Helena Markos Tanzengruppe
Suspiria | Un film di Luca Guadagnino
di Salvo Arena
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 37 | dicembre 2018
Luca Guadagnino celebra Dario Argento e lo fa rivisitando il suo capolavoro indiscusso, Suspiria (1977), primo capitolo della celebre trilogia argentiana denominata “Le tre madri”, proseguita con Inferno (1980) e chiusa con La terza madre (2007). Tutt’altro che un remake, il film, come ha dichiarato il regista palermitano (premio Oscar nel 2017 per Chiamami col tuo nome), vuole innanzitutto essere un omaggio all’opera più potente e visionaria del grande maestro italiano del brivido. La sceneggiatura, scritta da David Kajganich, è liberamente tratta dalla sceneggiatura originale di Dario Argento e Daria Nicolodi. Una storia di streghe, questo hanno in comune le due pellicole, ma poco altro. Diviso in sei atti, più un epilogo, il Suspiria di Guadagnino si offre come una caleidoscopica allegoria del male, una fiaba nera popolata da una congrega di streghe, sospesa tra contingenza storica e dimensione misterica, dove il male assume un’emblematica declinazione tutta femminile. Il film, ambientato nella grigia Berlino Ovest del 1977, si muove contemporaneamente su due binari, quello occulto-metafisico e quello aderente alla realtà. La Mater degenere è una strega nella sua accezione più ampia, come strega è la Mater-Patria, straziata dai postumi della seconda guerra mondiale, dai fantasmi del nazismo, e ora attraversata dai nuovi disordini politico-sociali (il terrorismo di estrema sinistra). Entrambe le madri sono procreatrici e distruttrici. In una delle scene iniziali del film compare un quadretto, realizzato all’uncinetto, recante la scritta: “Una madre può sostituire tante persone, ma non può essere sostituita”. La strega Suspiriorum evocata da Guadagnino incorpora diverse anime, compresa quella femminista, eversiva e rivoluzionaria; dalla Germania, la riflessione del regista sembra allargarsi anche all’Italia che, nel ’77, oltre che dalle Brigate Rosse, era agitata dalle grandi rivendicazioni femministe: “Tremate! Tremate! Le streghe son tornate!”.
La protagonista del film è Susie Bannion (interpretata da Dakota Johnson), una giovane ballerina americana che giunge a Berlino per sostenere un’audizione con la compagnia di danza contemporanea Helena Markos Tanzengruppe. Nel film di Argento la protagonista (interpretata da Jessica Harper) varca la Haus zum Walfisch di Friburgo (la Casa della Balena), un palazzo rosso del ‘500 in stile tardo-gotico dove soggiornò l’autore de L’Elogio della follia Erasmo da Rotterdam. La location scelta da Guadagnino è invece un severo edificio liberty, con la facciata addossata al famoso muro di separazione tra l’Est e l’Ovest della città. Nella realtà non si trova a Berlino ma a nord del territorio comunale di Varese, sul monte Tre Croci, ed è il Grand Hotel Campo dei Fiori, progettato nel 1908 dall’architetto Giuseppe Sommaruga (chiuso nel 1968, oggi versa in stato di semiabbandono). Per il film Guadagnino ne ha riformulato l’assetto, cosicché non ne percepiamo l’effettiva fatiscenza. Susie Bannion (lunghi capelli rosso Tiziano, indole delicata e temperamento tenace) viene dall’Ohio ed è fuggita dai rigidi precetti amish della sua famiglia. Sua madre (come raccontano vari flashback) l’aveva partorita in un letto di vergogna e di dolore, definendola “figlia del peccato”. Ora Susie sembra determinata a far altro della sua vita, e quello che desidera con tutta sé stessa è danzare. Il suo talento non passa inosservato e, superata brillantemente l’audizione, entra ufficialmente a far parte della compagnia. Il suo ingresso coincide con l’uscita di scena di un’altra allieva, Patricia, sparita subito dopo aver confidato al suo psicoterapeuta (il vecchio dottor Jozef Klemperer) quanto aveva scoperto sulla vera natura della compagnia. Tutte le insegnanti, lascia scritto Patricia sul suo diario, sono seguaci della potente Helena Markos, una strega decrepita il cui scopo era impossessarsi del suo corpo per rigenerarsi. In un primo momento lo psicologo la crede pazza, ma poi avrà modo di ricredersi. Se nel film di Argento le streghe si rivelano sul finale, in quello di Guadagnino giocano subito a carte scoperte. Proprio in concomitanza dell’arrivo di Susie la congrega sta attraversando forti dissidi interni e si è divisa in due fazioni: una fedele alla Markos e l’altra più propensa ad eleggere come nuovo leader Madame Blanc. Per continuare a strisciare e a stillare veleno la serpe ha bisogno di una nuova testa. La scena della votazione, con le streghe al tavolo della colazione, è tra le più riuscite del film. È efficace nel rendere la gratuità e la routine del male.
Nei piani sotterranei di questo austero “Palazzo delle Lacrime”, si cela il covo segreto delle streghe, sorta di grembo cadaverico e di vestibolo dell’Inferno. Susie vi penetrerà gradualmente, a passi di danza, sedotta e corrotta dall’istruttrice Madame Blanc (Tilda Swinton). Attraverso i movimenti della danza allieva e istruttrice intrecciano un linguaggio sotteso. Nel frattempo un’altra allieva scomoda, Olga, viene fatta fuori dopo atroci sofferenze di distorsione ossea. Sorte migliore non incontra Sara, amica di Susie, che scopre la verità sulle insegnanti attraverso il dottor Klemperer. La tensione sale, le streghe sono sempre più irrequiete perché qualcosa di definitivo sta per compiersi. Una di loro si suicida. Dopo faticose ed estenuanti esercitazioni le allieve si esibiscono di fronte a un piccolo auditorio in Volk, una coreografia creata nel 1948 dalla compagnia di danza Markos; Madame Blanc annuncia, senza precisare il perché, che la coreografia sarà messa in scena per l’ultima volta. Tra il pubblico c’è il dottor Klemperer, alla ricerca di uno stratagemma per smascherare la congrega. La performance, tribale e funebre, primitiva e violenta, nella quale Susie riveste un ruolo di primo piano, rimanda esplicitamente a un rituale sabbatico. Damien Jalet è l’autore delle bellissime coreografie ispirate alla scuola tedesca di Pina Bausch e Mary Wigman. È un ballo di potere, un potere femminile arcaico ed arcano. I corpi liberano misteriose energie interne, contorcendosi e snodandosi fino allo spasmo. Ebbri, posseduti, animaleschi, sembrano comporre una sorta di superorganismo. Tutte le musiche del film sono scritte da Thom Yorke. Il tema principale, Suspirioum, è una tetra lullaby dalle sonorità ipnotiche. Tutta la colonna sonora è all’insegna di un onirismo funebre, con suoni eterei e sospesi attraversati da sospiri e suggestioni elettroniche. Nel Suspiria argentiano la musica dei Goblin è in primissimo piano, violenta e pervasiva; qui invece sembra liquefarsi nelle atmosfere fredde, ora fuggevole, ora sotterranea.
La tavolozza cromatica scelta da Guadagnino – neutra, desaturata, vitrea, tutta giocata sulla scala dei grigi, dei biancastri, tra fondali a specchio e superfici lignee – si discosta totalmente dai colori primari densi, saturi, artificiali, espressionisti che Argento volle per il suo film. Il raffinato ed esoterico gothic-nouveau improntato da Argento in ogni singolo dettaglio architettonico qui si stempera nella muta desolata essenzialità d’uno jugendstil di sfondo. Dall’algido presepio di megere emerge prepotentemente l’iconica Madame Blanc, segaligna e luttuosa nel suo lungo abito nero, un po’ una rivisitazione della Mater Tenebrarum che compare in Inferno.
Trait d’union tra i due piani narrativi del film è il vecchio Klemperer (anche questo personaggio, grazie al make-up artist Mark Coulier, è interpretato dalla poliedrica Tilda Swinton). Klemperer ha perduto la sua amata moglie, Anke Meier, durante la seconda guerra mondiale. Ignora cosa le sia successo e continua ad aspettarla nel giardino della piccola villetta dove hanno vissuto i giorni felici. Scoprirà in seguito la dolorosa verità, la deportazione di Anke in un campo di concentramento. Attraverso Anke – interpretata da Jessica Harper, la protagonista del Suspiria argentiano – il monstrum nazista (e il senso di colpa latente nei tedeschi degli anni ’70) si innesta nel cuore nero della fiaba. Storia recente (i crimini dell’Olocausto) e disordini politici del presente (in una scena del film compare la rivista «Der Spiegel» numero 43 del 1977, con la parola “Terror” che campeggia in copertina) si saldano al suspirioum metafisico della storia, stigmatizzando il male come una realtà al contempo astratta e concreta, astorica e storica. Klemperer non crede ai suoi occhi quando l’amata Anke, come d’incanto, fa ritorno a casa. Può finalmente riabbracciarla, al colmo della commozione, e capire le ragioni che l’hanno allontanata da lui decenni prima. La gioia si ribalta in orrore quando, all’improvviso, tutto si rivela uno stratagemma delle streghe per rapirlo e imprigionarlo. Serviva loro un testimone d’eccezione per il grande rito ormai imminente: l’elezione della nuova regina nera.
Antitesi dell’eroina argentiana, Susie Bannion non è la fata buona che neutralizza nel gran finale la strega malvagia. Predestinata (o vittima della potente manipolazione della congrega) Susie Bannion ascende a ruolo di leader, soppiantando sia Madame Blanc che Helena Markos. L’atto VI, ambientato nel più oscuro recesso dell’edificio, si chiude in un’orgia di morte. Mater Suspiriorum, entità nefanda, emerge da una cripta e, seminando morte, consegna il potere nelle mani di Susie. Un virato rosso traspone l’azione su un piano sovrannaturale. L’allieva diventa maestra e letteralmente si squarcia il petto per incamerare il sospiro mortifero della Mater. Il Suspiria argentiano si chiudeva con l’accademia in fiamme e con il trionfo del bene sul male. Quello di Guadagnino elude il canonico happy end e suggella un potere (femminile-materno) sempre capace di rigenerarsi e riformularsi. Nell’epilogo, intitolato “Una pera a fette”, Susie cancella ogni ricordo recente dalla mente di Klemperer. L’unico fotogramma che rivela la persistenza del sentimento umano è quello finale: il cuore con le iniziali di Anke e Jozef inciso sullo spigolo della loro casa.
Un’operazione nel suo complesso riuscita quella di Guadagnino, ma non priva di punti deboli. La trama e il finale soffrono forse di eccessiva macchinosità, e certi effetti speciali (il trucco di Helena Markos e quello di Klemperer) potevano essere formulati con maggiore professionalità. Il vero punto di forza del film risiede nelle atmosfere sospese e misteriche (in perfetto connubio con le musiche di Yorke) e, non ultimo, nella grande interpretazione di Tilda Swinton nel ruolo di Madame Blanc. Dopo aver visionato il film in anteprima Dario Argento lo ha definito «…elegante, raffinato (…) ma privo della mia ferocia».
Salvo Arena
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 37 | dicembre 2018
Copyright 2018 © Amedit – Tutti i diritti riservati
RICHIEDI COPIA CARTACEA DELLA RIVISTA