiscono tante cose. E il mio amore non era diverso dagli altri. Si è dileguato senza fornire spiegazioni, come quelli che escono a comprare le sigarette e poi non li rivedi più. Finché è durata è stato meraviglioso. Eravamo in simbiosi, stretti in un sodalizio perfetto. Complici. Complementari. Due metà. Mi ha regalato brividi che non saprei descrivere. Mi ha invasa. Mi ha conquistata. E su di me ha eretto il suo tempio. Come posso dimenticare? Prima di spegnersi la fiamma si è affievolita, è diventata tremula, incerta, intermittente. Non mi illuminava più. Non mi scaldava più. Vede, perdere la fede è come perdere per sempre le chiavi di casa. Lo smarrimento è totale, fino a quando non realizzi che di casa puoi fartene un’altra, magari più spaziosa e più luminosa. Sì, finché è durata è stato assolutamente meraviglioso. Lo augurerei a tutti un amore così. Se è finita non è colpa di nessuno. Né sua, né mia. Forse del mondo? Non so. Non mi interessa saperlo. Tutto va come deve andare, e l’amore non sfugge a questa legge. Semplicemente accade che si cambia. Ci si evolve. Ci si ricrede.

Ero ormai una donna di mezza età quando ho riformulato in toto la mia vita. Quando ho ricominciato tutto daccapo. Avevo il volto così pallido e i capelli di un grigio indefinibile. Ci ho impiegato un paio d’anni a riprendere un po’ di colore e ad assomigliare un po’ di più agli altri, a quelli del mondo, a quelli che lavorano e fanno la spesa e prendono l’autobus. Non è stato facile. Il giudizio degli altri si è rivelato l’ostacolo più grande. I familiari non hanno gradito tanto, diciamo così, questo mio ripensamento. Se ti fai suora devi morire suora. Sei guardata con sospetto. Forse oggi è diverso, ma le assicuro che alla fine degli anni Ottanta avere una suora spogliata in famiglia era motivo di grande vergogna, uno scandalo. Beh, problemi loro. Io avevo già i miei da risolvere. Mi sono rimboccata le maniche, ho stretto nuove relazioni, ho viaggiato, ho fatto esperienze, ma non s’immagini chissà che. Lui, comunque, non l’ho più incrociato neanche per sbaglio. Mettiamola così: io non l’ho cercato, né Lui ha cercato me. Alla fine, dopo tanto peregrinare, mi sono rifugiata a Mongiuffi Melia, nella Valle del Ghiodaro, in provincia di Messina. Un posto come un altro. La suora adesso è una signora. Un’anziana signora che non ha rimpianti.

Adele R.

(testimonianza raccolta da Elena De Santis)

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