NDE EXPERIENCE – esperienze di premorte | LA BELLA È ARRIVATA

NDE EXPERIENCE – esperienze di premorte 

LA BELLA È ARRIVATA

testimonianza di Christina Hahn

raccolta da Marie Lange

traduzione dal tedesco di Andrea Pardo

Pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 34 – Marzo 2018

VERSIONE SFOGLIABILE

 

Da Spreenhagen, il piccolo comune del Brandeburgo in cui risiedo ormai da anni, parte un autobus che in meno di due ore mi porta nel centro di Berlino. Quando voglio ritagliarmi un pomeriggio tutto per me ci salto sopra e metto in stand-by lo stress accumulato tra lavoro e problemi vari. Sono una che a un certo punto deve semplicemente staccare, e mi basta poco per rigenerarmi. Nulla mi ritempra meglio di una passeggiata con un coffee to go bello caldo da sorseggiare in tutta tranquillità. Quel giorno non era diverso da tanti altri. Un venerdì d’inizio febbraio, non particolarmente freddo. Unica nota stonata una pioggerellina intermittente. Adoro Berlino. Pur essendo originaria di Halle mi sono sempre sentita berlinese. È la città in cui ho studiato e dove sono cresciuta come persona. Tutte le mie amicizie più importanti, tutti i miei legami più solidi, sono a Berlino. Per lavoro mi son dovuta trasferire, ma la distanza è davvero minima, così appena posso torno a riappropriarmene. Quel venerdì ero particolarmente carica. Avevo stilato un bel programmino: ore 14.00 visita al Neues Museum, ore 17.00 l’immancabile incursione alla libreria Dussmann, ore 18.30 aperitivo con i miei amici storici Jörg e Andreas, ore 21.00 rientro a Spreenhagen con l’ultima corsa della sera. Sono fatta così, ho bisogno di programmare ogni cosa. Il più piccolo imprevisto per me è motivo di panico, così gioco d’anticipo per aver meglio la situazione sotto controllo. Un po’ ansiosa la ragazza… Lo pensi pure, non m’offendo mica, è la verità. Ma torniamo a quel venerdì.

Puntuale come un orologio svizzero varco l’ingresso del museo e mi dirigo dritta verso la camera di Nefertiti. Ho un legame particolare con lei, la Grande Sposa Reale del re Akhenaton. A quell’ora non c’è mai ressa così posso godermela in santa pace. Io e lei da sole. So tutto di questa donna straordinaria vissuta più di tremila anni fa. Un intero settore della mia libreria è dedicato a lei, per non parlare della gadgettistica, tra puzzle-3D, calamite e riproduzioni varie. È la mia piccola mania, fin da quando ero ragazzina, ma non mi chieda di spiegarle il perché. La ragione reale, profonda, sfugge anche a me. Il busto di pietra calcarea e stucco che la ritrae risale esattamente al 1345 a.C., XVIII dinastia, come vede sono preparatissima. È considerato, non a torto, il più grande capolavoro della ritrattistica del cosiddetto periodo di Amarna. Più lo guardi, e per come è collocato puoi girarci intorno, più ne apprezzi la raffinatezza della fattura. Nefertiti non incarna semplicemente la bellezza, ma l’enigma della bellezza. Nulla di così antico ci è mai giunto dietro spoglie così moderne. Sembra una donna del nostro tempo, potrebbe posare per la copertina di Vogue o di Harper Bazar oscurando tutte le altre. Certo, le manca l’occhio sinistro, ma è un dettaglio che passa in second’ordine. Non è una semplice scultura, è lei impressa su quella pietra dipinta. Quando le sto di fronte e penso a quanta storia ci separa provo una strana vertigine. Le faccio visita, tre o quattro volte l’anno, e lei è sempre lì, fuori dal tempo, e sempre più bella. Se mi sono dilungata così tanto su Nefertiti c’è una ragione ben precisa. Adesso ci arrivo.

È una storia strana la mia, e mi rendo conto anche poco credibile. Scriva tutto, riporti tutto di quest’intervista, non ho paura del giudizio di nessuno. D’altra parte, essere creduta o meno per me cambia poco, in entrambi i casi l’esperienza che ho vissuto resta impressa dentro di me. Ecco, ora ritorniamo davvero a quel venerdì. Io entrando notai subito che c’era qualcosa di diverso sul volto della mia bella regina, ma lì per lì lo addebitai a un effetto dell’illuminazione. Non c’era nessuno e regnava un silenzio tombale. La fiera impassibilità del suo volto era mutata in qualcos’altro. La sua orbita sinistra appariva ancora più vuota, quasi cava. Fu quel bianco, di muta biacca, ad attirare la mia attenzione provocandomi uno straniamento. Più l’osservavo e più la vista mi si sfocava. Ricordo una sensazione di crescente leggerezza, poi una perdita graduale dell’equilibrio. E bianco, tanto bianco. Forse mi appoggiai al piedistallo, non so dire con esattezza, perché da quel momento in poi tutto accadde molto velocemente. Svenni. Fui prontamente soccorsa e trasportata nel più vicino ospedale. Un edema cerebrale. Quanto segue si snoda in due racconti distinti: quello dei medici che mi hanno presa in cura e salvata in extremis, e quello che solo io, sottolineo solo io, posso testimoniare facendo appello alla lucidità e alla consapevolezza che mai, nemmeno per un istante, mi hanno abbandonata. Ero sul letto d’ospedale che lottavo tra la vita e la morte, immobile, intubata. Medici e infermieri entravano e uscivano dalla stanza. Io vedevo ogni cosa, sentivo ogni cosa. Non so come spiegarlo, ma ero come affacciata da una zona alta, da qualche parte in corrispondenza del soffitto. Da lì, da quella prospettiva, vedevo me distesa sul letto. Un’immagine nitida, reale, come mi appare lei in questo momento con il suo taccuino e il suo registratore. Vede, questa è già un’esperienza di per sé destabilizzante: rimirarsi faccia a faccia per tramite di uno sdoppiamento, vederci come ci vedono gli altri, dall’esterno. La mia esperienza, però, non si è fermata qui. È andata ben oltre. E quando dico oltre intendo dire esattamente oltre. Bene. Adesso mi segua con molta attenzione. La scena a un certo punto si anima, c’è molta preoccupazione intorno al mio letto, sento frasi concitate del tipo: «…Dobbiamo fare presto! …Dite alla dottoressa di venire subito! …Spostiamola! …Dobbiamo spostarla!» e rumori metallici, porte che cigolano, colpi di tosse. Io da lassù sovrintendo tutto come una di quelle telecamerine di sorveglianza, ha presente? …Finché non diventa tutto nero. Buio pesto. Un’oscurità innaturale, disorientante. Io cerco disperatamente un punto di riferimento, qualcosa a cui appoggiarmi, ma non c’era nulla ovunque mi volgessi. Insperato, provvidenziale, ecco comparire in lontananza una specie di forellino, un puntino bianco. Così, senza pensare nulla in particolare, prendo a dirigermi verso il puntino, e mentre procedo questo cresce, si allarga, lascia filtrare più luce. Provi a figurarsi la scena: sono nel buio e di fronte a me c’è la luce. Pressappoco come quando si viaggia in auto in una galleria, ma senza dettagli come cemento, asfalto o catadiottri, solo il buio e la luce fuori dal tunnel. Ho reso l’idea? La luce mi chiama, mi attira, mi invita a raggiungerla. Serba per me qualcosa di meraviglioso, di irrinunciabile. Ne sono pervasa. Non desidero altro che di raggiungerla, di varcarla, e più avanzo più acquisisco leggerezza e gioia. Bianca, trasparente, soffice, calda. Una luce infinitamente buona che non appartiene a questo mondo. «…La bella è arrivata» sento dire. La voce, credo di donna, che ha proferito queste parole veniva dalla luce stessa, proprio davanti a me. Una voce antica, così familiare sebbene non l’avessi mai udita prima. Un passo ancora e l’avrei raggiunta. Soltanto un passo, ne ero consapevole, mi separava dall’ingresso preannunciato dalla luce. Ero in pace. Ero felice. Tutto in me vibrava d’amore. Ecco…

Ora immagini d’essere strattonata violentemente nel bel mezzo del sogno più bello della sua vita. Accadde che mi sentii tirare indietro, trascinare di forza, proprio sul più bello. Mi ritrovai in un bagno di sudore, piena di dolori, a contatto con le lenzuola rigide di quel maledetto letto d’ospedale. Piangevo, sussultavo. Ero contrariata, nervosa, arrabbiata. Li avrei presi tutti a schiaffi, uno per uno. Come si erano permessi, mi dicevo, di interrompere il mio viaggio, di disturbarmi in un momento così importante!? Non si erano accorti, quegli odiosi ometti in camice bianco, di quanto stavo bene!? …di quanto ero felice!? «…Te la sei vista brutta. Ora sei fuori pericolo.» tentò di rassicurarmi una delle infermiere. Io però non mi rendevo conto della situazione, ero proiettata altrove, ancora impregnata di quella luce, più di là che di qua, e mi ci son voluti giorni per realizzare, per risintonizzarmi. Solo a distanza di tempo, riavutami completamente, ho analizzato per filo e per segno l’esperienza che ho vissuto. All’inizio non sapevo come elaborarla, come gestirmela. Piano piano ho imparato a conviverci. Le esperienze di premorte non le puoi ridurre a semplici ricordi. Ti cambiano. Rimodellano il tuo approccio alla vita. Parlarne per me è stato importante, e questa volta in modo particolare, perché mai ero scesa così nel dettaglio. Molti mi hanno detto: hai sognato. Altri, che la suggestione gioca strani scherzi. In pochi mi hanno creduta. Fatto sta che la mia testimonianza collima con molte altre simili e questo mi rincuora, avvalora ogni mia singola parola. Nel mio caso però, mi consenta di sottolinearlo, c’è anche, come dire, una nota arcana. «La bella è arrivata», quella frase che ho sentito scandire quand’ero avvolta dalla luce, significa “Nefertiti”, è la traduzione letterale del nome della mia regina. Vede come il cerchio si chiude. Al di là di ogni congettura, mi piace pensare a quelle parole come a un codice di benvenuto, una formula d’accoglienza. Le mie visite al Neues Museum non si sono diradate. Ora non è solo l’ammirazione a guidarmi lì, ma un’immensa gratitudine. Nefertiti è stata il tramite di questa mia esperienza misteriosa e magnifica, ed è questo che provo per lei: gratitudine. Quanto abbiano inciso il caso, l’immaginazione, la suscettibilità, la suggestione in questa mia vicenda non saprei dire, e francamente non me ne importa. So solo che dentro quella luce ho provato completo appagamento. Ero arrivata. Ricongiunta. Indicibilmente felice. Questo è quanto. Ne ho parlato a cuore aperto. Non pretendo di essere creduta, né da lei né dai suoi lettori, ma ascoltata sì, e questo mi basta.

Christina Hahn

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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 34 – Marzo 2018.

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