MEMORIE DELLA VECCHIA BARI | La tagliatrice di vermi | un testo di Gaetano Barreca

MEMORIE DELLA VECCHIA BARI

La tagliatrice di vermi | un testo di Gaetano Barreca (WIP Edizioni, 2018)

di Mario Caruso

Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 35 | Giugno 2018.

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Nella raccolta di racconti La tagliatrice di vermi (WIP Edizioni, 2018) Gaetano Barreca opera un delicato recupero memoriale della Città Vecchia di Bari, rispolverando tradizioni e superstizioni sopravvissute per secoli nell’ingenuo immaginario popolare. Ripercorrendo i vicoli imbiancati di fresco, sempre lindi, di quest’antico presepio apulo affacciato sul mare ci imbattiamo in un nutrito campionario di schietta umanità, un popolino operoso e solidale, timorato ma ospitale, povero ma bello. Le narrazioni di Barreca, romanzate ma attinte da testimonianze reali, lasciano emergere tutto un mondo sopito, lontano nello spazio e nel tempo ma ancora recuperabile, percepibile; scopriamo così che la Bari-Vecchia sparita, fagocitata dalla modernità, respira ancora nel ricordo degli ultimi eredi, figure ponte tra passato e presente, capaci di elargire una solida testimonianza. Questi sette racconti (corredati in appendice di un’interessante sezione di articoli e ricerche) hanno il fascino delle storie che si raccontavano intorno a la frascère (ovvero il braciere), storie e credenze tramandate per generazioni, maglie di una cultura popolare generatasi dall’intreccio di cristianesimo e paganesimo.

Nel racconto La tagliatrice di vermi, scelto come titolo della raccolta, è tratteggiata la figura della guaritrice dagli ossiuri (vermi intestinali che possono provocare disturbi sia gastro-enterici che neurologici). Per esteso il verme è il male strisciante (fisiologico o psichico) cagione del disturbo occulto, l’intruso che altera gli equilibri interiori. Si ricorreva alle cure della guaritrice per ogni sorta di malessere, specie per la salute dei bambini. Attraverso un rituale parareligioso – recitando formule, preghiere, scongiuri e imponendo le mani – il male veniva allontanato, espulso, tagliato. Solo nell’area del barese queste guaritrici erano denominate “tagliatrici” (dall’atto del tagliare mimando con le dita le lame della forbice); nel film L’albero degli zoccoli Ermanno Olmi ne ha fissato una declinazione bergamasca. Altro termine è “segnatrici” (dall’atto del segnare con il “segno della croce” il corpo del malato). La facoltà di guarire è per antica tradizione assegnata alla donna (colei che ha in cura la prole e il focolare); ibrido tra sacerdotessa e dottoressa la tagliatrice incorpora anche certe velleità della strega medievale. Per la stesura del racconto l’autore si è avvalso della testimonianza di un’abitante storica di Bari-Vecchia, la signora Porzia, esperta tagliatrice (diventata il personaggio della signora Gina, già protagonista del romanzo di Barreca Dopo il funerale. Novembre 1975 (2016). Il dono di saper guarire è tramandato di norma da nonne a nipoti o da suocere a nuore (un lascito tutto al femminile).

Il poeta e studioso di tradizioni popolari Alfredo Giovine (1907-1995) fu il primo a svelare la formula segreta recitata dalla tagliatrice: «…A cusse fìgghie fange passà u delòre. Sand’Arònze mì, da Rome menìiste. Come la spate o cìnde pertàste, come tagghiàste la cape o serpènde, acchesì tàgghie chìsse vìirme da iìnd’a cchèssa vènde.» (Il testo completo di quest’antica preghiera-scongiuro è riportato infatti nel suo Canti popolari e religiosi baresi, Bari, 1963). Molte informazioni sulla cultura popolare barese Giovine le attinse direttamente da sua madre, detta Nononne Iangeline, depositaria anche della divertente La storia del peto (riproposta da Barreca nel volume). Felice Giovine, figlio del poeta, è presidente dell’Accademia della lingua barese “Alfredo Giovine”. Altra figura indagata da Barreca è quella della “fata della casa”, entità femminile che alberga nelle mura domestiche dispensando, a seconda, dispetti o protezione. La memoria popolare barese annovera tutta una serie di rituali (scaramantici, propiziatori, divinatori) come quello delle tre fave sotto al cuscino o quello della fusione del piombo. «Seguendo un antico rito – scrive Barreca – si faceva fondere sul fuoco del piombo, per poi gettarlo incandescente in un recipiente d’acqua, nel quale si solidificava assumendo le forme più strane. Dall’interpretazione di quelle forme, le ragazze avrebbero potuto capire il mestiere del futuro marito» (e quindi a quale destino di ricchezza o povertà sarebbero andate incontro).

Altra personificazione presa in esame dall’autore è quella della masciàra, donna malvagia che lanciava il malocchio, faceva ammalare i bambini e aveva il potere di tramutarsi in gatta. Il termine masciàra ha una doppia derivazione: è assimilabile a Megera (una delle tre Erinni), e rimanda anche al greco Μεγαιρα (ossia all’invidiare). In uno dei racconti Barreca narra inoltre del cosiddetto miracolo della luce, un fenomeno che si ripete ogni 21 giugno alle 17.10 presso la Cattedrale romanica di San Sabino (XIII secolo): nel solstizio d’estate i raggi del sole attraversano il rosone e ne proiettano il disegno sul coincidente mosaico pavimentale. Dai vicoli della città vecchia – coi suoi crocicchi puntellati di archi, sottani, edicole votive, panni stesi, con i minuicchi e le orecchiette lasciate ad essiccare sui grandi telai, il profumo delle focacce calde e delle carteddàte al vin cotto, l’aroma del caffè che avvolge e invita l’ospite, le grida dei topini (i monelli), le chiacchiere vivaci delle comari, i richiami degli ambulanti… – emerge un presepio di rara umanità dove saggezza e ingenuità, religione e superstizione, convivono in pacificata armonia. È questo colorito passato, depositario di cose semplici (e magiche), che Barreca si propone di rievocare e tramandare nelle pagine del suo libro, affinché il presente (distratto e vieppiù disumanizzato) possa trarne beneficio e insegnamento.

Mario Caruso


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