di Paolo Schmidlin
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 36 | settembre 2018
Seduta al tavolino da toilette, Jayne osservò la spazzola che teneva in mano: intere ciocche dei suoi capelli, inariditi da anni di violente decolorazioni, rimanevano aggrovigliate alle setole lasciando aree di cute crudelmente spoglie. Fu allora che la sex bomb del cinema hollywoodiano percepì con chiarezza l’ineluttabilità del proprio declino. Era sopravvissuta alla sua grande rivale, Marilyn Monroe, ma non era mai arrivata a eguagliarne la grazia infantile né la luce che emanava. Anche nei momenti del suo massimo fulgore – alla fine degli anni Cinquanta, l’epoca delle prime copertine di Playboy – Jayne Mansfield (nata Vera Jayne Palmer, 1933) non era mai riuscita a scrollarsi di dosso quell’impronta un po’ grossolana, nonostante fosse una donna dall’elevato quoziente intellettivo (un Q.I. di 162, più alto di quello di Einstein). Il biondo abbagliante dei capelli non bastava a ingentilirne i lineamenti vagamente porcini, con gli occhietti piccoli e le labbra volgari. Il corpo era procace, ma conservava qualcosa di pesante e poco elegante. L’insieme era quello di una bellezza un po’ circense, di una pin-up iper-sessuata per camionisti: molta apparenza ma scarsa sostanza. Tuttavia quel suo essere vistosa ed esuberante, dopo averle fatto vincere numerosi concorsi di bellezza in Texas, le aveva consentito – nel 1956 – un inizio di carriera brillante, con un contratto alla 20th Century Fox, dove cercavano un’alternativa alla Monroe che, tra capricci e depressioni, aveva cominciato ad essere ingestibile. Le sue doti recitative erano purtroppo assai modeste e tutti i suoi i film, a parte qualche sporadica produzione importante (come la commedia musicale The Girl Can’t Help It, 1956 o The Wayward Bus, 1957), restarono relegati nell’ambito del cinema di serie B.
Sin dal 1960 Jayne, non ancora trentenne, era considerata già una vecchia gloria, con un curriculum di pessimi film e una fama di regina del trash che lei aveva scientemente e metodicamente alimentato con il fine di creare attraverso l’eccesso un “mito” che, sostenuto da una certa stampa scandalistica, compensasse con il clamore la povertà della sostanza. Nel 1957, con il secondo marito Mickey Hargitay – un ex campione sportivo ungherese, trasferitosi in America, diventato Mister Universo e infine approdato tra i culturisti che facevano da cornice agli show di Mae West – aveva acquistato a Beverly Hills una villa di quaranta stanze in stile spagnoleggiante, che fu battezzata “Pink Palace” e divenne l’apoteosi del kitsch hollywoodiano. Un florilegio di orrori, che andavano dalla piscina a forma di cuore, al bagno interamente rivestito – pareti e soffitto inclusi – di folta moquette rosa, allo studio imbottito in pelle rosso pomodoro, ai tappeti in pelliccia di orso polare con testa e zampe, ai tendaggi sgargianti in raso sintetico. Ovunque, anche negli esterni, il colore dominante era il rosa; un rosa fastidioso e invadente, declinato in tutte le possibili nuance, dal confetto al “bubble gum”. Persino la fontana nel foyer zampillava Champagne Rosé. Chi suonava il campanello d’ingresso sentiva la sua voce registrata sussurrargli “I love you”.
Jayne Mansfield, era maestra nell’architettare scoop che le consentissero di rimanere alla ribalta sulla stampa scandalistica, anche quando ormai la sua carriera di attrice era risultata sfibrata, inconsistente, senza futuro. Fino all’ultimo – con lo stesso atteggiamento da stellina aggressiva che le aveva consentito di sfondare a ventidue anni – portò avanti con determinazione gli stessi copioni, tanto da divenire una specie di feticcio. Creò un monumento così solido di se stessa, che ancora oggi sopravvive ai suoi film. Già nel 1959, nel corso di una cena dedicata alle attrici italiane, era riuscita a rubare la scena a una giovane e bellissima Sophia Loren, esibendo una scollatura impudica che lasciava intravedere i capezzoli. In una celebre foto, la Loren irrigidita dall’imbarazzo sbircia con la coda dell’occhio il seno strabordante di Jayne, seduta accanto a lei. Proseguì su questa falsa riga per tutti gli anni a venire, scandalizzando per fare parlare di sé e collezionando migliaia di articoli che scrupolosamente raccoglieva e, insieme alla figlia Jane Marie, incollava in pesanti volumi rilegati in pelle rossa (alla sua morte i volumi erano più di cento).
Negli anni che segnarono la sua discesa a rotta di collo dallo status di stella del cinema a quello di caricatura di se stessa, non si diede mai per vinta. Jayne era una di quelle donne che, quando smettono di essere belle, diventano dei mostri nella speranza di richiamare ancora l’attenzione. Era Ingrassata, i seni come due bisacce, trascurata nell’igiene personale, il viso macchiato dalla depigmentazione, la calvizie nascosta da parrucche sempre più eccessive che variavano dal platino, al bianco glaciale, al grigio-argento… Tuttavia era instancabile: una vera “macchina da soldi” che andava avanti a testa bassa per continuare a mantenere quello stile di vita dispendioso (dichiarava 1000 dollari giornalieri di spese, circa 4000 euro odierni) cui lei e la famiglia erano avvezzi. Gli altissimi costi erano legati alle spese del “Pink Palace”, al mantenimento del nuovo compagno, Sam Brody – un avvocato ebreo pieno di debiti e amante del lusso e delle auto costose ( lei gli aveva regalato una Maserati Ghibli da 30.000 dollari subito distrutta in un incidente) – e a quello dei cinque figli. A questo si aggiungevano i viaggi, il personale di servizio e, non ultima, la droga che ingoiava smodatamente – insieme ad alcool, psicofarmaci e pillole anoressizzanti – e che le provocava repentini cambi d’umore sempre più difficili da dominare. Ovunque in casa spuntavano zollette di zucchero imbevute di LSD, persino nella zuccheriera in cucina, tanto che anche la cameriera e la figlia a un certo punto avevano lamentato allucinazioni.
Nell’ultimo periodo della sua vita, ormai trasformata dalla “stampa spazzatura” in un impressionante freak da fiera e privata del suo prestigio di movie star, accettava qualsiasi proposta lavorativa le venisse fatta, incurante del ridicolo, indifferente alle umiliazioni: poteva trattarsi dell’inaugurazione di una macelleria industriale a cui doveva presenziare con al collo una collana di salsicce, dell’apertura di un supermarket o di uno spogliarello (che lei cercava di nobilitare, definendolo “una parodia”) in qualche locale scalcinato. Il degrado della sua immagine non aveva intaccato la sua capacità di far soldi (un’autentica diva del cinema, per quanto malmessa, era sempre di richiamo nei locali di provincia) e con questo deprimente turn over, Jayne riusciva ancora a racimolare ingenti somme di denaro.

Non perdeva mai un’occasione per farsi pubblicità e apparire sui giornali. Pochi mesi prima della sua morte aveva organizzato una sorta di “cerimonia d’iniziazione” officiata da un satanista, tale Anton Szandor LaVey, che viveva in una vecchia cadente dimora in stile Psyco, detta “Black House” poiché tutto era nero, persino l’erba del giardino. Tra funerei tendaggi e animali impagliati, circondata da tutto un bric-à-brac orrorifico da Luna Park, Jayne posò per i fotografi in miniabito bianco traforato stile western, con un teschio in mano. In seguito in molti videro nella sua tragica morte una sorte di maledizione satanica, l’esito infausto di questa grottesca pantomina che, convertendola alla Chiesa di Satana, avrebbe dovuto invece donarle eterna gloria.
“Credo nelle entrate sfavillanti”, dichiarò spesso nelle interviste: ma il vero coup de thèatre fu invece la sua uscita di scena. Avvenne a tarda notte, il 29 giugno del 1967. Jayne si era esibita poco prima con uno spettacolino di strip-tease in un mediocre ristorante-night di Biloxi e stava viaggiando verso New Orleans a bordo di una Buick Electra blu metallizzato insieme a Sam Brody, a un giovane autista e ai tre figli più piccoli; il mattino seguente era attesa in un’emittente locale per una ripresa televisiva. Era stanca, un po’ alticcia, indossava un miniabito azzurro con stivali in similpelle blu e teneva in grembo uno dei quattro chihuahua che la seguivano ovunque. Poco prima, nel parcheggio del ristorante, alcuni uomini le avevano rivolto sguaiati apprezzamenti scambiandola per un’anonima puttana. Ma la cosa non l’aveva disturbata, anzi: l’eccitazione dei maschi la rassicurava.
Improvvisamente, allo sbocco di una curva l’auto, che viaggiava a velocità sostenuta, si trovò di fronte il retro di un pesante semirimorchio che aveva frenato all’improvviso, essendosi ritrovato immerso nella nebbia mefitica provocata da un mezzo per la disinfestazione delle zanzare che viaggiava sulla corsia opposta. L’impatto fu inevitabile. La Buick si schiantò contro il camion con una tale violenza da conficcarsi per tre quarti sotto il telaio del rimorchio: il tetto fu divelto come il coperchio di una scatola di sardine. Jayne , col la testa rovesciata all’indietro contro il sedile, fu straziata dalle lamiere taglienti che le “raschiarono” il viso: subì la distruzione della mascella e dei denti, l’asportazione delle labbra, delle guance e del naso, fino allo scoppio della scatola cranica due centimetri sopra l’arcata sopraccigliare, con conseguente spargimento un po’ ovunque di materia cerebrale. All’arrivo dei soccorritori, nella confusione generale, un folto brandello della parrucca che indossava, rimasto impigliato in uno dei montanti dell’auto, fu scambiato da lontano per la testa dell’attrice creando il mito della “decapitazione”.
Sam e il guidatore morirono sul colpo, insieme a due dei chihuahua. I bambini, che al momento dell’impatto dormivano sul sedile posteriore, sopravvissero con lievi ferite. L’ultima immagine di Jayne viva, riportata da un testimone che li vide far sosta in un drug store lungo la strada, fu proprio un gesto di tenerezza materna: prima di prendere posto sul sedile davanti dell’auto e ripartire, aveva aperto la portiera posteriore e si era chinata ad accarezzare i bambini insonnoliti.
Ma, come in una favola horror, Jayne Mansfield – “la sola ed unica” come lei era solita puntualizzare – sembra condannata a non terminare mai il suo show. Il rottame dell’auto, con i rivoli di sangue coagulato ben evidenziati, fu a lungo esibito nelle fiere; il chihuahua, che in numerose foto dell’incidente compare stecchito accanto all’auto, fu imbalsamato ed è esposto al “Museum of Death of Hollywood”; uno dei guanti di lamé che Jayne indossava quella notte, ancora insanguinato, è stato recentemente battuto in asta. Persino il Pink Palace si guadagnò la fama di luogo “infestato”. Lo acquistò Ringo Starr e tentò in tutti i modi di imbiancarlo ma un rosa inquietante continuava a riemergere dai muri. Un secondo proprietario dichiarò di sentire spesso il profumo di rose di Jayne e di averne sorpreso il fantasma che vagava nelle camere del primo piano, come se stesse disperatamente cercando qualcosa. Infine, nel 2002, anche questo pezzo di storia di Hollywood fu abbattuto.
Paolo Schmidlin
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