di Massimiliano Sardina
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 35 | Giugno 2018.
Mengele, lo spietato Herr Doktor del Terzo Reich, il Todesengel (angelo della morte) di Auschwitz, non è mai comparso davanti a un giudice, né ha mai scontato un solo giorno di carcere per gli odiosi crimini commessi nel corso della sua aberrante carriera medica. È passato alla storia come uno degli uomini più crudeli mai apparsi sulla faccia della Terra. Dopo la caduta di Hitler e il tracollo della Germania è fuggito in Sudamerica, rendendosi irreperibile fino alla fine dei suoi giorni. Come tanti altri altissimi papaveri del regime godette di protezioni speciali che gli garantirono l’invisibilità. Nel romanzo storico-biografico La scomparsa di Josef Mengele (Neri Pozza, 2018) lo scrittore francese Olivier Guez racconta il tormentato esilio del celebre latitante in Sudamerica, protrattosi dal 1950 al 1979. Mengele, com’è noto, riuscì ad emigrare grazie a un falso documento di identità ottenuto a Termeno (Alto Adige). Ricercato dai servizi segreti israeliani, dal governo statunitense e da quello tedesco, visse per lo più tra Argentina, Paraguay e Brasile. Guez, affidando la gran mole di dati biografici alla macchina perfetta del romanzo, ne traccia un ritratto insieme umano e mostruoso. Fuori dalla Germania hitleriana, spogliato della sua divisa di medico nazista, lontano dalla moglie e dal figlio, Mengele è solo la triste caricatura di un uomo libero. La latitanza sotto falsi nomi (Helmut Gregor, Fritz Ullmann, Peter Hochbichler… fino a Wolfgang Gerhard) lo costringe a vivere una vita diversa da quella che avrebbe voluto condurre. Di qui la rabbia e la frustrazione. Guez ci restituisce la sagoma vigile e tremante di un animale braccato, un fantasma che vive all’ombra di se stesso nella perenne paura di essere riconosciuto e trascinato al patibolo della giustizia. «Mengele sa che non si fugge da una prigione a cielo aperto.» Nel trentennio post-Auschwitz mai un pentimento, mai una lacrima. Avevano interrotto le sue ricerche mediche proprio sul più bello: era questo, solo questo, a mandarlo in bestia. Confidava nella resurrezione della grande Germania e di poter ritornare alle sue mansioni di fante della biopolitica nazista. Mai venne meno la sua venerazione per il Fuhrer, «uomo del secolo e gigante della Storia nel solco di Alessandro Magno e di Napoleone.»
Josef Mengele nasce a Günzburg il 16 marzo del 1911. Rampollo di una famiglia facoltosa e influente, educato da un padre astuto e da una madre arida, Mengele compie i suoi studi medici nel corso degli anni Trenta tra Monaco, Vienna e Francoforte ottenendo prestigiosi dottorati in medicina e in antropologia. Allievo zelante, affascinato dai grandi luminari dell’eugenetica, dell’ereditarietà e dell’igiene razziale, si guadagna presto la stima del più celebre genetista tedesco, il barone Otmar von Verschuer (specialista di gemellarità), divenendone il più stretto assistente a soli ventisei anni. Sarà von Verschuer a spedire Mengele ad Auschwitz, «il più grande laboratorio della Storia, un grandissimo onore per un giovane ricercatore brillante e scrupoloso. Forse lì scoprirà i segreti delle nascite multiple.» Il 30 maggio 1943 Mengele prende servizio ad Auschwitz, dove opererà per ventuno mesi fischiettando arie d’opera sulla rampa di selezione. Gli ebrei, ai suoi occhi, sono solo cavie per i suoi esperimenti. L’immagine che ha di sé è quella del “chirurgo del popolo” che lavora «alla proiezione della razza ariana nell’eternità e al benessere della collettività.» Eminente genetista, ingegnere della razza, indagatore dei segreti della gemellarità, strenuo difensore della purezza ariana, ha come obiettivo quello di produrre superuomini. «Una ex guardiana di un blocco di gemelli zingari ricorda. Dopo aver iniettato lo sperma di un gemello nelle viscere di una gemella con la speranza che la giovane donna dia alla luce un paio di neonati Mengele, constatando che è incinta di un solo bambino, le ha strappato il bimbo dall’utero e lo ha gettato nel fuoco.»
Molte testimonianze degli orrori perpetrati da Mengele le conosciamo grazie a Miklos Nyiszli, un ebreo che Herr Doktor scelse come suo assistente di laboratorio. «Per suo ordine ha segato calotte craniche, aperto toraci, sezionato pericardi, e dopo essere miracolosamente scampato all’inferno ha registrato l’inimmaginabile e l’orrore in un libro.» Nyiszli descrive con dovizia di particolari lo zelo maniacale di Mengele nella sala di dissezione del crematorio, la sua aberrante crudeltà, in un’atmosfera satura dell’odore della carne umana. Zingari, nani e gemelli vengono sottoposti a tutti gli esperimenti chirurgici che un organismo umano è capace di sopportare. Senza anestesia. Per sbarazzarsi delle cavie straziate che stentano a morire Mengele inietta, a bruciapelo, cloroformio nel cuore. Ventuno mesi di macabri orrori. Poi, quando la disfatta è palpabile, gli altissimi papaveri si danno alla fuga. Mengele porta con sé una valigetta contenente tutti i risultati dei suoi studi. Riesce a nascondersi in Germania per alcuni anni, poi si imbarca a Genova a bordo della North King e, dopo tre settimane di traversata, arriva a Buenos Aires il 22 giugno 1949. Il 14 luglio 1950, sotto lo pseudonimo di Ricardo Klement, sbarca a Buenos Aires anche Adolf Eichmann. I due si incontreranno più volte. L’Argentina di Peron offre ai nazisti fuggiaschi una vera e propria dolce vita per tutti gli anni Cinquanta. I servizi segreti internazionali, nel frattempo, lavorano instancabilmente. Il rapimento di Eichmann nel maggio 1960 getta Mengele nel panico. Di lì in avanti vivrà nel terrore d’essere riconosciuto e catturato. L’unica soluzione è spostarsi di continuo, cambiare nome e occupazione, evitare di farsi fotografare.
Nel settembre ’60 Mengele ha quarantanove anni. Grazie ai suoi agganci e alle grosse somme di denaro elargite dal clan-Mengele di Günzburg (una multinazionale che commercia in macchine agricole), il latitante si è stabilito in Brasile, in una fattoria a trecento chilometri da San Paolo. Quando, nel 1964, si celebra a Francoforte il processo Auschwitz tutto il mondo viene a conoscenza degli orrori perpetrati dall’angelo della morte in camice bianco. Le università di Francoforte e di Monaco revocano le lauree conseguite da Mengele in medicina e antropologia. Fritz Bauer annuncia ai media una ricompensa di 50.000 marchi a chi fornirà notizie utili per la cattura del celebre criminale nazista. Per sfuggire alle maglie della giustizia Mengele sposa la strategia del mimetismo, ma più tenta di camuffare la sua identità più questa minaccia di trapelare e di tradirlo. Maledice il suo destino, quella vita da spettro che è costretto a condurre per sopravvivere. Il “mito Mengele” dalla metà degli anni Sessanta domina sui media. La sua fotografia in uniforme è diffusissima. Mengele segue il consolidarsi di questo mito dalla sua gabbia a cielo aperto e, con rabbia, accartoccia i giornali. È divorato dal livore: perché deve essere l’unico a pagare? «…Traditori! Imboscati! Schifosi! Lavorando in stretta collaborazione ad Auschwitz, industrie, banche e organismi governativi ne hanno ricavato profitti enormi (…) e pensa ai colleghi di Auschwitz, venti medici delle SS assegnati al campo. Horst Schumann sterilizzava maschi e femmine irradiandoli con i raggi x prima di castrare gli uomini e sottoporre le donne a ovariectomia. Carl Clauberg impiantava feti di animali nel ventre delle sue cavie umane e le sterilizzava iniettando nell’apparato genitale sostanze a base di formalina. Il farmacista Victor Capesius rubacchiava le protesi dentali ancora sanguinanti dei deportati uccisi per venderle fuori dal campo. Friedrick Entress inoculava il tifo ai detenuti e li eliminava con iniezioni intracardiache di fenolo. August Hirt iniettava ormoni agli omosessuali e ammazzava per mettere a punto una tipologia dello scheletro ebraico.» Guez definisce Mengele “il principe delle tenebre europee”, la reincarnazione del Mefistofele dell’Urfaust, «parto deforme di fango e fuoco.» Mengele è «lo sputo del diavolo».
Nel romanzo Guez si spinge a seguire Mengele nella sua discesa agli inferi. Ne penetra gli stati d’animo, la crescente e delirante vulnerabilità, i moti di rabbia, ma soprattutto il panico e la paura. «Il medico orgoglioso ha dissezionato, torturato, bruciato bambini. Quel rampollo di buona famiglia ha mandato alla camera a gas quattrocentomila uomini fischiettando. A lungo ha creduto di cavarsela facilmente, lui (…) che si considerava un semidio, lui che aveva calpestato le leggi e i comandamenti e causato, imperturbabile, tante sofferenze e tanta tristezza agli uomini, suoi fratelli. Europa valle di lacrime. Europa necropoli di una civiltà annientata da Mengele e dagli scherani dell’ordine nero con il teschio, punta avvelenata di una freccia scagliata nel 1914. Mengele, il dipendente modello degli opifici della morte, l’assassino di Atene, Roma e Gerusalemme, pensava di sfuggire al castigo. Ma eccolo abbandonato a se stesso, schiavo della propria esistenza, con le spalle al muro, moderno Caino che vaga in Brasile.» A dare la caccia a Mengele c’è anche l’infaticabile Simon Wiesenthal che, nel ’67, pubblica Gli assassini sono tra noi; il capitolo dedicato a Mengele si intitola L’uomo che collezionava occhi azzurri. Nonostante gli sforzi internazionali Mengele resta un introvabile. Chi lo crede ancora in Argentina, chi in Paraguay, chi in Brasile. Negli anni Settanta il Todesengel vive il suo ultimo tormentato decennio di latitanza. Sono gli anni in cui Mengele, sempre più prostrato nel fisico e nella mente, tenta di ricucire il rapporto con il figlio Rolf. «Papà, che cosa hai fatto ad Auschwitz?» Anche di fronte al figlio Mengele non mostra alcun segno di pentimento: «Ho fatto solo il mio dovere di soldato della scienza tedesca: proteggere la comunità organica biologica, purificare il sangue, sbarazzarlo dei corpi estranei.» Nel romanzo Guez cristallizza l’icona del male, l’archetipo dell’uomo senza redenzione.
Il 7 febbraio 1979 Mengele muore per un arresto cardiaco a Bertioga, annegando nell’oceano Atlantico. Aveva 67 anni. Viene sepolto nel cimitero di Embudes Artes con il nome Wolfgang Gerhard. Il ritrovamento del suo cadavere viene annunciato dal quotidiano Die Welt solo il 6 giugno 1985. «Il direttore del laboratorio della polizia medico-legale di San Paolo brandisce il cranio come se avesse esumato il fossile di un rettile mitico cercato per secoli, il vero volto del mostro, color del fango, brulicante di vermi, una vanitas, un trionfo della morte.» Le conferme del DNA arrivano nel 1992. «Solo la forma del romanzo – scrive Guez – mi consentiva di seguire passo passo il macabro percorso del medico nazista.» Inflitta l’ultima pennellata al lugubre ritratto del mostro, Guez lo allontana da sé suggellando il distacco con la formula di una preghiera purificatrice: «Possano restare lontano da noi i sogni e le chimere della notte.»
Massimiliano Sardina
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