FRANCO BASAGLIA | Compie 40 anni la legge che abolì i manicomi

FRANCO BASAGLIA

Compie 40 anni la legge che abolì i manicomi

di Claudio Zamboni

Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 36 | settembre 2018

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Il 13 maggio 1978 veniva approvata in Parlamento la legge 180 di riforma psichiatrica, che sanciva la chiusura dei manicomi. Sebbene sia rimasta in vigore solo per pochi mesi (presto assorbita, lo stesso anno, dall’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale), questa legge costituì un importante traguardo sul tema del trattamento delle infermità mentali, avviando in Italia quel processo di superamento degli ospedali psichiatrici già auspicato a partire dai primi anni Sessanta. La ricorrenza del quarantennale non può prescindere dal ricordo di colui al quale essa è comunemente associata, lo psichiatra e neurologo veneziano Franco Basaglia (1924-1980), fautore della moderna concezione di salute mentale e riformatore della disciplina psichiatrica in Italia. Basaglia manifestò fin principio la sua critica all’impostazione fredda e istituzionalizzata della psichiatria ufficiale. Il medico non poteva limitarsi solo a un approccio distaccato atto a stabilire una diagnosi in base a una serie di sintomi classificati, ma doveva sforzarsi di entrare in relazione col paziente e di stabilire con lui un rapporto empatico ad ampio spettro, capace cioè di comprendere la totalità della persona, la sua mente, il suo corpo, la sua storia. Un paziente restava pur sempre una persona, e in quanto tale meritava rispetto, considerazione, ascolto, comprensione. Nessuna terapia può sostituirsi ai rapporti umani, anche nelle patologie più complesse. La riformulazione dell’approccio alla malattia, l’individuazione di nuove modalità terapeutiche e, più in generale, la ridefinizione del rapporto medico-paziente, furono il portato di idee innovative che animarono Basaglia fin da giovanissimo.

L’esperienza presso gli ospedali psichiatrici di Gorizia e di Parma, dove l’impatto con la realtà del manicomio fu per lui particolarmente drammatico, non solo rafforzò queste sue idee, ma diede loro un carattere d’urgenza: bisognava adoperarsi a porre fine a tutto il disumano orrore che si consumava all’interno dei manicomi. E bisognava farlo subito. «Dal momento in cui oltrepassa il muro dell’internamento, il malato entra in una nuova dimensione di vuoto emozionale (…); viene immesso, cioè, in uno spazio che, originariamente nato per renderlo inoffensivo ed insieme curarlo, appare in pratica come un luogo paradossalmente costruito per il completo annientamento della sua individualità, come luogo della sua totale oggettivazione.» Già all’indomani del suo primo incarico a Gorizia, Basaglia operò una grande rivoluzione: vennero spalancati i cancelli dei vari padiglioni e reparti che rendevano l’ospedale simile a un luogo di detenzione, pose fine alla separazione coatta fra uomini e donne, e con essi abolì tutti i metodi di contenzione fisica e le terapie dagli effetti devastanti come l’elettroshock. Il paziente tornava a essere un uomo, con i suoi bisogni e i suoi sentimenti; non più un “oggetto”, ma un corpo e un’anima parlanti con cui entrare in relazione, in un rapporto che coinvolgeva medici e personale infermieristico. L’ospedale diventava luogo di relazione, di aggregazione sociale e di sperimentazione, anche attraverso l’organizzazione di laboratori didattico-creativi, feste e gite finalizzati a incentivare le facoltà percettive, intellettive ed espressive dei pazienti in cura. Ma diventava soprattutto un luogo aperto alla città e al territorio, per farsi volano di un più ampio progetto di “comunità terapeutica”. Tanta considerazione verso chi, ritenuto matto, era stato espulso dalla società e consegnato a un impietoso processo di cancellazione, era qualcosa di scandaloso per l’epoca. Tutto ciò era impensabile, nemmeno lontanamente concepibile, sia sul fronte istituzionale sia su quello sociale. A Gorizia come a Parma non mancarono quindi le opposizioni e gli ostruzionismi che, per paura o cecità ideologica, tentarono di ostacolare quest’opera riformatrice. Ma Basaglia non si lasciò scoraggiare, insistendo con fermezza sui suoi propositi.

Alla direzione dell’ospedale psichiatrico di Trieste il suo impegno si fece ancora più radicale. «L’assenza di ogni progetto, la perdita del futuro, l’essere costantemente in balia degli altri senza la minima spinta personale, l’aver scandita e organizzata la propria giornata su tempi dettati solo da esigenze organizzative (…)»: bisognava infrangere questo schema alienante e istituzionalizzato. Fondò una cooperativa di riabilitazione lavorativa dei pazienti, ma soprattutto precisò il suo più grande obiettivo: il manicomio andava chiuso. Non era sufficiente trasformarlo all’interno o edulcorarne l’immagine; bisognava trasformare la società all’esterno affinchè fosse in grado, non solo di accogliere, ma anche di investire su quelle persone. Un progetto a dir poco utopistico in una società che, in rapporto all’infermità mentale, era totalmente impreparata e priva di strumenti, e che molto semplicemente aveva scelto di risolvere il problema allontanandolo da sé. Basaglia intese il suo ruolo di medico, non soltanto in termini di cura della malattia, ma avendo come obiettivo il reintegro della persona presa in cura in quel tessuto sociale da cui era stata estromessa, affinché lì potesse riappropriarsi delle sue piene possibilità esistenziali. Per fare ciò era necessario creare servizi e centri assistenziali nel territorio, capaci di accompagnare questo percorso di reintegrazione. La società doveva vincere le proprie paure di fronte allo spettro della follia, non poteva continuare a voltarsi dall’altra parte o illudersi di rimuovere il problema isolandosi da esso. La sua fu una battaglia vinta solo in parte. Né la legge 180 né il Servizio Sanitario Nazionale, hanno saputo recepire fino in fondo gli insegnamenti di Basaglia. Resta ancora molta strada da fare.

Claudio Zamboni


Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 36 | settembre 2018

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