L’INDIFFERENZA DEL CARNISMO
Manifesto per gli animali | un pamphlet di Melanie Joy (Laterza, 2018)
di Maria Dente Attanasio
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 36 | settembre 2018
Tutto ciò che ci ripugna non è necessariamente cattivo. Chiudi gli occhi e gustati il cibo che sta nel piatto, senza chiederti cos’è. Assaporalo; vedrai che il tuo palato saprà riconoscerlo come buono e che il suo sapore ti ricorderà altri cibi che mangi abitualmente. Ora apri gli occhi e guarda: quei croccanti e gustosi stuzzichini dal sapore simile a pop corn erano un mix di locuste, scarafaggi e tarme saltate in padella, ciò che credevi fosse pollo era una coscia di gatto cotta allo spiedo, quella gustosa bistecca ai ferri era carne di cane. Hai mangiato con gusto, eppure adesso che sai di cosa si trattava vorresti rimettere tutto. Provi disgusto per quegli insetti che reputi spregevoli e un profondo senso di colpa per cani e gatti che invece consideri animali da affezione. Potresti ripetere l’esperimento inverso, mangiando qualcosa che sai essere di tuo gusto: chiudi gli occhi e mentre mastichi sforzati di pensare che si tratti di qualcosa che non mangeresti mai. Il risultato sarebbe lo stesso: quel sapore che tanto amavi ti riuscirebbe d’un tratto vomitevole. Ecco, vedi, cosa può fare una cultura? Può trasformare un piacere in qualcosa di aberrante, può bendarti gli occhi e falsare le tue percezioni. Molte delle cose che credi, pensi o ritieni essere parte dei tuoi gusti personali, sono soltanto frutto di un condizionamento culturale che ti ha forgiato e che agisce in nome e per conto tuo.
Questo piccolo esperimento ci dimostra quanto grande può essere la distorsione tra natura e cultura: nel corpo è una natura universale, infinitamente varia e possibilista che si esprime, ma nella mente umana è sempre in atto una determinata cultura (con i suoi particolarismi e le sue consuetudini, con le sue norme e i suoi veti) che esercita il proprio influsso. Il detto “siamo quel che mangiamo” ha delle implicazioni che vanno ben oltre le nostre semplici preferenze culinarie, e l’esperimento che abbiamo appena fatto ce lo dimostra. Un palato che, nostro malgrado, accoglie con gusto certi sapori, un corpo che assimila cibi apparentemente detestabili, contraddicono la nostra presunta consapevolezza; smantellano molti nostri preconcetti e false credenze; mettono a nudo l’ipocrisia che si cela dietro tante scelte o norme morali che pratichiamo; ci mostrano, in definitiva, quanto ristretto e poco lungimirante possa essere il nostro orizzonte mentale.
«La maggior parte di noi non si è mai chiesta perché si cibi di certi animali e di altri no. Si può vivere una vita intera senza mai domandarsi perché la carne di un vitello ci sembri squisita e quella di un cane ci disgusti, o perché siamo affezionati al nostro gatto ma non proviamo niente per il maiale o il pollo che sono diventati la nostra cena.» Con queste parole la psicologa Melanie Joy mette in risalto il paradosso del carnismo, ossia quel sistema di pensiero che ci induce a mangiare certi animali al posto di altri, e che agisce in maniera subdola, al riparo dalla ragione e dalla coscienza critica. Joy è un’attivista per i diritti degli animali, quindi una di quelle figure antipatiche, spesso additate come fanatiche, il più delle volte derise, quando non addirittura odiate, da coloro i quali si nutrono regolarmente di carne. Il suo impegno animalista va avanti da anni e, dopo varie pubblicazioni, ci consegna adesso il Manifesto per gli animali (Laterza, 2018), un testo che in poche righe condensa una riflessione acuta su alcune cocenti contraddizioni dell’odierna società dei consumi. Il carnismo è un fatto culturale e, come molti altri contenuti trasmessi dalla cultura dominante, tendiamo a considerarlo come un dato di fatto; una norma che accogliamo e facciamo nostra passivamente, proprio perché condivisa da (quasi) tutti.
Accade che anche le cose più orride possano, per il tramite di una cultura, apparirci lecite e desiderabili. Ci inorridisce la vista del sangue o di un cadavere, ma non quella di un corpo scuoiato e fatto a pezzi, delle sue carni ancora grondanti sangue, di quelle macinate e racchiuse in un budello e di tutte quelle viscere e organi interni confezionati in un vassoio presso una macelleria. Ci indigniamo guardando un video che mostra maltrattamenti verso un cane o un gatto, ma decidiamo di ignorare o lasciamo cadere nell’indifferenza ciò che avviene all’interno degli allevamenti intensivi e dei mattatoi: luoghi posti in lontananza, blindati, inaccessibili, ben diversi da quelli mostrati nella pubblicità che mostra mucche, maiali e polli gaudenti. Il carnismo, per perpetrarsi ed eludere la coscienza collettiva dai suoi orrori ha bisogno di agire nell’invisibilità, nascondendo alla vista le proprie vittime e negando le atroci sofferenze a cui le sottopone. Non c’è un’aia, nessun verde prato dove pascolare, ma solo enormi capannoni senza finestre, dove un esercito di povere bestie viene tenuto pigiato in gabbie talmente piccole da consentirgli di muoversi a malapena. Animali cui si nega un briciolo di dignità e di pietà, vittime predestinate a sfamare la nostra ingordigia; animali da allevamento, ovvero solo e unicamente carne da macello, cui viene riservato un destino atroce. «Vengono, per esempio, fecondati e castrati con la forza, subiscono il taglio di becchi, corna e code senza alcuna anestesia; (…) e non è inusuale che vengano sgozzati ancora coscienti o vengano bolliti vivi.» Animali trattati come merci, nonostante non siano molto diversi da quelli verso i quali ci prodighiamo in mille cure e che consideriamo nostri amici, come, appunto, cani e gatti. Ogni settimana viene ucciso in modo cruento un numero di animali da allevamento superiore a «quello delle vittime di tutte le guerre della storia dell’umanità.» che potrebbe sfamare tre volte la popolazione globale, ma che in gran parte finisce buttato tra gli sprechi quotidiani della grande distribuzione organizzata.
In quanto espressione di una cultura dominante, il carnismo ha elaborato le sue strategie di legittimazione, spesso basate su falsi miti e credenze, grazie alle quali elude a priori ogni giudizio critico; «la sua struttura – scrive Joy – è simile a quella di altri sistemi oppressivi, come il razzismo e il patriarcato.» La strategia di cui più si serve è quella della giustificazione, che si articola negli assunti delle “tre N”: «mangiare animali è normale, naturale e necessario. E, ovviamente, sono gli stessi utilizzati nel corso della storia umana per giustificare pratiche violente che vanno dallo schiavismo alla dominazione maschile.» Ma questi tre assunti possono valere solo all’interno di una data cultura di riferimento. È normale l’entomofagia (mangiare insetti) tanto quanto lo è mangiare cani e gatti; è normale usare gli escrementi di vacca a scopo terapeutico o adorare i topi perché ritenuti sacri; è normale che ogni anno vengano sgozzati e macellati centinaia di migliaia di agnelli, per la Pasqua cristiana come per la festa del Sacrificio islamica: ogni pratica può risultare normale se largamente condivisa, per tradizione e antica consuetudine, da una maggioranza. Il potere persuasivo di una cultura può giustificare e far passare per normale anche le pratiche più ingiuste e aberranti, come ad esempio la circoncisione o l’infibulazione, le spose bambine o le pubbliche lapidazioni di donne sospettate di infedeltà, fino alle aggressioni delle persone omosessuali che in taluni paesi vengono persino frustati o impiccati pubblicamente. È naturale tutto ciò che è in natura, come l’ermafroditismo e l’omosessualità; eppure presso molte culture vengono ancora oggi visti, il primo come un’aberrazione e il secondo come una “tendenza contro natura”. Anche l’omicidio e lo stupro, rileva la Joy, sono pratiche altrettanto antiche e naturali, eppure non ci sogneremmo mai di giustificarli. Ogni cultura, per quanto raffinata ed evoluta, ha in sé qualcosa di barbarico, di irrazionale: una norma, per quanto condivisa da tutti, non è necessariamente normale o naturale. Nemmeno quando si maschera dietro l’espediente della necessità, altro mito fondante del carnismo. Mangiare carne, ci viene detto, è necessario. Ma esistono popoli la cui alimentazione, per motivi geografici o economici, è quasi esclusivamente vegetale, così come esistono molti studi che dimostrano come un’alimentazione a base di vegetali o vegana, non solo può fornire tutto l’apporto nutritivo di cui abbiamo bisogno, ma può risultare anche più salutare di quella carnivora.
Leggendo il Manifesto degli animali, ci rendiamo conto quanto sia vero ciò che Melanie Joy afferma, quando scrive: «Il carnismo è solo una delle tante atrocità, una delle tante ideologie violente che hanno sciaguratamente segnato la storia umana. E sebbene l’esperienza di ciascun gruppo di vittime sia sempre in qualche modo unica, i sistemi di per sé si somigliano tutti, perché la mentalità che avalla quelle violenze è la stessa.» Così, quando lei ci induce a guardare oltre le barricate di quegli stabilimenti dove ogni giorno si consuma una mattanza senza fine, tra supplizi, guaiti, sibili e strilli di povere bestie strappate alle loro madri, per essere scuoiate, bollite o triturate vive; quando ci invita a fissare lo sguardo su quei «camion carichi di bestie che vengono portate al macello, occhi e musi schiacciati tra le assi delle fiancate del veicolo», mentre noi vorremmo invece girarci dall’altra parte, ecco che queste immagini destano in noi il ricordo di altri orrori: la mente va a treni-merce carichi di uomini, donne e bambini pigiati come acciughe, diretti verso quei lager dove a nessun “civile cittadino” era stato dato affacciarsi. Un orrore occultato, invisibile, e perciò inesistente. Nella postfazione, Leonardo Caffo (citando Kripke, Donaggio e Cole) torna su queste inquietanti analogie: «non hanno né nomi propri né rigide designazioni, ma numeri tatuati come nella peggiore delle analogie storiche; non vedono la luce se non per mettersi su un camion che li porta al macello e tutta la retorica che li circonda, tipo “vecchia fattoria”, è un modo per separarci ancora di più dalla realtà.» Questo manifesto potrebbe perciò essere ribattezzato “Manifesto dei diritti universali”, proprio perché, come scrive ancora Caffo: «L’animalismo è una sorta di umanesimo dilatato: i motivi per cui un corpo è potente e rispettabile a prescindere dal genere che esprime se valgono per Homo Sapiens allora, logica vuole, valgono per ogni altra specie vivente.» Una riflessione, questa, che richiede da parte nostra lo sforzo a guardare il mondo in modo orizzontale e non in verticale, come secoli di antropocentrismo ci hanno abituati a fare. Un mondo dove tutte le forme di vita hanno diritto a uguale considerazione e rispetto. Ma anche un invito a saper compiere delle scelte eticamente in linea con questa rinnovata consapevolezza.
Maria Dente Attanasio
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 36 | settembre 2018
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