di Massimiliano Sardina
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 35 | Giugno 2018.
Il Genio dei Carpazi, il Danubio del Pensiero, il brillante Conducǎtor, così veniva apostrofato Nicolae Ceaușescu dalle sue folle adoranti. La dittatura del tiranno nei territori affamati della Romania e della Moldavia si è protratta dal 1965 al 1989. Stretta nella morsa della rigida politica comunista (di fatto un regime totalitario) la popolazione langue tra mille privazioni, e a farne le spese sono soprattutto i bambini. Decine di migliaia di bambini. Sono gli enfants du diable, i figli del diavolo, un diavolo tronfio e pasciuto che rispondeva al nome di Nicolae Ceaușescu. Il tiranno inneggiava alla procreazione e la promuoveva con ogni mezzo. Il suo paese necessitava di un esercito più nutrito perché, a sua detta, il nemico mondo occidentale era più che mai vicino ad attaccare. Il popolo gli credeva e viveva nella paura. I bambini dovevano venire alla luce (almeno quattro per donna) anche in mancanza del cibo necessario per sfamarli. Il Decreto 770-1966 della Repubblica Socialista di Romania parlava chiaro: “In conformità alla legge, si ricorda che: i metodi contraccettivi sono riservati alle donne con meno di quattro figli; l’aborto è proibito alle donne con meno di quarantacinque anni che non hanno dato alla luce quattro figli; tutti i cittadini che sono a conoscenza di un aborto sono tenuti a denunciarlo alle autorità; le donne ferite in seguito a un aborto clandestino non potranno essere curate finché non avranno denunciato la persona che ha procurato l’aborto.” Lo martellava la radio e l’unico canale televisivo di Stato, ma soprattutto lo potevano leggere le dirette interessate su una grande targa affissa nei reparti maternità degli ospedali.
La vicenda narrata dalla scrittrice moldava Liliana Lazar in Enfants du diable (I figli del diavolo, Edizioni 66THAND2ND, 2018) travalica il medium del romanzo per imporsi agli occhi del lettore contemporaneo alla stregua di una cruda pagina di Storia. Una Storia molto vicina nello spazio e nel tempo, con un epilogo riconducibile alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso. Solo l’altro ieri. La protagonista del romanzo è Elena Cosma, una Moașǎ (ostetrica) che svolge le sue mansioni di addetta alle nascite presso l’ospedale di Bucarest. Siamo intorno alla metà degli anni Ottanta. In città, come nei paesini sperduti tra le campagne, la povertà è condizione cronica per larghe frange di popolazione. Classi basse e medio-basse condividono una quotidianità fatta di razionamenti d’acqua, cibo e corrente elettrica. Decenni di reiterate privazioni stagnano in un presente di passiva e disarmata rassegnazione. Per molti nuclei familiari una gravidanza indesiderata piombava come una tragedia nella tragedia (una bocca in più da sfamare minava una sopravvivenza già di per sé difficile e precaria). Le famiglie molto numerose godevano sì di sussidi, ma di risibile entità; più corposa era invece la tassa sul celibato. «Procreate, compagne, questo è il vostro dovere patriottico!» così tuonò Ceaușescu di fronte al Consiglio nazionale delle donne nel febbraio 1984. L’abbandono era dunque una pratica diffusa e consolidata, così come l’aborto clandestino (quest’ultimo con esiti più o meno felici). In un caso come nell’altro il dramma era tutto femminile. Per sbarazzarsi dell’indesiderato si ricorreva a diversi rimedi, tutti estremamente pericolosi: il raschiamento con acqua e aceto, l’iniezione di aspirina e alcol, bagni in acqua bollente, decotti di erbe, cocktail di farmaci e perfino l’introduzione di ferri da calza. In molti casi le donne agivano in solitudine, per disperazione. I neonati abbandonati legalmente con parto anonimo nelle strutture ospedaliere rimanevano al nido per i primi tre anni e poi passavano nelle cosiddette “case dei bambini”, un modo gentile per definire gli orfanotrofi.
Il compito essenziale di una buona Moașǎ era quello di sorvegliare le donne incinte e, soprattutto, di farle desistere dalla tentazione di abortire. Elena Cosma in questo era una vera professionista, ma all’occorrenza, per incrementare il suo misero stipendio da ostetrica, praticava anche interruzioni di gravidanza. Era vedova e incattivita col mondo per non aver avuto figli. Così, «sbarazzare le altre di ciò che lei non poteva avere era una specie di rivalsa, le dava un senso di potere.» Desiderosa di appagare questo suo sogno di maternità stringe un accordo con una partoriente e letteralmente compra un neonato, un esserino coi capelli rossi che battezzerà Damian. Per paura che la madre biologica ci ripensi Elena chiede e ottiene un trasferimento a Prigor, un paesino sperduto nel cuore della Moldavia. Qui si ritroverà a prestare servizio in un orfanotrofio divenendo, suo malgrado, testimone di un orrore di Stato perpetrato nell’indifferenza generale. Da un lato c’è Damian, il figlio comprato, sul quale la donna riversa amore e protezione maniacali. Dall’altro ci sono gli enfants du diable, un esercito di diseredati allevato nella miseria e nella violenza. “La casa dei bambini” è di fatto un lager, una concentrazione di abortiti alla vita. Sotto Ceaușescu in Romania e Moldavia se ne contavano tantissimi, tutti allestiti fuori dall’abitato, affinché nessuno potesse vedere. Ricoveri maleodoranti e cadenti, luoghi alla periferia dell’umanità. Qui i figli di parti anonimi e tutti gli orfani d’amore scontavano la pena d’esser nati. Per quel poco che avevano, null’altro all’infuori di un’avara elemosina, dovevano ringraziare Lui, il brillante Conducǎtor, fulgido sole della Romania. “I bambini di oggi, avvenire della Patria” recitavano gli slogan patriottici. «Eppure facevano pena a vedersi, quegli orfanelli, con le loro scarpe logore, rabberciate con lo spago, e gli stivali di gomma rinforzati con buste di plastica.»
Espulsi da un ventre indegno per essere accolti in un altro inferno. Denutriti, rachitici, sporchi, cenciosi, resi violenti dalla violenza, abusati, costretti a spurgare l’infanzia in un clima d’orrore, gettati infine sulla strada al compimento dei diciott’anni. «Nelle case per bambini si moriva di malattia, di malnutrizione e a seguito di lesioni. I ragazzini venivano alle mani per un nonnulla, spesso fino a ferirsi in modo grave. Quando accadeva, una manciata di sorveglianti accorreva per separarli a forza di manganellate. I colpi si abbattevano a casaccio, pestando con violenza quelli che non avevano fatto in tempo a svignarsela. Le punizioni, le privazioni, l’alimentazione insufficiente, la mancanza di cure e di affetto generavano ritardi della crescita.» Negli orfanotrofi di Ceaușescu gli orfani veri e propri erano rari. Per lo più si trattava di figli non desiderati, «nati fuori dal matrimonio, in famiglie smembrate, da genitori divorziati, malati, delinquenti, carcerati o vagabondi. (…) Padri e madri disperate si rivolgevano allo Stato e gli affidavano il marmocchio in attesa di tempi migliori. (…) “L’ha voluto lo Stato, che se ne occupi lui, adesso” dicevano per convincersi che i piccoli erano in buone mani.» Per supplire alla penuria di vaccini, di antibiotici e di farmaci primari come il paracetamolo questi bambini venivano curati con le microtrasfusioni (prelievi di sangue ai più forti per somministrarlo ai più deboli), pratica che causò numerosissimi casi di sieropositività. Poi, nel maggio 1986, su questa realtà deformata, adulterata, disumanizzata, si è posato lo spettro radioattivo esalato dalla vicina Chernobyl. Speculari al male perpetrato sui bambini prendono forma mostri che sembrano scaturiti dall’immaginario boschiano: rane a due teste, cuccioli di scrofa maculati di giallo, vitelli senza peli. Alla vista di queste orribili creature la Moașǎ è colta da una premonizione: a questo destino stava andando incontro l’umanità? «Così prese ogni aborto spontaneo come un segno della Provvidenza.» Con la morte del tiranno, nel dicembre 1989, la Romania torna libera.
La Grande Rivoluzione, tanto tardiva quanto benedetta, scende come un’insperata carezza e salva il salvabile. Cominciano a fioccare gli aiuti umanitari e le prime adozioni internazionali. La buona società si mobilita e mette in moto la macchina della solidarietà. Finalmente un po’ di pace. Finalmente la liberazione. L’orrore degli orfanotrofi di Ceaușescu si rivela al mondo nella sua luce più cruda. Gli stranieri, francesi, inglesi, giunti nelle varie strutture con iniziative solidali si trovano al cospetto di una realtà più dura di quanto avevano preventivato. Uno spettacolo straziante, destabilizzante, ben documentato con fotografie e filmati (purtroppo anche da tanti sciacalli del dolore). Più simili a fantasmi che a esseri umani, assuefatti all’invisibilità, questi bambini si offrono allo sguardo degli stranieri senza tradire alcuna emozione. Hanno occhi vuoti, arti contratti. Giacciono inerti come cose abbandonate. L’inedia sembra avergli scavato dentro un vuoto definitivo. Sono un esercito di bambole ammaccate, un allegorico tableau vivant della miseria umana. Dell’infanzia conservano solo l’ossatura minuta e l’aspetto indifeso. Questa è l’immagine che i testimoni sono costretti a rimirare. Questi sono i figli del diavolo, i bambini di Ceaușescu, “avvenire della Patria”. «Nei dormitori, bambini mezzi nudi li guardavano con aria stravolta. Quando qualcuno gli passava accanto non piangevano, gemevano appena. Alcuni soffrivano di rachitismo o di ritardi della crescita. Prostrati in letti muniti di sbarre che ricordavano quelle di una prigione, indossavano, nonostante il freddo, una semplice camicia, non abbastanza lunga da nascondere le parti intime. Abituati com’erano a essere ignorati dal personale, non sembravano cercare il contatto con gli adulti.»
Nelle pagine nude e crude di Figli del diavolo la scrittrice moldava Liliana Lazar impronta un’amara disamina sulla natura umana soggiogata dalla mostruosità del potere. La dittatura non è solo quella esercitata dal tiranno sul suo popolo prono ma, in un respiro più generale, quella del più forte sul più debole, del corrotto sull’innocente, dell’adulto sul bambino. Nell’illuminare pagine di Storia, così drammaticamente recenti, che molti preferirebbero consegnare a una più rassicurante semioscurità, la Lazar non rinuncia ai toni della denuncia, perché responsabili sono anche tutti quelli che sapevano e non sono intervenuti, tutti quelli che fingevano di non vedere, tutta quell’Europa civile, garantista e cristiana che è venuta a piangere sul latte versato. Politiche internazionali più tempestive avrebbero risparmiato tante crudeli e reiterate sofferenze. Il monito della Lazar, infine, travalica gli eventi specifici circoscritti nello spazio e nel tempo perché la Storia, si sa, è destinata troppo spesso a ripetersi senza attingere insegnamenti dalla memoria collettiva.
Massimiliano Sardina
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 35 | Giugno 2018.
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