IL GRANDE VIAGGIO DI ZEROVSKIJ
Mentre Odio e Amore, Vita e Morte si sfidano, Dio progetta un mondo senza l’uomo
di Lillo Portera
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 35 | Giugno 2018.
Stazione Terra. Qui partono e arrivano lunghi convogli che trasportano sogni, speranze, illusioni, “treni già partiti, treni persi o ritrovati”. Un “eterno andirivieni” in cui si snodano le storie e i destini di un’umanità confusa e smarrita. Lungo quei binari in cui transita la vita i treni realizzano “coincidenze di destini”, innescano grovigli di pensieri e di ricordi che si fissano in “infiniti passaggi e paesaggi”. Quei treni sono anche occasioni: quelle colte o perse per sempre. Quelle di chi non si arrende, di chi non si rassegna, di chi vuole ancora partire verso altre destinazioni sfidando la sorte. Ma tra quei binari c’è anche chi si è perso, chi ha gettato la spugna e non parte più. Anche la malattia è un treno; resta da decidere come affrontarla, come compiere il viaggio che ci condurrà al capolinea della vita, lì dove ad attenderci c’è lei, la morte. Questa stazione di infiniti treni e possibilità è il non-luogo per definizione, ma anche l’ultima frontiera possibile del nostro tempo. È qui che nei panni di capostazione fa la sua apparizione Zerovskij – forse un angelo, un mediatore tra Dio e gli uomini. Ha scelto di dimorare tra questi binari, dove pensieri e desideri si susseguono proprio come le case e gli alberi di quegli infiniti paesaggi, gli stessi che lo riportano al ricordo di una lontana notte d’amore consumata in un vecchio motel. Lui da sempre transita nei luoghi dell’approdo momentaneo, dove ci si incontra, e talvolta ci si ama; dove si arriva e si riparte “come due senza nome”. Perché il suo cuore, come un grand’hotel, ha visto transitare tanto amore, anche se, alla fine, è rimasto sempre un letto singolo. Zerovskij abita perciò qui, in questo caos di anime e di corpi che si cercano, si sfiorano, si bisticciano, e poi magari si prendono per mano, perché il viaggio deve comunque continuare. Zerovskij ha scelto come famiglia questa massa di passeggeri dai volti intercambiabili, dai destini irrisolti; un’umanità sublime e meschina a un tempo, da cui si sente irresistibilmente attratto. La stazione diventa metafora di una vita che lui ha vissuto come una giostra di ruoli e di identità, di costumi e di maschere che alla fine gli si sono sovrapposti, formando una solida corteccia. Oggi lui è qui, passeggero tra i passeggeri; vorrebbe racchiudere tutta quell’umanità che fluisce davanti ai suoi occhi in una valigia, perché sotto quelle tante pelli che si porta addosso c’è l’uomo che vive in ognuno di loro, quello che si è fatto sui marciapiedi, e non l’ha mai dimenticato. Tra treni e sogni che partono e arrivano, tra improbabili annunci pubblicitari che giungono da un altoparlante, Zerovskij fischia e regola transiti e passaggi di questa stazione che è palcoscenico di vita.
In principio era il Verbo… Tutto ha inizio con una voce arcana che giunge da molto lontano. Chi parla sta contemplando il mondo dall’alto e la sua voce è simile a una grande apertura d’ali in un volo che plana lentamente verso la Terra. È Dio, che mentre osserva quel brulicare di anime inquiete, sempre in corsa contro il tempo, sempre in cerca di qualcosa, mai contente, mai risolte, medita sulla bellezza del suo disegno originario, stravolto e devastato dalla cupidigia dell’uomo (“il suo unico errore, la sua più cocente delusione”). Guarda e osserva, con amarezza e disincanto; intristito da ciò che vede accenna, con tono severo, a un nuovo progetto per il mondo, dal quale, forse, saremo esclusi.
È notte. Zerovskij avanza nell’oscurità, cantando di questa vecchia stazione che offre riparo ai negletti della società e che cela gli amori e le storie proibite. Si aggira con una lanterna in mano, e come Dio spia le esistenze randagie di un’umanità che brancola nel buio, tra un barbone, un playboy, una checca “che vuole solo svoltare una notte d’amore con un macchinista”. Questa incursione notturna potrebbe essere un sogno, oppure l’anticipazione di quel che è destinato a compiersi tra quei binari in cui la vita va, come “un bagaglio che viaggia senza destinazione”. Il prologo di una storia che ormai va avanti da sola, senza una guida, senza una direzione, come un treno in corsa verso una meta incerta. Che ne sarà dell’originario progetto divino, ormai violato e corrotto? Forse rischia di dissolversi nel nulla, ma magari val la pena di fare un ultimo tentativo, e Zerovskij è qui per questo.
Albeggia, ed ecco che Adamo ed Eva fanno la loro comparsa sulla scena. Il primo uomo e la prima donna della Storia, i primi passeggeri di questa stazione che diventa metafora del mondo. Archetipi di un’umanità irrequieta, sempre in fuga da se stessa, preda delle sue smisurate ambizioni e dei suoi insaziabili appetiti, Adamo ed Eva rimuginano ancora su quella colpa che gli causò la perdita del Paradiso: “…eravamo destinati. Siamo nati disgraziati. Forse guasti o mancanti di qualcosa…”. Rimuginano ma non si pentono delle loro scelte, non rinunciano all’effimero delle loro esistenze, ai riempitivi della loro inappagabile frustrazione. Adamo è un uomo codardo, irresponsabile, immaturo. Lui è qui chiamato a incarnare il vecchio (e pur sempre attuale) stereotipo dell’uomo irrisolto, fallocentrico, dissimulatore della propria inettitudine a sapere amare. Lei, la vittima per definizione: la donna invischiata nell’antica subordinazione all’uomo, da cui non riesce mai a liberarsi; vittima dunque di se stessa e del suo amore malriposto. E fuggono, fuggono entrambi: dalle loro case, dai loro posti di lavoro, dai loro luoghi di approdo mai definitivi. Cercano, cercano sempre: amori ed emozioni a buon mercato, tra uno Chanel, un Paco Rabanne, gioielli e tacchi a spillo. La loro è una perenne fuga da se stessi. Non si guardano, non si parlano, fuggono l’uno dall’altra. Soli entrambi, pur restando insieme. Il loro è un incontro mancato, un viaggio che li riporta sempre al punto di partenza; lì dove dovrebbero imparare ad amarsi, finalmente. Zerovskij, entità mediatrice, si pone al centro di questa loro antica diatriba (“È una guerra senza fine: questi sessi inconcludenti fanno a pezzi i sentimenti”) e invita Eva a non soccombere, sperando in una sana complicità tra i due, affinché “la violenza non festeggi più”. Queste due figure archetipiche diventano dunque la personificazione dei sentimenti, mai pacificati, sempre in conflitto tra loro, ma anche di una condizione universale: è tutto il creato che patisce le conseguenze di una cattiva condotta, e geme, e lotta per la sopravvivenza. Lui, Zerovskij, vorrebbe, potrebbe donare qualche nuova chance a tutti i fuggiaschi che transitano nella stazione-mondo, dove, tra inutili burattinai e falsi cortei, c’è chi ruba, chi uccide, chi innalza muri. “Lungo questo via vai di noia e mediocrità” lui “anima controvento”, vorrebbe donare all’umanità lo slancio dei voli suoi.
Così, mentre da un altoparlante si susseguono messaggi pubblicitari che decretano la morte della Cultura, il Tempo, l’Odio, l’Amore, la Vita, la Morte… tutti accomunati dalla stessa solitudine e incomprensione, si materializzano, dandosi convegno in questo crocevia.
Tempo, lungimirante e di buona memoria, è lo spettatore privilegiato della Storia, colui che può giudicare le imprese umane – quelle più sagge, quelle più vane – nell’ampia prospettiva di corsi e di ricorsi. Si sfoga, punta il dito contro le mille parvenze del nulla di cui è fatta questa nostra civiltà, inveisce contro quest’umanità che si crede tanto furba, ma che poi, alla fine, commette sempre gli stessi errori, cadendo prigioniera di se stessa: “Impronte digitali, codici a barre, codici fiscali, partite iva. Gabbie. Trabocchetti. Labirinti. Grandi architetture del nulla…” tutto è concepito per togliere autonomia e spazio, perché qualcuno decida al posto nostro cosa dobbiamo fare o pensare. Ci crediamo liberi, e accettiamo ben volentieri questa manipolazione. Non siamo padroni di nulla, men che meno di noi stessi. Non abbiamo una vita vera, ma una sua pantomima affollata di mille chimere. “Per ribellarsi – dice Tempo – bisognerebbe tornare a provare il dolore di sentirsi oppressi, additati, emarginati, sterilizzati”. C’è, in queste sue ultime parole, l’amarezza per un’umanità ammorbata dall’indifferenza, incapace di provare empatia e di solidarizzare con i vecchi e i nuovi perseguitati, con gli esclusi, i discriminati. Non c’è, né mai ci sarà, una vera felicità, fintanto che tenteremo di espropriare gli altri dal prenderne parte.
Odio irrompe a ritmo di un vigoroso swing, maliardo, tronfio d’orgoglio e con la sicumera di chi sa d’essere il più forte. “Io esalto la libertà e lo strapotere.” È lui che in fondo muove il mondo, è lui che si insinua nelle coscienze e inquina i rapporti tra gli uomini. Il giallo di cui veste allude all’allegra ebbrezza di un benessere fasullo ed evanescente, ma anche alla gelosia che ammala i desideri. Fu l’invidia del diavolo a spingere l’uomo alla disubbidienza in quel perduto Eden; il serpente aggrovigliato al corpo di Odio evoca la colpa delle colpe, l’origine di tutti i mali, il reiterarsi di un vizio autoimmunizzato e irredimibile. Canta il suo essere odioso, disfattista e guastatore; canta con un ghigno beffardo perché sa dove coglierci in fallo, lui che ci conosce meglio di chiunque altro. Canta il suo: “Odiatemi vi prego e vi amerò!” perché, come un serpente che si morde la coda, lui si nutre di se stesso. Da sempre, per sempre, finché la discordia regnerà tra gli uomini.
Odio sfida apertamente Amore in una singolar tenzone: “Sono il vero collante tra i popoli, le razze, le religioni ed i sessi; ed a dispetto di te, Amore, sono sempre ricambiato…”. Amore, dal canto suo, veste il rosso colore della passione, ma è ormai un disabile costretto su una sedia a rotelle, paralizzato per i troppi contraccolpi subiti, perché continuamente smentito dal corso degli eventi. È caduto preda di un equivoco – “Col piacere spesso mi confondono” – e ora si ritrova ridotto a dispensare futili consigli, dirimere conflitti, trovare espedienti per riaccendere i moribondi desideri, o per mantenerli in vita. Un Amore diversamente abile, ma mai del tutto fuori gioco, che cerca ancora di fare breccia nei nostri cuori, che invoca un po’ d’attenzione. È lui il più combattuto e desolato dei sentimenti, sempre costretto a reinventarsi, a barcamenarsi nelle situazioni più difficili, sempre in fragile equilibrio come un trapezista. Odio e Amore sono, in fondo, indissolubilmente legati, l’uno ha bisogno dell’altro per sussistere. Ciascuno propone le proprie avances. Sta a noi, di volta in volta, scegliere a chi dei due cedere… Anche se, forse, sono entrambi menzogneri. Zerovskij inveisce contro Odio, definendolo uno stalker; si inginocchia ai piedi di Amore, lasciandosi andare in un’intensa e commossa supplica “Basterebbe solo che ti voltassi verso me e incontrassi questa mia disperazione… Sarai solo e sempre tu la mia canzone”.
E poi c’è lei, l’Ineluttabile, lei, l’Indifferente, lei, l’Imparziale: la Morte. Da sempre ripudiata, evitata, scacciata. Gelida alcova della notte infinita, culla dell’eterno sonno. Ultimo palpito, ultimo sospiro, ultimo varco. Oscuro grembo che richiama a sé la vita. Da millenni l’uomo tenta scioccamente di sfuggirle, di esorcizzarla, di sconfiggerla, di ingannarla. Ma lei, imperturbabile, ha sempre l’ultima parola. Giunge di nero vestita, e sorniona si scruta intorno, in cerca del prossimo. Nell’eterno dubbio amletico tra l’essere e il non essere, un coro di uomini e donne la interroga sulla propria condizione: “Dicci come mai noi siamo gelidi e frigidi… chissà se siamo vivi noi, o siamo zombie ormai.” Mentre lei, soddisfatta, si lancia in una sfrenata danza macabra che celebra le sue innumerevoli vittorie. Molti di loro vagano, sospesi tra nubi tossiche, imbottiti di psicofarmaci ed eccitanti, avendo come unico lasciapassare una carta di credito. Un po’ di coca, qualche uomo o donna, chissà… e un’auto che sfreccia verso l’aldilà. Non sanno di essere già morti; troppo isterici e fobici. Non sanno che botulino e maquillage tradiscono il nulla e un corpo già in disfacimento. In un moto di compassione, anche lei, la Morte, medita sulla sua ingrata missione: “Ci sono momenti in cui anche io sono desiderata, anelata, attesa come una liberazione. Vedo polmoni impallinati da scariche elettriche, espressioni disarmoniche, lenzuola stanche… vedo ossa dentro le quali passa ormai solo il vento e occhi vuoti su quell’ostinata altalena che dondola tra essere e non essere.” Il suo drammatico monologo è un riferimento esplicito all’eutanasia. Quanti invocano la morte, costretti in letti di tortura? L’accanimento terapeutico spacciato per la sacralità della vita, è soltanto un atto di ostinata disumanità. L’ipocrisia che si erge a etica, nei confronti di una vita che vita più non è. “È più malvagio togliere la vita a chi vuole vivere o negare la morte a chi vuole morire?”
Morte stavolta vorrebbe far suo un ragazzo fragile e demotivato. Si chiama Enne Enne. È un figlio di nessuno, una vita abbandonata a se stessa; tradito da chi l’ha messo al mondo, catapultato in una società piena di insidie e di inganni. Enne Enne è l’immagine di un futuro eroso dalla delusione, dalla disistima, dalla mancanza di riferimenti. Non conosce l’amore, non sa distinguere un abbraccio da una violenza. La sua è una vita randagia che oscilla tra la rabbia e il risentimento, tra la sete di vendetta e la voglia di farla finita. “Siamo errori di una notte, orgasmi ciechi, semi buttati in un campo da una mano frettolosa e incosciente. Accaduti più che concepiti; espulsi più che partoriti.” È una della tante vite che il mondo ha generato per poi trasformarle in un problema difficile da gestire. Solo la Morte vorrebbe stringerlo nel proprio grembo; a lei, infatti, Enne Enne si rivolge come a una madre, donandole un fiore. Ai suoi piedi lui giace, sconfitto, mentre lei intona il suo ultimo struggente valzer. Zerovskij decide di strappare Enne Enne alla morte e di prendersene cura. Aveva raccolto questo seme ripudiato in un vecchio vagone abbandonato. Lo ritrova adesso, ancor giovane ma già sull’orlo dell’abisso. Vorrebbe trarlo in salvo, dargli una nuova opportunità, quella fiducia che nessuno mai gli ha accordato. Questo povero ragazzo è figlio dell’incomprensione, destinatario di un tracciato già prestabilito; espropriato dai sogni e dalle sue aspirazioni più vere. La sua paura è figlia di quella di chi l’ha messo al mondo; la diffidenza e l’odio gli unici sentimenti che gli sono stati instillati. Il mondo è, in fondo, come noi lo facciamo. Sì, è vero, la vita è stata ingenerosa con lui; il padre, uno che “dice no, a che serve la cultura. Perché Shakespeare a lui gli fa paura. Ti manda a scuola ma, in fondo alla cartella c’è tanta crudeltà e una rivoltella.” Però, non tutto è perduto. Lui può fare la differenza e assumere il controllo di questa stazione che è la vita. Zerovskij gli cede la sua divisa di capostazione: “Ti andrebbe di cambiare il mondo con me? Di riprovarci un’altra volta io e te?”. Gli rammenta che sono “i pensieri che muovono le cose”. È l’atteggiamento nei confronti della vita che fa la differenza. Enne Enne, ultimo reietto di questa società, rappresenterà il riscatto, la possibilità di un futuro ancora realizzabile, perché anche “dal letame prima o poi un bocciolo affiora”. Così Morte rinuncia a portarlo con sé e si tramuta in Vita. Morte e Vita sono, dopo tutto, le due facce della stessa entità: “Sono la parte bianca del mio lavoro” dice Vita “La gemella buona di colei che porta via speranze e vanità… Poiché io semino. Lei raccoglie.”.
Tutti sembrano, alla fine, rinascere. Ognuno ritrova la propria collocazione. Adamo ed Eva si ricongiungono, poiché la vita deve, nonostante tutto, continuare. Ognuno deve fare i conti con i propri vizi, i propri peccati; ma deve anche essere capace di assolversi, di pacificarsi con se stesso, perché altrimenti rischia di restare invischiato nel proprio passato, nella melma dei propri fallimenti. Il Dio di Zerovskij non fornisce alibi o autoassoluzioni, ma sa perfettamente di che materia è fatto l’uomo, e quanto sia bizzarro. Non siede in un confessionale, ma cammina su quei marciapiedi malati di realtà dove “È la vita che passando sporca un po’ le dita… Lì sta il mondo…”. È lì che Zerovskij si è formato, è lì che ha sofferto, gioito, amato. Zerovskij è un angelo che media tra Dio e l’uomo; un angelo che si trova a proprio agio tanto con la suora bigotta quanto col travestito marchettaro; ha saputo cedere ai propri impulsi senza remore, ha saputo mostrare al mondo la sua faccia schietta; rimanendo severo, anche col fondotinta e il rossetto. Il Dio di Zerovskij non è un manifesto, e non è quello di chi crea esclusioni e divisioni. Perciò nell’arena in cui convergono uomini e donne di tutte le età e d’ogni condizione (l’arena di Zerovskij) avviene qualcosa che in nessuna chiesa si era mai verificata; tutti lo invocano, lo cantano, se ne sentono coinvolti: Zerovskij è riuscito ad avvicinare Dio agli uomini, forse più e meglio di qualunque papa o predicatore da pulpito.
Suona la campanella. Una voce annuncia che è l’ora della medicina. Forse abbiamo assistito solo a scene da manicomio. Forse è la follia l’unico motore della vita dell’uomo. Lo spettacolo è finito. Tocca a noi, ora, intraprendere il nostro viaggio di ritorno verso casa.
Zerovskij – Solo per amore ha coinvolto un cast artistico di grandi proporzioni ed eccellenza: i 30 coristi e i 61 elementi d’orchestra della Franciacorta, diretti dal M° Renato Serio (che ha curato pure gli arrangiamenti); i 7 attori protagonisti, guidati da Vincenzo Incenzo (aiuto regia e coautore dei testi): Alice Mistroni (Eva), Claudio Zanelli (Adamo), Leandro Amato (Tempo), Marco Stabile (Odio), Cristian Ruiz (Amore), Luca Giacomelli Ferrarini (Enne Enne) e Roberta Faccani (Morte/Vita); il corpo di ballo, con le coreografie di Bill Goodson; il ruolo-cameo di Gigi Proietti, nelle vesti di un barbone dinamitardo; Pino Insegno, voce fuoricampo di Dio; Manuela Moreno, nelle vesti di un’inviata di “TeleCerchi” e, non ultimi, i musicisti: il fido Danilo Madonia (che ha curato la pre-produzione dei commenti sonori), Paolo Costa, Lele Melotti, Bruno Giordana e Stefano Senesi.
L’opera, rappresentata tra luglio e settembre 2017 in alcuni dei palchi più prestigiosi d’Italia (cinque date al Centrale Live di Roma, una al Collisioni Festival di Barolo, una al Teatro del Silenzio di Lajatico, due all’Arena di Verona e due al Teatro Antico di Taormina) era stata anticipata a maggio dello stesso anno dall’uscita dell’omonimo album in studio. A marzo 2018 è approdata nei cinema, nella versione ridotta distribuita dalla Lucky Red; a maggio, infine, è uscito il doppio album della versione live, pubblicato dalla Tattica. Al successo di critica e pubblico ha fatto seguito anche il riconoscimento da parte della giuria del Global Film & Music Fest di Ischia, che ha voluto assegnarle il prestigioso premio Ischia Music Legend Award. Zerovskij – Solo per amore è insieme la celebrazione e la sintesi perfetta di mezzo secolo di instancabile percorso artistico. L’allestimento ha i suoi illustri antecedenti in altre due opere di ibridazione tra musica e teatro: EroZero (1979) e Tutto Zero (1996). Alcuni brani ripescati dal vecchio repertorio (come Motel, tratto dall’album Trapezio, 1976; Potrebbe essere Dio, tratto da Tregua, 1980; Padre nostro, Marciapiedi e La stazione, tratti da Artide Antartide, 1981; Infiniti treni, tratto da Soggetti smarriti, 1986; Siamo eroi e Danza Macabra, tratti da Zero, 1987) fanno da trait d’union con le nuove partiture, segno della lunga genesi di questo progetto ambizioso. Un’opera totale, vitale, di altissimo impegno etico e civile, un itinerario mentis che affronta con coraggio i grandi temi dell’esistenza, quasi un testamento.
Nei panni di Zerovskij Renato Zero riconferma la fedeltà ai suoi ideali di sempre, la vocazione e l’aderenza alla strada, all’uomo, alla vita. Solo per amore.
Lillo Portera
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Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 35 | Giugno 2018.
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Faccio i complimenti per aver scritto questa recensione perché è completa e descrive perfettamente, facendomi capire meglio il capolavoro di Renato Zero.