UN CASO DI POSSESSIONE
LA STORIA DI ELSA
testimonianza di Vitantonio Esposito (don Vito)
(sacerdote a Prarolo, Vercelli, dal novembre 1982 al febbraio 1983)
a cura di Elena De Santis
Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 34 – Marzo 2018
Prarolo è un piccolo comune piemontese in provincia di Vercelli. Oggi conta 666 residenti, potete verificare. Fui trasferito lì, da Napoli, con soli due giorni di preavviso agli inizi di novembre del 1982. Non feci domande, ero stato da poco nominato sacerdote e quello che decidevano i miei superiori non era affar mio. Non avrei battuto ciglio nemmeno se mi avessero spedito in una missione in Congo. Avevo trent’anni e una fede accesa, sincera. Servire messa, celebrare il mio Signore e seminare il grano cristiano erano la mia massima aspirazione. Oggi mi fregio ancora di essere un uomo di fede, ma non ho più nulla di quel giovane ingenuo, imbevuto di catechismo, che tutto affidava nelle mani di Cristo. Alcune esperienze ci cambiano, altre ci mettono alla prova, altre ancora ci devastano. Ma, come ho detto, ero molto giovane, animato da tanti buoni propositi, certo, per tutto il resto però oserei dire che ero il ritratto dell’inesperienza. Di dover lasciare la mia città o la mia regione l’avevo messo in conto, molti miei compagni di seminario servivano chi a Como chi a Milano, solo non avevo immaginato che potesse accadere così su due piedi. Alla fine, pur se preso alla sprovvista, lasciai prevalere l’entusiasmo. Misurarmi con una realtà diversa dalla mia non avrebbe potuto che arricchirmi e fortificarmi. A Prarolo avrei dovuto affiancare don Mauro, prossimo alla pensione, divenuto ormai troppo anziano per tirare avanti la baracca da solo. Questa fu la sola informazione che mi venne data all’atto della partenza. Ero eccitato e pieno di paure. L’idea di insediarmi in un paesino tranquillo, lontano dal caos partenopeo, non mi dispiaceva affatto. Quiete, silenzio, atmosfere d’altri tempi… forse era quello che in fondo avevo sempre desiderato. Pastore di un piccolo gregge, una chiesetta, una piazza e, fuori dall’abitato, le campagne a perdita d’occhio. In treno fantasticavo su questo presepe, ignaro, totalmente ignaro di quello a cui in realtà stavo andando incontro. Un assaggio lo ebbi già la mattina del mio arrivo. Ad accogliermi trovai freddo, nebbia e un paese completamente desolato. Non era certo il presepe che mi ero prefigurato. Un cane zoppo, incrostato di fango, mi seguì a distanza per buona parte del tragitto. Fortuna che riuscii a trovare un passaggio.
La chiesetta dedicata a santa Maria Assunta, patrona dei prarolesi, sorgeva un po’ fuori dal paese, in una frazione di cui adesso non ricordo il nome. Due barchesse convertite a uso abitativo la stringevano da ambo i lati. Piccola, spoglia, a una navata, con una facciata che a malapena si distingueva dai prospetti degli altri edifici. All’interno otto panche, per un totale di ventiquattro posti a sedere, poi un confessionale traballante sulla sinistra, un’acquasantiera in ottone sulla destra e, dietro l’altare, un piccolo crocifisso in legno e stucco. «Primo Novecento» furono le parole con cui mi accolse don Mauro. «…In paese c’è la chiesa madre, non siamo messi così male a Prarolo.» Doveva avermela letta negli occhi la delusione, e dire che ero deluso era dir poco. Altro che paesino, quella era una contrada, un borghetto dove sì e no ci vivevano cinque o sei famiglie. Poco male, mi sarei adattato, me lo sarei fatto bastare. Se Dio mi aveva mandato lì doveva aver avuto le sue buone ragioni. Mi sistemai al secondo e ultimo piano di un piccolo edificio in pietra che sorgeva proprio di fronte alla chiesa. Sotto c’era l’abitazione di don Mauro. La prima settimana trascorse molto lentamente. Alla messa domenicale delle dieci, la prima che officiai, si presentarono solo cinque donne, quattro molto anziane e una giovane della mia stessa età. Don Mauro era di poche parole, o meglio, alternava lunghi silenzi a brevi impennate di sciolta loquacità. Mi sfuggiva qualcosa di lui, capii cosa solo a tempo debito. Era stanco, contava i giorni che lo separavano dalla pensione. Diceva che se ne sarebbe andato a Bellaria, dalla sorella, così in quella frazione di Prarolo ci sarei rimasto io, io solo a governare quel piccolo gregge. Mi ambientai senza difficoltà. Sbrigavo le mie mansioni e il tempo libero lo impiegavo nelle letture e in lunghe passeggiate. Tutta quella tranquillità mi pacificava, ma anche la noia scavava dentro di me e io facevo di tutto per cacciarla via. Era tutto fermo. Diedi la mia disponibilità per il catechismo all’oratorio della chiesa madre, ma mi risposero che c’era già qualcuno che se ne occupava. Far passare le ore in alcune giornate era dura. Mi domandavo quanto sarei rimasto lì, se qualche anno o una vita intera. Era questo che volevo? La quarta domenica per la messa si presentarono solo in tre, due anziane e quella più giovane. La pioggia faceva strage di fedeli in quell’angolo sperduto di Prarolo, o prareu, com’era chiamato nel dialetto locale. Poi, quando la stasi e il torpore si erano ormai fatti cronici, sopraggiunse l’inaspettato. Ecco come andarono le cose.
Ricevetti una lettera da un mio superiore. Strettamente personale, recitava l’annotazione allegata. Vuoi vedere che mi rispostano a Napoli? No, non si trattava di questo. Conservo ancora quella lettera, fu l’inizio di tutto, fu la porta che mi introdusse in un mondo diverso, molto diverso da quello che fino ad allora avevo conosciuto. Se non riportassi per filo e per segno il contenuto di quella lettera la mia testimonianza sarebbe mutila. Eccone il testo integrale:
«Nulla di quanto è scritto su questa lettera dovrà mai trapelare. Confido nella sua assoluta discrezione. So di potermi fidare di lei. L’ho osservata molto attentamente nel corso di quest’ultimo anno, e ho avuto modo in più occasioni di apprezzare la sua serietà e la sua dedizione alla causa. Per questo ho scelto lei. Le manca l’esperienza, è vero, ma non la fede. Si tratta di un caso molto delicato e, adesso posso dirglielo, l’ho mandata lì a Prarolo nella speranza che lei potesse risolverlo, o quanto meno affrontarlo. Perché proprio io, si starà certamente domandando. Me ne assumo la responsabilità, questa decisione è frutto di una mia intuizione. Forse mi sbaglio, ma dobbiamo tentare.» Ricordo che, arrivato a questo punto, interruppi la lettura. Mi colse una strana paura. Un brivido di freddo. Un vuoto allo stomaco. Forse avevo già subodorato qualcosa, non so. Guardai un’immaginetta di San Michele Arcangelo che usavo abitualmente come segnalibro. Per un lungo interminabile istante ebbi la netta sensazione che il demone trafitto stesse puntando il suo sguardo infuocato su di me. Ripresi a leggere con il tremolio alle mani. «…Le sto chiedendo di verificare un caso di possessione.» Avevo letto bene. C’era scritto proprio “possessione”. Lì per lì, tra lo stupore e l’incredulità, faticai ad afferrare il significato esatto della parola. Non capivo cioè, nello specifico, a cosa volesse alludere. Poi, quasi involontariamente, cominciai ad avvicinarmi e a comprendere. «…La vittima si chiama Elsa, e ha solo dieci anni. Forse ha già avuto modo di intravedere sua madre tra le file dei suoi fedeli. È una giovane donna con i capelli rossi. La bambina, stando a quanto mi hanno riferito, ha manifestato segni preoccupanti. Ho esaminato io stesso dei nastri registrati dal contenuto a dir poco raccapricciante, e le confesso che sono rimasto molto turbato. Prenda in mano la situazione, parli prima con la madre e poi, con estrema prudenza, si avvicini alla bambina. Prenda nota di tutte le sue osservazioni. Prima di agire con un esorcismo ufficiale è necessario raccogliere prove inconfutabili.» Esorcismo, ecco un’altra parola remota, improbabile, ma al tempo stesso inequivocabile. «…Sono fenomeni molto rari. In vita mia non ne ho mai incontrati. Forse la piccola ha bisogno solo di una terapia psichiatrica. Forse. Non si lasci suggestionare, valuti tutto dalla giusta distanza e non abbia paura.»
L’indomani, terminata la messa, presi in disparte la donna che mi era stata indicata. «Deve assolutamente vederla.» Esordì così. Era il ritratto della disperazione. Le feci qualche domanda ma lei si limitò a ripetere «Deve assolutamente vederla.» Quel pomeriggio stesso conobbi Elsa. Madre e figlia occupavano una porzione al piano terra della barchessa a sinistra della chiesa. Il capofamiglia era dovuto emigrare per lavoro in Germania. «Da questa parte. Vada avanti lei, padre.» Sembrava aver riposto tutte le sue speranze in me. Aveva un tono supplichevole ma come frenato da un misto di pudore e vergogna. Elsa se ne stava seduta in camera sua sulla sponda del letto. Magrissima, spettinata, inerte, incredibilmente tesa. Guardava nel vuoto verso un angolo in penombra della sua cameretta piena di bambole. Quando entrai, preceduto dalla madre, non sembrò nemmeno accorgersi della mia presenza. Forte dei consigli del mio superiore cercai di approcciarmi con la dovuta misura. La salutai innanzitutto chiamandola per nome. Mi avvicinai di qualche passo, volevo vederla bene in viso ma la madre mi trattenne per un braccio. «Stia tranquilla,» le dissi «ci so fare con i bambini.» Nonostante la mia rassicurazione la donna non mollò la presa. In quel momento, lo ricordo bene, sentii svanire tutta la mia paura. Era solo una bambina di dieci anni, cosa c’era da temere? «…Allora, vuoi dirmi come ti chiami?» Elsa mi rispose con la voce di un uomo adulto mostrandomi finalmente il suo viso. Pallida, le guance scavate, gli occhi vuoti. Io arretrai d’istinto inciampando sul mezzo guscio di una matrioska. Aveva pronunciato una frase in una lingua che mi sembrò russo ma non fui in grado di comprenderne il significato. Cercai soccorso nella madre e vidi che non c’era più. Ci aveva lasciati soli. «Parli il russo?» le domandai, cercando di mascherare il tremolio della voce. Avvertivo una forte insicurezza, mi sentivo in balia di qualcosa che era più grande di me. Infinitamente più grande. Elsa ora mi fissava. Da quello sguardo, reso inespressivo da una sprezzante balorda cattiveria, mi sentii messo a nudo, attraversato, derubato di tutto. Mi leggeva dentro, mi spogliava di ogni segreto. Ma più forte, più forte, mi aggrediva la sua malvagità. Un male puro. Un male senza redenzione. Elsa era solo un involucro. Dentro quelle membra cave albergava un demone nefando, più potente d’ogni mia strategia di difesa, più potente d’ogni preghiera. Indietreggiai ancora. Dovetti uscire dalla stanza. Sottrarmi, almeno temporaneamente, a quell’oltraggio. La mia fede, che credevo salda, ne uscì umiliata. Quella notte non dormii. Sentivo ancora addosso tutto il lezzo di quell’orrore. Difficile spiegare quello che provai. Se dicessi paura mi ci avvicinerei solo vagamente. Ero in uno stato che andava ben oltre la paura. Il mio Dio tremava con me. Ritornai in quella stanza l’indomani e l’indomani ancora. Ci ritornai perché dovevo farlo, perché il mio ministero me lo imponeva, perché quella madre implorava il mio soccorso, perché l’attrazione, forse, era più forte della paura.
Per giorni Elsa non rispose a nessuna delle mie sollecitazioni. La trovavo sempre lì seduta nella stessa posizione, il capo leggermente inclinato, le mani appoggiate sulle ginocchia. Cosa cercavo? Una prova inconfutabile che fosse davvero vittima di possessione? Non mi trovavo forse lì per suffragare quest’ipotesi? Elsa conosceva benissimo le mie intenzioni. Si compiaceva che dubitassi, mi teneva sospeso, destabilizzando ogni mia considerazione. Sapeva tutto di me. Lo capivo, ripeto, da come mi guardava. Le mie visite quotidiane duravano all’incirca un’ora. Sedevo di fronte a lei dando le spalle alla porta. Non si muoveva. Si limitava a respirare, talvolta affannosamente. Non ebbi mai il coraggio di toccarla. Esercitava un enorme potere su di me, eppure non ne abusava mai, un atteggiamento che minava in maniera subdola quella fede cui mi aggrappavo per interagire con lei. Quando meno me l’aspettavo, poi, pronunciava una parola, una mezza frase o emetteva dei suoni. La sua loquacità non andò mai oltre questi cenni sporadici. Termini nonsense in diverse lingue, rebus fonetici che mi si piantavano nel cervello come chiodi acuminati. Ho trascritto la maggior parte di queste “comunicazioni”, ma ogni tentativo di decodificazione si è rivelato vano. Si prendeva gioco di me. «Il prete è caduto» disse una volta. Che interpretazione avrei dovuto dare a quest’affermazione? Pregavo perché avevo bisogno di risposte. Pregavo notte e giorno, in sua presenza e in sua assenza. Pregavo per lenire il senso d’impotenza che mi inchiodava a quella sedia. Pregavo per tentare di attutire l’urto di tutto quel male. Pregavo perché altro non sapevo fare. La frustrazione, l’inadeguatezza mi tenevano in ostaggio, ma mi facevo forza come potevo. Ero lì per lei, dovevo fare qualcosa per lei, dovevo assolvere al meglio la mansione delicata che mi era stata affidata. Se avevano scelto me una ragione doveva pur esserci. L’ostinazione, corroborata dalla fede, mi avrebbe indicato la giusta direzione. Stavo procedendo bene? Mi stavo adoperando per il meglio? Quella mia vicinanza, paziente, rispettosa, avrebbe portato qualche beneficio alla povera Elsa? Le era di conforto la mia presenza?
Attendevo fiducioso un’apertura, uno spiraglio. La salutavo teneramente, le porgevo piccole domande senza forzarla a rispondere. «…Ti va, almeno oggi, di mangiare qualcosa? …Prova ad alzarti, fai qualche passo verso di me. …Come ti senti oggi? Io vorrei solo aiutarti, dimmi cosa devo fare…» Fingevo di non avere paura di lei, e di sicuro non fingevo bene. Per la maggior parte del tempo distoglievo lo sguardo, era più forte di me. Quella sua stasi, gravida e presaga, minacciava in ogni istante di rovesciarsi in uno schianto repentino. Dinanzi a quella sfinge inquietante ero impacciato e indifeso. Diventava sempre più magra, e più deperiva più il suo sguardo si spalancava, allucinato. Solo il male proiettato dal suo sguardo non mutava. Era un’entità viva e operante che si era insediata lì, e lì si nutriva. Un seme avvelenato piantato nella fresca terra. La pena che provavo per la bambina faceva il paio con il timore oscuro che mi incuteva quella bestia che là se ne stava acquattata. Il demone era astuto. Sarebbe stato troppo facile per lui manifestarsi a tutto tondo. Provava più piacere a negarsi, a camuffarsi sotto il drappo del disagio mentale, così da poter pasteggiare indisturbato. Che cos’ero in fondo io al suo cospetto? Uno spettatore inoffensivo, un testimone cui nessuno avrebbe prestato fede. Mi aveva ridotto così. Voleva, ripeto, che continuamente dubitassi. Che la mia fede si riducesse a una realtà accessoria. Cosa stava succedendo a Elsa? Cos’è che la stava divorando, consumandola giorno dopo giorno? L’energia nera che irradiava dal suo sguardo aveva radici nello psichico o nello spirituale? Mi tenne fino all’ultimo su questo ponte e ancora oggi una parte di me è lì, in quell’indefinizione. Nell’ultima settimana le condizioni di salute della piccola precipitarono e il medico ordinò l’immediato ricovero. Elsa si spense lentamente sul suo letto d’ospedale, ufficialmente per complicanze cardiache dovute alla malnutrizione. La relazione che inviai ai miei superiori non si discosta di molto dalla presente ricostruzione. Più che pregare non ho potuto fare. Con ogni evidenza, però, la preghiera non l’ha salvata.
Vitantonio Esposito
Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 34 – Marzo 2018.
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