IL DIAVOLO, PROBABILMENTE | Sull’esistenza di dio e del diavolo

IL DIAVOLO, PROBABILMENTE

Sull’esistenza di dio e del diavolo

di Giuseppe Maggiore

Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 35 | Giugno 2018.

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Esiste davvero il diavolo? E se sì, chi è o cosa è stato, veramente? La definizione che ce ne dà Oscar Wilde ne Il ritratto di Dorian Gray è forse una delle più pregnanti: “Ognuno di noi è il suo proprio diavolo, e noi facciamo di questo mondo il nostro Inferno.” Parafrasando potremmo anche aggiungere che ognuno di noi è il suo proprio dio, e coltiviamo in noi una nostra idea di Paradiso. Dio e il diavolo, dunque, altri non sarebbero se non le personificazioni della nostra ambivalente natura, di quel nostro essere, a un tempo, portatori di luce e di tenebra.

Non possiamo parlare dell’uno senza considerare l’altro. Fin dalla notte dei tempi il dualismo tra il bene e il male ha accompagnato l’avventura dell’uomo sulla Terra. Questo dualismo, per il quale filosofi, teologi e pensatori d’ogni tempo si sono a lungo dibattuti, riflette lo stesso principio dell’opposizione che regola ogni cosa. Dio e il diavolo non sfuggono a questa ovvia e per certi versi monotona logica. Se non c’è possibilità di affermare una cosa senza il suo contrario, è evidente che i due estremi del bene e del male siano entrambi debitori l’uno verso l’altro, poiché ciò che li lega indissolubilmente è la loro reciproca sussistenza e complementarietà. Fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, dio e il diavolo condividono il medesimo destino: entrambi partoriti dalla mente umana per dare un nome all’inspiegabile, entrambi non dimostrabili (e perciò forti di questa loro indimostrabilità), entrambi corresponsabili d’ogni accadimento umano e condannati a inscenare l’eterna battaglia tra il bene e il male, entrambi, infine, adorati e oltraggiati dal loro stesso creatore: l’uomo.

Chiedersi ancora oggi se queste entità che chiamiamo dio e il diavolo esistano veramente ha un senso solo se ne consideriamo l’esistenza, non solo in termini spirituali, ma anche e soprattutto in termini squisitamente culturali. Se il primo di questi due aspetti risulta troppo spesso fortemente condizionato da un’impostazione dogmatica che costringe a un atto di fede, possiamo certamente ammettere che, in quanto fatto culturale, dio e il diavolo esistono, e fanno parte a pieno titolo dell’antropologia sociale e culturale delle nostre società. Queste divinità, nate per rispondere a un bisogno dell’uomo, in qualità di espedienti narrativi e interpretativi, hanno avuto – e per certi versi continuano ad avere – una loro ragion d’essere. Sono l’incognita all’interno di un inesauribile discorso che indaga i misteri della vita e del cosmo, e come tali, sono chiamate a fornire quelle risposte che la scienza e l’intelletto umano non riescono ancora a darsi. Poco importa se molto probabilmente si tratti solo di figure mitologiche, e in quanto tali possano essere vere o false; quel che conta è che esse siano riuscite a travalicare l’ambito mitologico per divenire presenze concrete nella storia dell’umanità. Concrete nella letteratura, nell’arte, nella filosofia, nella tradizione dei popoli; concrete finanche nella fondazione di nazioni, nelle politiche e nella formulazione di tante leggi che regolano la società.

La presenza di queste divinità ha, nel bene o nel male, insufflato tutta la propria influenza in ogni ambito, condizionando scelte, ispirando opere, suscitando conflitti, divenendo vessillo di un potere che va ben oltre la sfera spirituale; un potere che le religioni dal canto loro hanno sempre esercitato, non senza abusarne. Se ripercorriamo la storia delle religioni, tra guerre sante, crociate, sante inquisizioni e missioni evangelizzatrici, possiamo renderci conto che, paradossalmente, ha mietuto più vittime dio (o chi ha agito in suo nome) che il diavolo. Eppure  ciò non ha impedito che reo di tutto il male del mondo fosse ritenuto il diavolo; sebbene non ci risulti sia mai stata combattuta alcuna guerra in suo nome o che sia mai stato istituito un apposito tribunale che ne salvaguardasse la morale e i fondamenti dottrinali. In nome di dio (con qualunque nome lo si voglia chiamare) si è ucciso, in nome di dio molti sono andati volontariamente incontro alla morte, dai santi cristiani ai kamikaze islamici. Così la domanda che dovremmo porci è: il bene è sempre tale da qualunque parte lo si guardi?

Al di là di queste considerazioni, occorre però insistere sulla necessità del male come contraltare del bene, poiché è tra queste due tensioni che da sempre altalena la vita dell’uomo. Forze opposte e complementari, e al tempo stesso generatrici di un incessante conflitto: la perenne battaglia che si gioca tra i molteplici istinti che albergano nell’animo umano. Una guerra senza fine, ma necessaria. La guerra che il filosofo Eraclito chiamò, circa duemila e cinquecento anni fa, Polemos “padre di tutte le cose” e che lo stesso vedeva ben rappresentata nell’elemento naturale del fuoco. Se è vero che l’uomo aspiri idealmente al bene è pur vero che l’intera storia dell’umanità è costellata di guerre, conflitti e lotte intestine che insieme alla devastazione generano trasformazione, dinamismo, rigenerazione. Eraclito infatti ci dice: «Dobbiamo riconoscere che la guerra è propria a tutte le cose e che la discordia è la giustizia, e che tutto nasce e finisce fatalmente attraverso la lotta». L’intera civiltà (e quella occidentale in particolare) è, del resto, frutto della guerra piuttosto che della pace, poiché non è nella staticità ma in quella momentanea destabilizzazione e rimessa in discussione dello status quo che i popoli e le società d’ogni tempo hanno raggiunto nuovi equilibri sociali, traendo slancio verso il conseguimento di nuove conquiste civili, democratiche e culturali. Ciò nonostante, l’uomo recrimina da sempre su se stesso, rimproverandosi quest’insopprimibile indole malvagia e bellicosa. Rigetta la guerra mentre la sta combattendo e aspira a un bene che non sarà mai assoluto, poiché ciò che l’individuo o un insieme di persone chiama per se stesso “bene” il più delle volte è frutto di un’alienazione patita da altri. Da ciò ne consegue che tanto il bene quanto il male, siano, dopo tutto, due nozioni che dipendono dalla prospettiva di chi le giudica, perché sempre e comunque devono fare i conti con il proprio relativismo. Ce ne danno la prova le tante mitologie da cui sono originate le varie religioni del mondo.

Comunque li si chiami, ciascun popolo ha il suo dio e il suo diavolo, intimamente connessi alla propria storia e alle proprie vicissitudini. Entità tutt’altro che immutabili, soggette come ogni cosa al mutare dei tempi, delle circostanze e delle sensibilità. L’adiroso, vendicativo, giustizialista e xenofobo dio degli ebrei, quale ci è descritto nelle Scritture veterotestamentarie, è lo stesso di cui ci parla Cristo nel Nuovo Testamento, reso però docile e più incline alla misericordia. Ciò ha fatto sì che teologi e ministri del culto potessero, di volta in volta, speculare sull’uno o sull’altro carattere di questo dio tribale (nato dai sogni di riscatto di un piccolo popolo di pastori erranti) e aspirante a diventare un dio universale. Se leggiamo attentamente i primi libri delle Sacre Scritture, ci possiamo rendere conto che in principio non era contemplata l’esistenza di un’entità malvagia che fosse scissa da dio, ma era costui stesso a indurre in tentazione e all’errore per poi punire. Il dio ebraico Yahweh era insomma una sorta di Giano bifronte, capace di dispensare sia il bene che il male. In tutte le mitologie abbiamo del resto divinità dotate di quest’ambivalenza, poiché tutte sono la proiezione celeste di colui che ne ha forgiato i tratti e le peculiarità; tutte rimandano al loro artefice, che è l’uomo; a quel suo lato oscuro e misterioso, a quel desiderio frustrato di onnipotenza. Queste entità celesti suppliscono l’uomo in ognuna di quelle facoltà di cui egli è deficitario, è attraverso esse che il suo sogno di onnipotenza si realizza: lì dove non può lui possono loro. Da dio l’uomo ha ereditato la Terra e il potere di disporne a suo piacimento; da dio in persona, papi e principi della Terra hanno ottenuto il potere di regnare, di piegare e asservire alla loro volontà moltitudini di uomini; in nome di dio si dettano le regole dell’etica e della morale, si giudica ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, si negano o accordano diritti; per mezzo di dio l’uomo vince la morte e ottiene la vita eterna. Serviva però, come si è detto, un suo contraltare, ed ecco allora l’invenzione del diavolo, cui addebitare ogni azione malvagia, ogni sciagura, ogni crimine. Il libero arbitrio gioca in tutto questo un ruolo fondamentale, in quanto conferisce all’uomo la facoltà di poter oscillare tra queste due entità, seguendo ora l’una ora l’altra, scegliendo di operare per il bene o per il male. Alla resa dei conti, a fare però da jolly nell’intera faccenda, è l’infinita misericordia di quel dio che tutto comprende, tutto perdona, tutto condona e assolve. Nel bene come nel male, l’uomo ne esce fuori in definitiva deresponsabilizzato, perché ridotto a semplice campo di battaglia nell’eterno giogo di queste due potenze contrapposte. Per dirla con Dostoevskij “Se il diavolo non esiste, ma l’ha creato l’uomo, l’ha creato a sua immagine e somiglianza”.

Ben oltre la semplificazione che ne abbiamo voluto fare in questa sede, l’elaborazione del pensiero religioso, in ogni tempo e cultura, rappresenta certamente lo sforzo mentale in cui meglio si è espresso il pensiero simbolico dell’uomo, dispiegando grande immaginazione e creatività. L’esito di questa speculazione intellettiva è l’enorme patrimonio artistico e culturale che si è sedimentato lungo una storia millenaria, consegnandoci un deposito di tradizioni scritte e orali, di luoghi di culto e di rituali celebrativi, ma soprattutto di grandi opere dell’ingegno artistico e letterario. Ciò fa sì che tanto dio che il diavolo (e tutte le altre divinità omologhe) esistono, perlomeno come fatto culturale, e come tali occupano un ruolo importante nell’ambito dell’antropologia sociale. Quella del diavolo, in particolare, è figura eminentemente presente nella Storia e, tra tutte le invenzioni, è forse quella che meglio descrive la natura dell’uomo nella sua concretezza, nei suoi più alti slanci come nelle sue più infime miserie. E forse è proprio per la connotazione negativa che le è stata assegnata che non ha mai smesso di suscitare suggestioni e di affascinare uomini d’ogni estrazione e cultura, ispirando le più orripilanti immagini e i più sublimi versi, generando i più terrificanti incubi e le più travolgenti passioni.

Per la smisurata ambizione dell’uomo, per quel suo irriducibile desiderio di libertà, per quell’antico sogno edenico di Paradiso perduto e mai più ritrovato… il diavolo, probabilmente, è quel che meglio ci definisce; colui che ci attende. Sempre.

Giuseppe Maggiore

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